RECENSIONI DI CARMELO CICCIA

PUBBLICATE A DECORRERE DA LUGLIO 1995

Avvertenza

Questa raccolta decorre dal mese di Luglio del 1995 perché prima mancavano strumenti elettronici di scrittura e archiviazione. Pertanto recensioni e articoli vari di Carmelo Ciccia pubblicati dal 1953 fino al mese di Giugno del 1995 potranno essere letti soltanto presso qualche emeroteca, nei giornali e riviste in cui a quell’epoca sono apparsi, secondo le indicazioni fornite nella seguente pagina telematica:

https://www.carmelociccia.com/scritti

Le testate giornalistiche in cui dal 1953 ad oggi sono apparsi scritti di C. Ciccia risultano n° 127, fra cui 23 quotidiani, secondo la seguente pagina telematica:

https://www.carmelociccia.com/giornali-e-riviste-in-cui-sono-apparsi-scritti-di-carmelo-ciccia

In questa raccolta non sono compresi gli scritti in latino di C. Ciccia apparsi nella rivista in lingua latina “Latinitas”, dato che poi sono stati riordinati e ripubblicati nel libro del 2010 Specimina latinitatis, in cui ora sono tutti leggibili.

Gli autori recensiti sono collocati in ordine alfabetico nell’ambito delle rispettive parti; e relativamente ad uno stesso autore o argomento presente nell’indice ci possono essere in successione diverse recensioni e articoli vari, che quindi bisogna esplorare tutti fino al cambio dell’autore o dell’argomento.

Si precisa che fra le recensioni sono comprese anche le prefazioni apparse in vari libri.


Indice

Premessa: La recensione

A

• Accademico Veneto Sconosciuto, La Galatea / Poema lirico con l’allegorie dell’Academico Veneto Sconosciuto

• Sandro Allegrini, Percorsi di lettura per Domenico Defelice

• Carla Amirante Romagnoli, Tele bianche, bianche pagine

• Roberto Andò, Diario senza date o della delazione

• Brandisio Andolfi, Dettati dell’anima

• Antonio Angelone, La ruota della fortuna (Mo ze sposa Peppnèlla)

• Antonio Angelone, Storia di una comunità dalle lontane origini: Forli del Sannio

• Antonio Angelone, Le avventure di Fiordaliso / Tra disincanto e realtà

• Sandro Angelucci, Il cerchio che circonda l’infinito

• Sandro Angelucci, Verticalità

• Sandro Angelucci, Titiwai

• Annali della Fondazione Verga

• Mario Pietro Ardesian, Dai Castelli al Buco del Piombo

• Giovanni Pietro Arrivabene, Pontifici sit musa dicata Pio / “La mia poesia sia dedicata al pontefice Pio”, a cura d’Orazio Antonio Bologna

• Giuseppe Aspesi-Franco Piacentini-Mario Rossini (a cura di), Segni per la memoria / Epigrafi in Samarate

• Sandro Attanasio, Sicilia senza Italia / Luglio-agosto 1943

• Mercedes Auteri, L’isola del fuoco

• Autori vari, Da Conegliano ad Auschwitz

• Autori vari, Le Muse a tavola

B

• Giusi Baglieri, Ho seminato parole

• Dante Balboni, La “Divina Commedia” poema “liturgico” del primo Giubileo

• Luigino Baldan, Principali mestieri ed attività artigianali in Conegliano

• Marino A. Balducci, Classicismo Dantesco Dantesco / Miti e simboli della morte e della vita nella Divina Commedia

• Diletta Barone, Sull’acqua e sul vento

• Lucio Bartolotta, Maria Messina

• Salvo Basso, Un pensiero che non finisce

• Angelo Battiato, Canticu di’ Cantici (1)

• Angelo Battiato, Canticu di’ cantici (2)

• Antonietta Benagiano, Poetiche sinapsi

• Placido Benina, Fidi divina

• Alfonso Beninatto, L’ultima fatica di Josef

• Giacinto Bevilacqua, Giovanni Micheletto il “conte di Sacile”

• Rino Walter Bianconi, Correggioli / Notizie sul nostro paese

• Orazio Antonio Bologna, Manfredi tra scomunica e redenzione

• Orazio Antonio Bologna, Manfredi tra scomunica e redenzione e Manfredi di Svevia / Impero e Papato nella concezione di Dante

• Marino Bonifacio, Cognomi dell’Istria / Storia e dialetti, con speciale riguardo a Rovigno e Pirano

• Yves Bonnefoy, Le assi curve (a cura di Fabio Scotto)

• Renato Borsotti, Sulla strada di Zenna (1)

• Renato Borsotti, Sulla strada di Zenna (2)

• Renato Borsotti, Sulla strada di Zenna (3)

• Vincenzo Bòsari, Prelùdio (1)

• Vincenzo Bòsari, Prelùdio (2)

• Luigino Bravin, Srebrenica non è lontana

• Luigino Bravin, Pietre, muri, panorami, storia e storie / Un viaggio nel bacino del Piave

• Arnaldo Brunello, Trévise aspects et images

• Arnaldo Brunello, Exercices d’un Italien amoureux du français

• Carmelo Bucolo, Il viaggista. Suggestioni mediterranee

• Giovanni Buffo, Colorati sogni (1)

• Giovanni Buffo, Colorati sogni (2)

• Giovanni Buffo, Sillabario del nuovo giorno

• Giovanni Buffo, Colorati sogni e Sillabario del nuovo giorno

• Titti Burigana, La zattera dei desideri

• Titti Burigana, Sara

• Giorgina Busca Gernetti, Onda per onda

C

• Salvatore Calleri, Parole per mio figlio

• Salvatore Calleri, Giuseppe Mazzini e la Roma del popolo / La repubblica romana del 1849

• Salvatore Calleri, Naxos e Tauroménion

• Salvatore Calleri, La zampata del Gattopardo

• Emanuele Capitanio, Vita e percezioni di §, anonimo ignoto

• Enzo Capitanio, Germogli in un vaso di terra

Enzo Capitanio, Voli di liberi uccelli

Enzo Capitanio, 2084

• Giorgia Capozzi, La genesi di Spasimo di Federico De Roberto

• Bruno Carmeni, Judo per noi / Judo per ciechi sportivi / Judo da colorare

• Giuseppe Carrieri, Aria d’ottobre

• Alfio Cartalemi, Michelangelo Virgillito e il suo amore per Paternò

• Pino Caruso, Il silenzio dell'ultima notte

• Maria Rita Ceccon, Blu

• Mimmo Chisari, Ducezio e i Siculi

• Mimmo Chisari, Mulini ad acqua nella valle del Simeto

• Giorgio Cipulat, Vetri appannati

• Giancarlo Codato, Disamore

• Giuseppe M. Conte, Il sogno di Eliàde e altre storie

• Barbarino Conti, Umili e illustri, penne e pennelli, onorevoli e poverelli

• Barbaro Conti poeta dell’inquietudine

• Barbaro Conti, Fantasmi teologi

• Felice Conti, Una folata di scirocco

• Filadelfio Coppone, Il sogno di una favola

• Filadelfio Coppone, Meandri di pace

• Filadelfio Coppone, Voci sparse nell’anima

• Spiritualità e poesia in Filadelfio Coppone

• Filadelfio Coppone, Abdur e l’elefantino

• Beatrice Cornado, Poesie e Dove l’anima respira

• Nunziata Corrado Orza, Dante, poeta nazionale ed europeo

• Antonio Crecchia, In morte del papa magno

• Carlo Cuini, Novità nella Divina Commedia / acrostici e motivi polemici

• Angelino Cunsolo, Don Cesare / Chiddu ca campa ’o scuru

• Carmelo Cuono, Il treno del Sud

• Giovanni Cutrufelli, Venti metri sotto Berlino

D

• Gianni D’Affara-Gert Thalhammer, Il lago di Millstatt

• Eugenio Dal Cin, Cognomi di Mansuè e Portobuffolè (1)

• Eugenio Dal Cin, Cognomi di Mansuè e Portobuffolè (2)

• Eugenio Dal Cin, Cognomi di Susegana

• Eugenio Dal Cin, Cognomi di Godega: origine e curiosità

• Eugenio Dal Cin, I toponimi nella Divina Commedia

• Laura Da Re, Cuccioli vitali

• Laura Da Re, Le donne del porto / Libro dei mesi 2004

• Laura Da Re, Le donne del porto (liriche)

• Laura Da Re, Poeti e bambini

• Romana De Carli Szabados, Miti imperiali / Rose rosse per Sissi (1)

• Romana De Carli Szabados, Miti imperiali / Rose rosse per Sissi (2)

• Romana De Carli Szabados, Gli studi sugli Asburgo

• Romana De Carli Szabados, Strauss - il mito

• Romana De Carli Szabados, Destini Imperiali / Aiglon figlio di Napoleone

• Romana De Carli Szabados, L’imperatore Carlo I d’Asburgo

• Romana De Carli Szabados, Kaiser Franz Joseph I / Epistolario Imperiale

Romana De Carli Szabados, Finis Austriæ / La santità dell’ultimo imperatore

Romana De Carli Szabados, Fine della Grande Guerra sulla via di casa / Vinta la guerra, persa la pace

Domenico Defelice, Alpomo

Domenico Defelice, Pagine per autori calabresi del Novecento

Domenico Defelice, Rudy de Cadaval / Una vita per la poesia

Domenico Defelice, Francesco Pedrina

Aldo De Gioia-Anna Aita, La lunga notte / le quattro giornate di Napoli

• Vincenzo Dell’Utri, In viaggio con Dante alla scoperta del senso della vita / Inferno

• Vincenzo Dell’Utri, In viaggio con Dante alla ricerca di sé stessi / Il Purgatorio

• Vincenzo Dell’Utri, Il Paradiso di Dante rivisitato nel 7° centenario

• Silvano Demarchi, Il richiamo della montagna e Incomunicabilità

• Silvano Demarchi, Il battello d’argento

• Silvano Demarchi, Questioni di estetica

• Silvano Demarchi, Le strade alte del cuore

• Silvano Demarchi, Stupore

• Silvano Demarchi, Di religione e di etica –Religione e fede, bene e male

• Silvano Demarchi, Luce d’Oriente

• Silvano Demarchi, Foglie d’autunno

• Silvano Demarchi, Poeti del Novecento

• Silvano Demarchi, Otto studi sulla letteratura tedesca, da Rilke a Fürnberg

• Silvano Demarchi, Luci al crepuscolo

• Silvano Demarchi, Prospettive etico-religiose / Zoroastrismo religione dimenticata

• Silvano Demarchi, Poesie scelte (1990-2006)

• Silvano Demarchi, Poti minori dell’800 italiano

• Silvano Demarchi, Sogno e realtà e L’arco e le frecce / Riflessioni etico-sociali

• Giulia De Marco, Una magia del Barocco siciliano: Via Crociferi

• Francesco De Napoli, Nel tempo - A Zenia

• Antonio De Rosa, Riflessi di vita

• Antonio De Rosa, Oltre le porte del sole

• Paolo De Töth, Il soldato di Cristo Stanislao Medolago Albani / Profilo biografico fino al 1904 a cura di renato Borsotti, Publimedia, San Vendemiano, 2019.

• Francesco Maria Di Bernardo Amato, Galleria degli Affari

• Francesco Maria Di Bernardo Amato, Il silenzio del Lete e Le porte di Aprile

• Salvo Di Matteo, Salvo Di Matteo, Paternò / La storia e la civiltà artistica (1)

• Salvo Di Matteo, Salvo Di Matteo, Paternò / La storia e la civiltà artistica (2)

• Salvo Di Matteo, Salvo Di Matteo, Paternò / La storia e la civiltà artistica (3)

• Glauco Dinelli, Lontani anni verdi

• D’Inessa, Gridare non ha senso

• D’Inessa, Schegge di lava

• Ninni Distefano Busà, Oltre il segno tangibile

F

• Federico Faido, Non arrenderti

• Iliana Falcone, Altrove (1)

• Iliana Falcone, Altrove (2)

• La poetessa Iliana Falcone

• Nilo Faldon, La pieve rurale di San Pietro di Feletto nel contesto storico di Conegliano

• Leandro Ferracin, Un argine di nebbia

• Alfio Ferrisi scrittore della memoria

• Egidio Finamore, Primo Novecento letterario

• Egidio Finamore, I nomi locali d’Abruzzo / Origine e storia

• Egidio Finamore, Satire e versi sciolti

• Egidio Finamore, Filosofia del Novecento in Italia

• Egidio Finamore, Antologia di Nuovo Frontespizio

• Egidio Finamore, Autori e libri della letteratura spagnola dal siglo de oro al Novecento

• Egidio Finamore scrittore dai vasti interessi

• Luigi Floriani, Dall’Ucraina al Don / L’ultimo viaggio di Bepi bersagliere

• Francesco Fioretti, Il libro segreto di Dante / Il codice nascosto della Divina Commedia

• Enrico Fraulini, Belgrado / la città dai sette castelli

• Enrico Fraulini, L’ultimo doge

• Carmelo Fucarino, Città e ancora città

• Carmelo Fucarino, Percorsi di labirinto

• Carmelo Fucarino, Se nulla cambiò / I garibaldini a Prizzi

G

• Renato Gabriele, Le accidiose commedianti

• Emilio Gallina, Galaverna

• Emilio Gallina, Questo resto di giorno

• Emilio Gallina, Sulla soglia del tempo

• Giovanni Garra Agosta, La biblioteca di Giovanni Verga

• Licio Gelli, Rimembranze di primavere perdute e Lacrime sofferte (1)

• Licio Gelli, Rimembranze di primavere perdute e Lacrime sofferte (2)

• Ferruccio Gemmellaro, L’omologismo (1)

• Ferruccio Gemmellaro, L’omologismo (2)

• Ferruccio Gemmellaro, La pulzella delle specchie e La mercenaria

• Ferruccio Gemmellaro, L’amante italiana di Annibale: Iride la salapina

• Alfredo Giacomelli, Nel segno del tempo

• Giancarlo Gianazza – Gian Franco Freguglia • Filippo Giordano, Rami di scirocco

• Filippo Giordano, Il sale della terra

• Autori vari, Girare attorno al piccolo per evocare il grande / 50 schede critiche su poesia e prosa di Filippo Giordano

• Filippo Giordano, Minuetti per quattro stagioni

• Filippo Giordano, Sussurri del cielo e mormorio di numeri primi

• Emanuele Giudice, Il viaggio la memoria il sogno e Una stagione di rabbie

• Francesco Alberto Giunta, Karin è tra noi

• Francesco Alberto Giunta, Solitaire / Viaggio “clandestino” nell’infinito letterario e umano del Novecento

• Francesco Alberto Giunta, Odisseus / Il secolo breve / Conoscenza e solitudine

• Francesco Alberto Giunta, Pensando a Paternò / Racconti fugaci

• Corrado Gizzi, La Monarchia di Dante Alighieri

• Mario Grasso, La crescenza / romanzo di misteri italiani

• Alfredo Grimaldi, Le zitelle

I

• Antonia Izzi Rufo , Per una lettura della Vita Nuova di Dante

J

• Alessandra Jesi Soligoni, L’eredità dei Bisnenti

• Alessandra Jesi Soligoni, Centauro di carta

L

• Mario Landolfi, La famiglia nel teatro di Eduardo

Charles Largot- Rosanna Spolaore, Sinergie

• Vincenzo La Russa, Frizzino al selz

• Vincenzo La Russa, Il ministro Scelba

• Vincenzo La Russa, Amintore Fanfani

• Vincenzo La Russa, Giorgio Almirante / Da Mussolini a Fini

Salvatore Latora, Mario e Luigi Sturzo. Per una rinascita culturale del Cattolicesimo

• R. W. B. Lewis, Dante Alighieri

• Pasquale Licciardello, La grande Assenza

• Pasquale Licciardello, La grande Menzogna

• Pierfrancesco Listri, Grande dizionario storico dell’unità d’Italia

Maria Teresa Liuzzo, Eutanasia d’utopia

Maria Teresa Liuzzo, L’acqua è battito lento

Maria Teresa Liuzzo, Autopsia d’immagine

Maria Teresa Liuzzo, …una inquieta onda agita le vene

Maria Teresa Liuzzo, L’ombra non supera la luce

Maria Teresa Liuzzo, Genesis

Maria Teresa Liuzzo, Mioosòtide (Non ti scordar di me)

Maria Teresa Liuzzo, …E adesso parlo!

Maria Teresa Liuzzo, Non dirmi che ho amato il vento!

Maria Teresa Liuzzo, L’ombra affamata della madre

Maria Teresa Liuzzo, In veglia d’armi e parole

Maria Teresa Liuzzo, La luce del ritorno

Maria Teresa Liuzzo, Piogge verdi di smeraldi

Anna Lo Giudice, Dell’altra emigrazione / Paternò. Riflessi e casi di Sicilia

Nino Lombardo, Dai normanni ai democristiani / Storia di un Gruppo dirigente (Paternò 1943—1993) (1)

Nino Lombardo, Dai normanni ai democristiani / Storia di un Gruppo dirigente (Paternò 1943—1993) (2)

Luciano di Samosata, Storia vera, traduz. d’Ugo Montanari

Maria Rosaria Luongo, Qualche peso di troppo

Francesco Lusciano, Dov’è Franz Kafka? Marienbad-Praga •1977•2012•

Francesco Lusciano, Il senso della vita / Bios Eros Thanatos

Francesco Lusciano, Italia / Passeggiate / 1. Dal Veneto alla Campania

Francesco Lusciano, Metafisica Infinito Dio Uomo

M

Lucilla Antonia Macculi, Di giorno in giorno

Franco Maria Maggi, Franz Kafka giornalista di Bolzano

• Giuseppina Martinuzzi, Ingiustizia / Canto storico-sociale

• Osvaldo Martufi Bausani, Piercarlo Fayella / Un poeta sulle orme di Virgilio

• Mario Marzi, Materia vivente,

• Mario Marzi, Un cammino / Opera omnia

• Grazia Marzulli, La luce Verticale / Percorsi liminari dello Spirito

• Alessandro Masi, Galateo italiano

• Lorenzo Masuelli, Le Odi / Il Carme Secolare / Gli Epodi

• Lorenzo Masuelli, Occasioni di canto

• Lorenzo Masuelli, Parole tra cielo e terra

• Michele Masutti, Funamboli ignari

• Vincenzo Maria Mattanò, L’originale esegesi gioachimita

• Gustavo Mattiuzzi, Esistenza e vita nella filosofia

• Gabriella Mauciere, La moneta delle Salinelle / Identità di Avola

Pavle Merkù, Slovenska Krajevna imena v Italiji: Prirocnik / Toponimi sloveni in Italia: Manuale

• La scrittrice Maria Messina seguace di Giovanni Verga

• Adriana Michielin, Filo d’erba

• Edi Minguzzi, La struttura occulta della Divina Commedia

• Giuseppe Minneci, Echi del Veneto nella Divina Commedia e Dante e gli animali nella Divina Commedia

• Eugenio Morelli, Il Signor Nessuno (1)

• Eugenio Morelli, Il Signor Nessuno (2)

• Eugenio Morelli, Un po’ per vivere / Un po’ per morire

• Eugenio Morelli ovvero il Signor Nessuno

• Eugenio Morelli, Non solo parole

• Eugenio Morelli, Il gioco delle combinazioni

• Eugenio Morelli, Frammenti di un Mosaico

• Eugenio Morelli, L’acqua del ruscello

• Eugenio Morelli, La salute in Italia / Riflessioni di u medico

• Eugenio Morelli, La solita vita

• Eugenio Morelli, Il buio e la luce

• Fabio Muccin, Tutti in classe!

N

• Nicola Napolitano, Disegnare il tuo nome

• Immacolata Nespoli, Arte e Storia in Benedetto Croce

• Pietro Nigro, Astronavi dell’anima

O

• Franco Orlandini, Negli anni

• Mario Anton Orefice, La storia della botte / Garbellotto dal 1775

P

• Mariateresa Pagano, Col seno di poi

• Guido Pagliarino, La vita eterna / Saggio sull’immortalità tra Dio e l’uomo

• Marta Pagura, Elucubrazioni

• Anna Lisa Palazzo-Pippo Virgillito, La chiesa e l’arciconfraternita di San Giacomo Apostolo Maggiore a Paternò

• Franco Palmieri, Incantati dalla Commedia

• Pietro Panzarino, L' eredità politica di Aldo Moro: pensiero e azione di un uomo libero (1976-78)

• Gino Pastega, Navegar co le stele

• Gino Pastega, La morte inesistente

• Gino Pastega, I miei occhi nel mare

• Gino Pastega, Per strade sconosciute: Itinerario poetico

• Gino Pastega, La casa delle fiaccole

• Lucia Paternò, Un giornalista girovago

• Cleto Pavanetto, Passione e studio a servisio della cultura / Scripta selecta

• Cleto Pavanetto, Le leggi delle Dodici Tavole

• Cletus Pavanetto, Elementa linguae et grammaticae Latinae

• Cletus Pavanetto, Graecarum litterarum institutiones

• Cletus Pavanetto, Romanorum litterae et opera aetatis nostrae gentes erudiunt

• Antonio Perin-Giuseppe Perin, I Perin / Le nostre radici tra Piave e Livenza

• Giuseppe Perin, Refrontolo / volti e immagini del passato

• Saria Pettorosso, Tre sguardi dentro il cerchio

• Carmelo Pirrera, Le mosche

• Vincenzo Pirrotta, Teatro

• Domitilla Pisani Giubilato, Poesie

• Corrado Pittari, Pensieri / Universo • Dio • Anima • Felicità

• Corrado Pittari, Il giardino incantato

• Giorgio Pizzol, Pensiero del limite e limite del pensiero

• Salvatore Porcu, Per la creazione dell’indispensabile ordine mondiale

• Liliana Porro Andriuoli, L’itinerario poetico di Silvano Demarchi

• Liliana Porro Andriuoli, L’itinerario poetico di Silvano Demarchi

• Gian Luca Potestà, Gioacchino da Fiore

• Reanna Pozzebon, Dietro la porta (1)

• Reanna Pozzebon, Dietro la porta (2)

• Mario Puccini, Caporetto

R

• Edoardo Radaelli, La parola Amore

• Joseph Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia e Il Dio di Gesù Cristo / Meditazione sul Dio Uno e Trino

• Virgilio Righetti, Per capire la natura umana / Saggi

• Virgilio Righetti, Parabola infinita

• Giuseppe Risica, Mare dentro Mare e Su nuove vie e antiche forme

• Agostino Rocco, Anno XIII Era fascista, L’isola e Il volo della fenice

• Italo Rocco, Canto dell’umanità

• Giorgio Ronconi (a cura di), Leopardi e la cultura veneta

• Bruno Rosada, Foscolo a Venezia negli ultimi anni della Serenissima

• Sante Rossetto, Totila l’immortale

• Sante Rossetto, L’ultimo pagano. Vita dell’imperatore Giuliano

• Maria Stella Rossi-Olimpia Giancola, Il tombolo nel cuore di Isernia

• Maria e Gigliola Rossi (a cura di), Vincenzo Rossi nella critica

• Vincenzo Rossi, I giorni dell’anima

• Vincenzo Rossi, Platone poeta

• Vincenzo Rossi, Il mondo lirico di Maffeo

• Vincenzo Rossi, Misura e destino nella voce poetica di Paul Courget

• Vincenzo Rossi, Respiro dell’erba / Voce delle rocce

• Vincenzo Rossi, Letture (Amore e fedeltà alla parola) (vol. III)

• Vincenzo Rossi, Garibaldi

• Vincenzo Rossi, Amore e guerra

• Vincenzo Rossi, Una visita al cimitero / Il grillo e Epitaffi

• Vincenzo Rossi, Orazio Tanelli (Poesia ed Esegesi)

• Vincenzo Rossi, Il tarlo

• Vincenzo Rossi, Il fantasma e altre poesie

• Federico Rossignoli, Ciò che chiamiamo fiore

• Francesco Rodolfo Russo, Eros è Thànatos

S

• Sebastiano Saglimbeni scrittore e intellettuale

• Sebastiano Saglimbeni, Cronache del poeta

• Lamberto Salvador, Fra Dante e il Duemila

• Adele Salzano, Vite parallele / Due romanzi e un racconto

• Teresa Salzano, Coloro che ti benediranno io benedirò (Gen 12, 3a) / L’ebraismo vivente visto da Teresa Salzano (a cura di Maurizio Dal Maschio)

• Aurelio Sangiorgio, Sulle tracce di Dante

• Antonio Sartor, Mater semper certa est

• Antonio Sartor, Mi chiamo Huca

• Antonio Sartor, Frammenti di fantasia

• Antonio Sartor, Tre senza due

• Antonio Sartor, Il doppio ritrovato

• Antonio Sartor, Feletto cielo e terra

• Antonio Sartor, Il padre ritrovato

Conclusa la parabola d’Antonio Sartor

• Filippo Sava, L’altro Kipling

• Francesco Scattolin, Il fascio e la tiara / 1929: dal Concordato, il plebiscito

• Robert Schaub-Bonney Gulino Schaub, Il metodo Dante

• Leonardo Selvaggi, L’indignazione poetica

• Leonardo Selvaggi, Vincenzo Rossi / Tra le voci più rappresentative della letteratura del Novecento

• Fortunato Seminara, L’arca

• Luca Serianni (a cura di), Storia della lingua itaiana per immagini

• Carlo Silvano, Voci villorbesi

• Lorenzo Simeone, Forse poesia

• Vito Sorrenti, Amebeo per Euridice

• Alvise Spadaro, Caravaggio in Sicilia

• Antonio Staglianò, L’Abate Calabrese

• Mario Stefani, Una quieta disperazione

• Ugo Stefanutti, Orizzonte degli eventi

• L’eredità di Stefanutti

T

• Orazio Tanelli, Miti nella Divina Commedia

• Piero Tarticchio, Nascinguerra

• Giordano Tarticchio, Storia di un antico borgo dell’Istria / Ricordi di Gallesano rivisitati e ampliati da Piero Tarticchio

• Piero Tarticchio, Storia di un gatto profugo

• Teresa Titomanlio, Vigilia d’arte

• Teresa Titomanlio, Nell’impeto e Misura come miseria

• AA. VV., Appendice a “Vigilia d’arte” di Teresa Titomanlio

• Teresa Titomanlio, Attesa per le risanate sponde

• Imperia Tognacci, Giovanni Pascoli / La strada della memoria

• Imperia Tognacci, Non dire mai cosa sarà domani

• Imperia Tognacci, Traiettoria di uno stelo

• Imperia Tognacci, Natale a Zollara

• Imperia Tognacci, La notte di Getsemani

• Imperia Tognacci, Odissea pascoliana

• Imperia Tognacci, La porta socchiusa

• Imperia Tognacci, L’ombra della madre

• Imperia Tognacci, Il richiamo di Orfeo

• Roberto Tognoli, Pagine di Risorgimento Mantovanoù

• Marina Torossi Tevini, Il cielo della Provenza

• Tomas Tranströmer, I ricordi mi guardano

• Fabio Troncarelli, Gioacchino da Fiore

• Claudio Tugnoli-Pippo Virgillito, La passione di sapere / Angelo Ciravolo, uomo di scuola e di cultura

V

• Enrico Vaglieri, Zio Tita

• Mariangela Galatea Vaglio, L’italiano è bello / Una passeggiata tra storia, regole e bizzarrie

• Roberto Vannacci, Il mondo al contrario

• Andrea Vatta, Il tricolore sul tetto del mondo

• Antonio Venturin Manca Lorenzo Buffon / Istria, Arsia e altre tragedie dimenticate

• Carmelo R. Viola pensatore del nostro tempo

• Pippo Virgillito, La nuova chiesa dello Spirito Santo nella zona Ardizzone di Paternò... Occhio vigile ed eterno di Dio

• Pippo Virgillito, L’edicola votiva della Madonna delle Grazie sulla scalea monumentale di Paternò

• Pippo Virgillito, C’erano una volta a Paternò… i Bastonieri

• Pippo Virgillito, Le edicole votive a Paternò

• Tullio Vorano (a cura di), La comunità italiana di Albona

Z

• Daniela Zamburlin Vescovich, Le fate son tornate / Fiabe e storie del Nordest

• Nerita Zanetti, www.com / L’amore del duemila

• Paolo Ziino, I due Zoppo di Gangi (1)

• Paolo Ziino, I due Zoppo di Gangi (2)

• Paolo Ziino, I racconti della memoria


Premessa: LA RECENSIONE

Il termine italiano “recensione” deriva dal sostantivo latino recensio -nis = “censimento” e poi “revisione critica d’un testo”, a sua volta dal verbo latino recensere = “passare in rassegna, stimare, valutare, giudicare”. In sostanza si tratta dell’esame che un critico fa d’un’opera letteraria o artistica in generale, allo scopo d’orientare i destinatari. È chiaro che per poter essere valida la recensione deve rilevare il contenuto e la forma, i pregi e i difetti dell’opera esaminata, mettendone anche in evidenza motivazioni e connessioni e fornendo — secondo i casi — pareri, suggerimenti e consigli.

Da questa premessa scaturisce la necessità che il recensore di libri sia non un semplice lettore e/o anche lui scrittore, ma una persona competente, cioè una persona — per inclinazione, studi, preparazione ed esperienza — all’altezza del compito, la quale possibilmente conosca varie discipline, come linguistica, letteratura, storia, psicologia, ecc. Infatti, all’occorrenza, il recensore potrà andare al di là del contenuto del libro, arricchendo la recensione con notizie e osservazioni sue personali, riferimenti, collegamenti, opinioni, richiami. Inoltre il vero recensore dev’essere non un amico pronto a scambiare elogi ed altre cortesie né un promotore pubblicitario di libri, teso a procurarne la vendita, bensì soltanto un critico che sappia valutare e dare obiettive indicazioni ai lettori intorno a ciò che nel libro stesso vi è di positivo e di negativo.

Assistiamo oggi ad un pullulare di recensori, che spesso sono semplici autori di qualche libro di versi o di prose improvvisatisi recensori allo scopo di scambiarsi elogi e altre cortesie. Tali recensori snaturano così il carattere originario della recensione, che per la sua etimologia presuppone l’espressione di valutazioni non soltanto positive ma anche negative, quando occorra. Si è arrivati al punto che la direzione di qualche rivista, editrice anche di libri, invia copie dei suoi libri a tutti gli abbonati, essi stessi scrittori, sollecitando delle recensioni: col risultato che per mesi o anni nella stessa rivista si ripetono gli stessi nomi d’autori e gli stessi titoli di libri, in un’interminabile catena di reciproca adulazione, che veramente dà fastidio. Insomma gli scrittori si leggono, si recensiscono e s’incensano vicendevolmente.

E assistiamo ad elogi sperticati di libri in cui gli autori, ad una verifica da parte d’un critico esperto, dimostrano di non conoscere l’uso corretto della punteggiatura e la distinzione fra pausa quantitativa e pausa qualitativa, costringendo la virgola a svolgere ora le funzioni proprie ora quelle d’altri segni di punteggiatura (due punti, punto e virgola, punto fermo). Così si producono periodi confusi e contorti, prolissi e stancanti, come stancante finisce con l’essere un’insistente paratassi, fatta di frasette elementari e magari nominali, affannose e singhiozzanti. A volte non si sa costruire un’architettura di vasto respiro e s’ignorano gli effetti di scorrevolezza dell’ipotassi e la differenza fra periodi semplici, composti e complessi. Altre volte nei sullodati libri si trovano errori di nomi e di date, improprietà lessicali, iterazioni, incostanza dei tempi verbali, scambi di transitivi con intransitivi, mancanza di coesione e di consequenzialità, contraddizioni, inconsistenza o fiacchezza di personaggi e situazioni, dispersività, erronei stili tipografici: per non parlare dei refusi, che vanno pur essi tenuti in considerazione, perché anche dall’impaginazione e dall’aspetto grafico-editoriale il libro assume il suo valore.

Ecco perché sarebbe opportuno che le riviste si dessero una regola al riguardo, non pubblicando più d’una recensione relativa allo stesso libro, e magari scritta da un addetto ai lavori, il quale a sua volta non pubblichi libri da fare recensire agli autori che lui stesso ha recensito.

Ma questa dovrebbe essere una norma deontologica per i recensori: quando hanno recensito un altrui libro, dovrebbero astenersi dal chiedere la recensione d’un proprio libro all’autore del libro da loro stessi recensito. A maggior ragione dovrebbero evitare di scambiarsi delle prefazioni e delle monografie: “io scrivo una prefazione o una monografia su di te, come tu hai scritto, scrivi o scriverai una prefazione o un’intera monografia su di me”. E ciò, per evitare quello che in politica si chiama “voto di scambio”: una cosa riprovevole!

Né lo scrittore recensito può protestare di fronte all’obiettività, pretendendo che nella recensione non venissero inclusi i rilievi negativi, sia perché quando si pubblica un libro si espone il fianco a qualsiasi critica, positiva o negativa, sia perché il recensore ha il diritto d’esprimere la sua valutazione senza condizionamenti, con la massima libertà e nella sua completezza, comprendendo in essa il contenuto e la forma, i pregi e i difetti. Proteste di questo tipo indicano un infantilismo di fondo: e infantile, davvero sulla scia del suo “fanciullino”, si dimostrò il Pascoli, un poeta peraltro assai caro, quando protestò energicamente e con colorite espressioni contro il Pirandello che, in seguito ad una rinnovata edizione delle Myricae, aveva giudicato negativamente alcuni aspetti deteriori della poesia pascoliana, su cui la critica (col Croce in testa) ha concordato pienamente. E se il trevigiano Comisso valutò negativamente la lingua del vicentino Fogazzaro per elogiare quella del catanese Verga, lo fece non per denigrare un suo corregionale, ma per un’obiettiva valutazione oggi condivisa dalla critica.

La protesta è ridicola o patetica quando il recensito, dopo aver inviato il suo libro al recensore e averne sollecitato la recensione, poi — se in essa trova dei rilievi negativi — protesta e addirittura rompe i rapporti col recensore, invece di ringraziare. È evidente che chi prima chiede una recensione-valutazione e poi una volta ottenutala non ne è soddisfatto deve limitarsi a ringraziare il recensore per attenzione-tempo-lavoro-spese e non inviargli più libri da leggere e recensire.

Un recensore che ammannisce elogi a tutto spiano si rende poco credibile, mentre uno che alterna giudizi positivi e giudizi negativi è senza dubbio credibile; anzi i rilievi negativi eventualmente presenti in una stessa recensione rafforzano la valenza di quelli positivi. Né il recensito può pretendere d’ottenere “compassione” dal recensore rinfacciandogli eventuali pecche presenti in libri dello stesso recensore, perché la funzione e lo scopo della recensione vanno oltre questi confronti.

Invece, un recensore serio, coscienzioso e onesto (cioè quello che non si diverte a cercare soltanto gli aspetti negativi d’un libro e a metterli in luce magari per stupide ripicche o vendette personali) va in ogni caso apprezzato e ringraziato per il semplice fatto che s’è occupato d’un libro, dando suggerimenti utili alla futura attività scrittoria del recensito.

In sostanza la recensione, per essere valida, dev’essere competente (scritta da un esperto), completa (riguardante contenuto e forma, pregi e difetti), obiettiva (assolutamente veritiera). Valutazioni di questo tipo metterebbero fine al malcostume dell’improvvisazione e inflazione.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.VI.2006; “Miscellanea”, San Mango Piemonte, lug.-ag. 2006; “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2006]

RECENSIONI DI CARMELO CICCIA

pubblicate a decorrere dal 1995


Accademico Veneto Sconosciuto [Girolamo Priuli ?], La Galatea / Poema lirico con l’allegorie dell’Academico Veneto Sconosciuto, Stamperia non indicata, Località non indicata [Venezia ?], 1625, pagg. 216.

“La Galatea”: poema mitologico del Seicento con allegorie cristiane d’Academico Veneto Sconosciuto

“LA GALATEA” - Poema Lirico con l’allegorie dell’Academico Sconosciuto

Il mito di Aci e Galatea in un prezioso poemetto del XVII secolo

La rivista “Agorà” d’apr.-dic. 2003, edita dall’omonima casa editrice di Catania, ha pubblicato un interessante articolo-saggio del medico-umanista d’Acireale Salvatore (Toti) Pennisi così intitolato: “Il fortunoso acquisto di un pregevole volumetto caduto nell’oblio / Il mito di Aci e Galatea in un raro poemetto del Seicento / L’anonimo Academico Veneto Sconosciuto, in un intreccio di poesia e prosa, fa rivivere il mito senza tempo della ninfa Galatea e del pastorello Aci impreziosendolo di un profondo significato religioso”. Da quest’enunciazione si capisce l’importanza dell’acquisto fatto in una libreria antiquaria della Toscana, dato che si tratta d’un’assoluta rarità bibliografica. Quest’articolo-saggio può anche essere letto integralmente nel sito http://www.editorialeagora.it/rw/articoli/30.pdf

Nel suo scritto il Pennisi afferma che in Italia esista una sola copia di questo libro nella biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna e che all’estero risulti soltanto una copia nel catalogo della British Library di Londra e un’altra in quello della Bibliothèque Nationale di Parigi. In realtà — della stessa o diversa edizione — altre copie si trovano: in Italia nella bibl. dell’università cattolica di Milano, nella Marciana di Venezia, nella Bertoliana di Vicenza, nell’Estense di Modena, nella Statale del Monumento Nazionale dei Girolamini di Napoli, nella Civica di Cosenza; all’estero nella bibl. dell’università di Oxford (una copia ritenuta del 162- ? e un’altra ritenuta del 1730 ?), nella bibl. dell’università di Cambridge (Inghilterra), nella bibl. Nazionale di Scozia di Edimburgo, nella bibl. del Metropolitan Museum of Art di New York, nella bibl. dell’università “Yale” di New Haven e nelle biblioteche Berenson (settore musicale) e Houghton dell’università “Harvard” di Cambridge (Stati Uniti d’America). Ed è sperabile che a queste copie se ne possano aggiungere altre, reperite in altre biblioteche.

La copia di Napoli è stata recuperata dalle forze dell’ordine dopo essere stata sottratta — insieme con altre migliaia d’opere rare e preziose — da un neo-direttore della biblioteca stessa e da altri delinquenti, poi condannati a severe pene nel 2013. E per quanto riguarda la Francia quella indicata dal Pennisi in realtà si trova nella Bibl. Municipale d’Aix-en-Provence, dove in catalogo ne sono descritte tre: due in italiano e una in latino. Tuttavia, poiché la copia in latino ha la stessa collocazione d’una delle due in italiano, potrebbe esserci stato un errore nell’indicazione di due distinte copie al posto d’una: e quindi le copie potrebbero essere in tutto due anziché tre.

Le relative date di pubblicazione che figurano nei cataloghi sono: 162- ? (Oxford e New Haven), 1625 ? (VI, BO, New York e Cambridge U.S.A.), 1628 (MI, VE e MO), 1691 (NA e CS), due copie sec. XVI e una copia sec. XVII (Aix-en Provence), 1730 ? (Londra, Oxford, Edimburgo e Cambridge U. K.). Una copia con indicazione di data 1620 ?, messa all’asta dalla casa Christie’s a Parigi nel Dicembre 2012 e stimata € 4.000 - 6.000, era posseduta da Madame de Pompadour, favorita del re di Francia Luigi XV. E tutto ciò conferma la preziosità dell’opera.

Per fortuna nel 2009 e 2010 il testo è stato ristampato da Galatea/Kessinger e venduto anche tramite la rete telematica. Ne esiste una versione digitalizzata da Google, nella quale si nota qualche difetto di resa dovuto a cattiva inchiostrazione e alle ingiurie del tempo, mentre le pp. 159-162 erroneamente sono state inserite fra la 176 e la 177. Essa, realizzata su un testo d’Oxford, è interamente leggibile nel sito http://books.google.it/books?id=GnECAAAAQAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false

Il titolo dell’opera è La Galatea / Poema lirico con l’allegorie dell’Academico Veneto Sconosciuto. Ma oltre all’autore, nella prima edizione, che consta di pp. 216, non sono indicati né la stamperia e la sua località né l’anno di stampa. Francesco Saverio Quadrio (sec. XVII-XVIII), Gaetano Melzi (sec. XVIII-XIX) e Lodovico Piantanida (sec. XVII-XVIII) attribuiscono l’opera stessa a Girolamo Priuli, nobile e senatore veneziano: il Piantanida fissa la data al 1625, mentre un’altra edizione fu stampata a Cremona da Giacinto Belpieri (sec. XVII) nel 1628. Ora, poiché i Priuli (= priori, preminenti, prominenti, primi giurati; o Petrioli, diminutivo di Pietro) furono una famiglia patrizia veneziana, che aveva vari palazzi a Venezia e una sontuosa villa ad Orsago (TV), e che diede alla Serenissima — oltre che il cardinale patriarca Lorenzo — anche dei dogi, uno dei quali di nome Girolamo Priuli (1486-1567, già sepolto nella demolita chiesa veneziana di S. Domenico di Castello, ma con monumento funebre in quella di S. Salvatore), che è indicato come autore nei cataloghi delle suddette biblioteche di Milano ed Oxford e di cui si conserva un ritratto eseguito dal Tintoretto, se davvero fosse costui l’autore, l’opera sarebbe databile al Cinquecento, in conformità alla datazione indicata nel catalogo della bibl. di Aix-en-Provence; a meno che essa non sia stata pubblicata postuma. Tuttavia metafore, iperboli, diminutivi e vezzeggiativi, ridondanze e allitterazioni presenti in abbondanza nel testo ci fanno pensare al Seicento: e quindi l’autore dovrebbe essere un discendente omonimo vissuto a cavallo fra il sec. XVI e il XVII.

Lo sconosciuto autore riprende il mito dell’amore d’Aci e Galatea: il pastorello Aci s’innamora della nereide Galatea, di cui è innamorato pure il mostruoso ciclope Polifemo; il quale, vedendo i due amarsi, sommamente adirato scaglia contro di lui la cima d’un monte (faraglione); ma la ninfa trasforma Aci in fiume-dio. Questo “fiume beato” (p. 174), scomparso nell’eruzione etnea del 1169, ha dato nome alla vasta Terra d’Aci (CT), poi suddivisa in una serie di località i cui toponimi, magari agglutinati, cominciano con la parola Aci (Aquilia poi Reale1, Belverde poi Valverde, Bonaccorsi, Castello, Catena, Platani, San Filippo, Sant’Antonio, Trezza2), secondo l’auspicio della stessa Galatea: “Aci scritto, e descritto in cento guise /…/ Aci espresso, e impresso in mille modi” (p. 171).

Questo mito fu trattato da moltissimi poeti, musicisti e pittori, classici e moderni; però il libro dell’Academico Veneto Sconosciuto ha una sua originalità, perché sulla scorta di quanto avevano fatto numerosi scrittori cristiani medievali — i quali avevano inteso la civiltà classica greco-romana (compresa la letteratura) come prefigurazione e anticipazione della successiva civiltà cristiana — interpreta i vari passaggi del mito in chiave cristiana, sia pure con delle forzature.

Leggendo questo poema in versi liberi, che qualcuno suppone essere stato scritto per essere rappresentato (con o senza musica) in teatro, ci s’accorge che lo stile somiglia a quello dei poeti tipici del Seicento, marinisti e antimarinisti (ad es. si vedano la strofa con la pomposa presentazione della rosa alle pp. 16-17 e il verso “svenir la gioia, e impallidirsi il riso” a p. 95), anche se qui si notano meno enfasi e meno acrobazie, che pur ci sono, e in compenso c’è più sincerità, delicatezza di sentimenti e finezza espressiva, anche seguendo il barocco. Altre particolarità linguistiche sono: periodi prolissi; punteggiatura approssimativa; numerosi accenti e apostrofi o indebiti o mancanti; alterati come “sdegnosetta” (pp. 76 e 78), “Orsacchino” e “Buffonetto” (p. 129), “amorosetti” e “lascivetti” (p. 132), “deboletto” e “languidetta/o/e” (p. 145 e 153); la stella Venere detta “Bella Duce del dì” (p. 85), il verbo “si/mi diseterni” (p. 155).

L’ambiente è quello marino e rivierasco ai piedi dell’Etna, ma da buon poeta classicheggiante l’autore nel primo canto (“Invito del Cielo Innamorato à Galatea”) non può non fare un riferimento al mito della sicula Ibla (“Del’involate spoglie à gli horti d’Hibla”) e delle sue api (che “stillar sogliono poi / con ingegnose prove, / il nettare, e l’Ambrosia / per condire i Conviti / a le mense di Giove”), mito che per molti secoli ha attraversato tutta la cultura occidentale, classica greco-romana, medievale e moderna.3

La susseguente allegoria in prosa del suddetto primo canto riscatta la sdolcinatezza e la sensualità dei versi: l’autore si dimostra un moralista cristiano e per lui il Cielo è Dio innamorato di Galatea, il quale la invita a disprezzare le attrazioni terrene e a cercare quella gloria in cui risplende per l’eternità lo stesso Dio, “certa ricchezza di tutti gl’intelletti, e di tutti i desiderj humani”.

Simile svolgimento hanno tutti gli altri canti, intitolati come segue (fra parentesi la sintesi delle rispettive allegorie cristiane): “Segue il ragionamento del Cielo à Galatea” (l’anima s’affanna per le cose terrene, ma Dio fa di tutto per attirarla a sé), “Risposta di Galatea al Cielo” (l’anima si rifiuta di rispondere agl’inviti di Dio e finirà col passare dalla terra all’inferno), “Gelosie d’Aci” (nonostante le ripetute ripulse da parte degli uomini, il misericordioso Dio dà loro nuove possibilità di salvarsi), “Bellezze d’Aci” (la bellezza umana, a volte idolatrata, è insidiata dalle delizie mondane), “Scherzi amorosi d’Aci, e di Galatea” (l’anima sensuale si riduce a commettere peccati nascondendosi da qualche parte, ma Dio scopre tutto), “Amori d’Aci, e di Galatea” (le bellezze sono corruttibili e costituiscono inciampi alla salute dell’anima, mentre i piaceri, pur tanto apprezzati, sono lacci, follia e miseria), “Sdegno del Cielo” (di fronte al persistere della lascivia, Dio si trasforma da amico in giudice e prepara il castigo), “Polifemo destato dal Cielo” (Polifemo rappresenta la mano punitrice di Dio), “Furore, e canto di Polifemo” (l’anima ribelle, sorda e cieca viene da Dio indicata alla morte), “Aci percosso da Polifemo” (l’uomo cerca di schivare la morte, ma questa tanto lo insegue finché l’afferra), “Morte d’Aci” (l’anima si congeda dal corpo, in attesa di ritrovarlo nel giorno del Giudizio), “Aci tramutato in fiume da Galatea” (il corpo del defunto disonesto è trasformato in polvere, putredine e vermi, mentre quello dei santi si conserva per sempre), “Letitia universale nella mutatione d’Aci” (i diavoli fanno festa quando un’anima va all’inferno), “Ragionamento d’Aci Fiume à Galatea” (come il fantasma d’Aci, sorto dal fiume, fa intendere a Galatea d’essere diventato Dio, così Lucifero, già angelo di luce, sorto dall’Inferno con allettanti sembianze, fa intendere agli uomini d’essere diventato Dio, in modo da indurli a peccare e a dannarsi come lui).

Nell’ultimo canto (“Profetia di Protheo”) il dio-indovino Proteo profetizza la futura venuta d’Ulisse, che con un tizzone ardente accecherà Polifemo, castigandolo per la sua protervia, nonostante che Polifemo stesso poco prima rappresentasse la mano punitrice di Dio (contraddizione dell’autore, che ricorda in qualche modo la dantesca “vendetta… della vendetta del peccato antico” di Par. VI 92-93). E nella successiva allegoria l’autore chiosa che, mentre Proteo prefigura Profeti e Sibille, Ulisse è la prefigurazione di Cristo, “il quale doveva con il tizzone ardente dell’amorosa croce acciecar la morte”: morte che con la legge evangelica “non solo è divenuta domestica, ma pretiosa nel cospetto del Signore”.

A proposito di quest’allegoria finale, il Pennisi riferisce che Maria Teresa Acquaro Graziosi, studiando lo scrittore minore secentesco Juan Pérez de Montalván y Calderón, ha trovato che in una sua opera anch’egli aveva adattato questo mito al cattolicesimo, con Polifemo che simboleggia il diavolo, Galatea l’anima e Ulisse Cristo. Ebbene, secondo lo stesso Pennisi lo scrittore spagnolo potrebbe aver desunto questi paralleli da La Galatea dell’Academico Veneto Sconosciuto: ciò dimostrerebbe la diffusione di questa nostra opera in campo europeo. E questa è un’ipotesi plausibile.

I singoli canti sono illustrati da sedici incisioni di discreta fattura, mentre decorazioni varie sono disposte — oltre che in copertina — all’inizio e alla fine d’ogni canto e delle allegorie. L’incisore è anch’egli sconosciuto.

Carmelo Ciccia

__________________

[1] Acireale, che oggi conta oltre 50.000 abitanti, è il comune principale; e nel suo stemma risaltano le lettere A e G, iniziali d’Aci e Galatea, per sintetizzare il mito su cui si basa il toponimo; mentre nella villa comunale e nella biblioteca Zelantea ci sono raffigurazioni scultoree dei due personaggi mitologici.

2 Aci Trezza è la località in cui si svolgono I Malavoglia di Giovanni Verga.

3Sulla diffusione del mito d’Ibla si possono leggere fra gli altri i seguenti saggi di C. Ciccia: • Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte, Pellegrini, Cosenza, 1998, pagg. 120; • Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’onomastica, “Atti della Dante Alighieri a Treviso”, vol. IV, Zoppelli, Treviso, 2001, pp. 158-166; • Il leggendario miele ibleo, “Ricerche”, Catania, genn.-giu. 2009, pp. 35-72. In tali saggi è citato l’accostamento Galatea-Ibla presente in Virgilio e nel Foscolo, ma manca questo dell’Academico Veneto Sconosciuto perché ignorato all’epoca della stesura dei saggi stessi.

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, ott. 2013; “Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2014]


Sandro Allegrini, Percorsi di lettura per Domenico Defelice, Il Convivio, Castiglione di Sicilia, 2006, pagg. 160, € 10.

Sfogliando questo libro, anzitutto si resta favorevolmente impressionati dall’eleganza grafico-editoriale, dall’ottima impaginazione e dalla nitidezza dei caratteri. Queste cose agevolano la lettura e quindi la fruizione del testo; a cui contribuiscono poi l’assenza di prolissità e la precisione nell’uso di punteggiatura, corsivi e grassetti, nonché la chiarezza del dettato e la scorrevolezza dello stile, pur nella rigorosità delle trattazioni, anche se non si perdona all’autore qualche espressione popolaresca come “collaborando assiduamente con la rivista da lui diretta” (pag. 11), scritta seguendo l’erroneo modo d’esprimersi di certi contemporanei: e ciò, perché in realtà ogni collaboratore collabora (insieme con altri) alla (redazione della) rivista.

Eppure, fatto questo rilievo, notiamo che ha un curriculum di tutto rispetto il critico Sandro Allegrini, il quale anche nell’assidua collaborazione alla rivista “Pomezia-notizie” dimostra d’essere serio, colto, attento e capace di coinvolgere i lettori. Ed è grazie a queste doti ch’egli, dichiarando di voler integrare e non sostituire la precedente monografia d’Orazio Tanelli, ha potuto far fronte al non facile compito di presentare e valutare un personaggio poliedrico come Domenico Defelice: poeta, narratore, critico, traduttore, disegnatore, editore, promotore culturale, giornalista, polemista e quindi intellettuale di consistente spessore, il quale sta sulla breccia ormai da una cinquantina d’anni. Ed è alla presentazione e valutazione globale dell’intellettuale, oltre che a quella delle sue opere, che l’Allegrini ha puntato, riuscendovi egregiamente.

Perciò, considerate le sfaccettature del personaggio trattato, anzitutto appare lodevole il proposito di dedicare abbondantemente attenzione e tempo a lui; e, anche se risulta evidente che in questa scelta hanno giocato un notevole ruolo l’amicizia personale e la collaborazione, tuttavia l’agente principale rimane il critico, il quale sa esprimersi in piena autonomia, all’occorrenza (particolarmente nelle opere giovanili) rilevando qualche inadeguatezza, caduta di tono e altro aspetto negativo (e certamente il Defelice non pensa di risentirsi per tali rilievi).

Così in questo libro, in cui domina un andamento descrittivo-narrativo che lo rende più gradevole e — si direbbe — rilassante, l’Allegrini passa in rassegna tutta la produzione del Defelice, ne mette in luce i contenuti, le forme, le radici culturali, i paralleli con altri autori, le posizioni ideologiche, l’umorismo, le prospettive, le conclusioni; e addirittura dà delle anticipazioni e valutazioni su opere in fieri.

Notevole è al riguardo il modo di procedere dell’Allegrini: nei vari capitoli in cui esamina le singole opere egli pone dei titoli che di fatto ne sintetizzano e definiscono le caratteristiche: “Soggettivismo lirico e realtà sociale”, “Forme della tradizione e autenticità di sentimento”, “Sinfonia di colori e di passioni”, “Epicità e lirismo”, “Realismo sociale, dolcezza e rabbia”, “Dolore e compianto”, “Intertestualità e impegno civile”, “Castigat ridendo mores”, “Umorismo come sublimazione della sofferenza”, ecc. C’è da aggiungere che ogni capitolo s’apre con (in epigrafe) una massima d’un noto autore. E, come in un ordito, dall’intreccio di tutti questi fili si qualifica la sostanza della produzione del Defelice.

Di questa sostanza fa parte — e ad essa l’Allegrini dà la giusta evidenza — il collegamento fra arte e socialità del Defelice, il quale nella sua attività scrittoria più o meno apertamente interviene sulla storia, sulla cronaca, sul costume, sulla società in generale: e ora accenna a politici come Andreotti e Craxi, ora interpreta la vicenda di Mussolini, ora commenta quella di Moro, ora anticipa di molti anni la deplorazione della signora Ciampi circa la “tv deficiente” (che oggi si chiama “tv spazzatura”), ora bacchetta la Chiesa per la spregiudicata modernità di certi preti e per la mondanità dei riti sacramentali (battesimi, cresime, matrimoni), mentre propone di stigmatizzare anche i peccati contro lo Stato (ingiusta mercede ai dipendenti, evasione fiscale, ecc.). Anzi l’Allegrini, che apprezza e condivide l’alto concetto di poesia espresso dal Defelice in una nota del 1979, precisa che la produzione del Defelice stesso segue e interpreta la vita politica e sociale di mezzo secolo; e s’associa a lui anche in certe prese di posizione, come ad esempio sul caso Pasolini, quando il Defelice rampognò aspramente lo scrittore friulano che aveva denigrato i calabresi pur avendo poco prima ritirato un premio conferitogli proprio in Calabria.

Infine, mentre opportuna e motivata appare l’introduzione d’Angelo Manitta, utili si rivelano la sia pur essenziale antologia lirica, la bene schematizzata nota bio-bibliografica del Defelice e l’indice dei nomi. Qualche sporadico refuso tipografico non incide sul giudizio largamente positivo, pur creando qualche problema di comprensione: ad esempio, mentre da una parte si capisce benissimo che “ballati” (pag. 70) deve intendersi “ballate”, dall’altra in riferimento a Francesco Fiumara (riconosciuto come maestro e guida del Defelice) non si capisce se “corregionario” (pag. 16) deve intendersi “correligionario” o “corregionale” o altro.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, genn. 2007]


Carla Amirante Romagnoli, Tele bianche, bianche pagine, Il bandolo, Palermo, 2010, pagg. 72, € 11.

“Tele bianche, bianche pagine” di Carla Amirante Romagnoli

Il passaggio dalle tele (pittura) alle pagine (poesia) per evidenziarne il rapporto

Dopo ciò che ha scritto il critico triestino Fabio Russo nella sua accurata prefazione — che è un articolato saggio (intitolato “Orizzonte e mistero”) su quest’autrice, della quale ha analizzato e commentato tutte le composizioni — è difficile aggiungere altro. Ad ogni modo, anche per favorire la conoscenza di lei, presentiamo qui il suo primo libro di liriche.

L’affermata pittrice Carla Amirante Romagnoli, romana ma residente a Palermo, oltre che per la sua attività artistica è nota per la sua partecipazione al Centro Internazionale di Studi sul Mito di Palermo, di cui lo stesso Russo fa parte; ma poi, ispirandosi al mito, s’è data anche alla poesia, pubblicando dapprima questa silloge Tele bianche, bianche pagine (Il bandolo, Palermo, 2010, pp. 72, € 11) e dopo l’altra più esplicita Nuvole e miti (Saladino, Palermo, 2012, pp. 64, € 8).

Già il titolo Tele bianche, bianche pagine nella sua formulazione a chiasmo delinea il passaggio dalle tele (pittura) alle pagine (poesia), mettendone in evidenza lo stretto rapporto nel campo delle arti: e in questo volumetto alle poesie s’alternano i disegni della stessa autrice, confermandone la duplice abilità. La silloge è dedicata con umiltà a Giacomo Leopardi, “vetta inarrivabile di poesia”, un autore caro all’autrice — oltre che al prefatore — della cui poesia e del cui pensiero (orizzonte, infinito, vuoto, annegamento, nulla…) s’avverte in essa la presenza, unitamente a quella d’altri noti autori.

È evidente che il motivo del mito è pregnante in quest’opera, la quale prende le mosse proprio da esso; e, dopo le spiegazioni del caso, in particolare per quanto riguarda il suddetto passaggio dalla pittura alla poesia, vi sono rievocati vari miti classici, fra cui quelli di Demetra, di Pan, di Persefone e del titanico Telamone d’Agrigento; ma a questi, a conclusione della silloge stessa, è aggiunto il mito cristiano denominato “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, fornito dall’evangelista Giovanni (Apoc. VI 2-8) e compendiato nell’immagine della Morte che cavalca il suo cavallo brandendo una falce: “Esso era verde e scheletrito / perché alla vista ognuno / subito ad un cadavere / pensasse e preso fosse / da mortale spavento.” (p. 66).

E, poiché la parola mito significa ciò che si racconta, leggenda, favola, in queste composizioni l’autrice a volte sembra tornare ad un passato remoto: allora il suo linguaggio — solitamente bene scandito e spesso musicale, grazie al taglio dei versi, alle assonanze e ad altri espedienti (chiasmi, iperbati, anafore, ecc.) — diventa quasi prosastico e assume connotazioni dell’infanzia o per l’infanzia, producendo una poesia gnomica in cui l’autrice racconta e spiega episodi intangibili, aggiungendo ad essi esortazioni di matrice cristiana e domande varie, di cui la più importante è quella che assilla tutti gli uomini: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e dove va l’universo, la cui misteriosa nascita è essa stessa un mito.

Perciò, dopo pessimistiche riflessioni in cui parla di “vuoto” che scende in lei simile a morte, di “buio assoluto” che l’avvolge, d’“abisso infinito” che l’attira nel gorgo e del “nulla totale” che la fa sparire (p. 34), alle domande “Perché l’universo?” e “Perché c’è la vita? La morte?” l’autrice risponde laconicamente: “La vita, l’aldilà, l’universo, / per me, tutto è mistero.” (pp. 42-43).

In definitiva, questo è un lavoro di scavo: l’autrice fa quasi un esame di coscienza ed esprime osservazioni, stupori e dubbi che non sono soltanto i suoi. C’è nella silloge un accostarsi alle tematiche esistenziali più ricorrenti, che l’autrice espone con semplicità e chiarezza, in un dettato scorrevole e corretto, certamente favorito dalla buona conoscenza dei nostri migliori poeti.

E questo riuscito esordio fa bene sperare per eventuali sue future produzioni in versi.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, apr.-mag. 2013]


Roberto Andò, Diario senza date o della delazione (Gea Schirò, Palermo, 2008, pp. 140, € 16

“Diario senza date o della delazione” di Roberto Andò

Memorie, deplorazioni, notazioni: tutte incentrate sulla città di Palermo

Roberto Andò regista cinematografico, teatrale e televisivo ha voluto qualificare impropriamente come romanzo il suo libro Diario senza date o della delazione (Gea Schirò, Palermo, 2008, pp. 140, € 16), il quale non ha una vera e propria struttura narrativa, ma in realtà espone una serie di memorie, deplorazioni, notazioni: il tutto incentrato sulla città di Palermo, in cui egli è nato nel 1959, da cui s’è allontanato e in cui ogni tanto ritorna, con un rapporto d’amore-odio.

Esili fili narrativi si potrebbero individuare soltanto nell’incontro con un restauratore di carte, nella rievocazione della morte d’un compagno e in quella d’una suora portinaia di scuola, nella menzione d’un candidato politico del 1946 che riuniva i capimafia per fare promesse e ricevere voti, nella perlustrazione della città a scopo cinematografico, nella descrizione d’un cortile dell’infanzia e di vari palazzi nobiliari chiusi e abbandonati alla polvere, nel ricordo del nonno.

In questo ritorno, dovuto alla ricerca delle tracce del poeta Lucio Piccolo di Calanovella, famoso più che altro per essere stato cugino del grande Giuseppe Tomasi di Lampedusa ed essere vissuto alla sua ombra, l’autore vede Palermo come una città distrutta, non soltanto dalla seconda guerra mondiale, ma soprattutto dall’odierna guerra di criminali e spie, in cui si confondono i ruoli delle istituzioni e delle cosche (e qui egli condanna i molti politici collusi) e in cui la scelta fra la vita e la morte è all’ordine del giorno. E perciò egli parla dei generali del crimine che mettono in ginocchio la città, a suo parere irredimibile.

Per l’autore a Palermo non si può parlare di patria, presupponendo questa parola un comune sentire, che lì non c’è, mentre c’è una criminosità condivisa. E così lì ogni giorno c’è un appressamento alla morte, grazie anche alla presenza del famoso quadro d’anonimo “Il trionfo della Morte”, esposto nella galleria regionale di Palazzo Abatellis, e alle mummie delle catacombe dei Cappuccini. In definitiva Palermo gli appare come l’“epitome di tutte le città pietrificate”, dove vigono lo spaccio di droga, il crimine organizzato e l’omertà; e non si fa altro che escogitare scelleratezze, magari poi gratificando (?) gli uccisi con un elevato rituale, che va dal corteo al suono di marce funebri, all’esecuzione di sonori applausi (che appaiono fuori della grazia di Dio) e alla predisposizione d’altisonanti lapidi.

Nel libro aleggia lo spirito del poeta Piccolo in una con quello del cugino, del quale qui l’autore rammenta l’opinione sul sonno dei siciliani, che non vogliono scuotersi e cambiare. Con questi due scrittori fanno capolino altri in qualche modo connessi: Pirandello, Brancati, Montale, Pasolini, Visconti, Sciascia, Consolo, Zanzotto, Valéry, Yeats, Pound. E non mancano abbozzi di saggi sul Piccolo e sullo Sciascia, nella convinzione che a Palermo lo scrittore dev’essere un delatore, dovendo fare un racconto infinito d’empietà: ecco perché il titolo del libro Diario senza date si completa col chiarimento “o della delazione”.

In questo suo impegno l’autore non ha tempo per guardare se non di sfuggita i famosi monumenti e panorami cittadini, rilevandone tuttavia il degrado e l’incuria: la piazza delle Vergogne, la via del Mare, il cimitero degl’Inglesi… Piuttosto preferisce assumere un atteggiamento gnomico in certe massime negative, quali “L’unica risorsa del Sud è la catastrofe… il Male, qui, è già di per sé, l’unica risorsa possibile” (p. 18) e “Il passato sta tra il presente e il futuro come in un sogno” (p. 76).

E, dopo aver ricordato il suo lungometraggio sul Tomasi e l’altro sul Piccolo, deluso per non aver trovato quanto cercava sul Piccolo stesso, del quale peraltro fa parecchie citazioni, l’autore alla fine riconosce che il suo è “un racconto che non è mai cominciato” (p. 123) e decide di partire, nella convinzione che prima o poi ritornerà, sempre spinto dal bisogno di ritornare e di ripartire.

Il libro, essendo un diario d’appunti, è fatto di periodi brevi, a volte nominali, semplici, chiari, corretti e scorrevoli, sia pure con la presenza di qualche parolaccia di moda. L’aspetto editoriale è curato, fatta eccezione per un paio di refusi, e s’avvale della presenza di varie fotografie d’arte e d’una nota conclusiva di Valerio Magrelli.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, ag. 2010]


Brandisio Andolfi, Dettati dell’anima, Bastogi, Foggia, 2005, pagg. 96, € 6.

L’elegante forma grafico-editoriale, che esibisce in copertina un vivace dipinto del Savoldo, l’impaginazione, il tipo di carta e la nitidezza dei caratteri fanno sì che d’acchito questo libro di poesie si presenti interessante; e quest’impressione è avvalorata dalla lettura delle prime composizioni, che invita il lettore ad inoltrarsi nella scoperta d’un suggestivo universo poetico.

Superfluo è soffermarsi qui sulla personalità di Brandisio Andolfi, che frequentemente pubblica libri, prefazioni, articoli e saggi, e che per ciò ha ricevuto numerosi e significativi riconoscimenti, occupando un ragguardevole posto nel panorama letterario odierno.

Il titolo di questo libro, Dettati dell’anima, ci fa pensare al dettato degli stilnovisti, compreso Dante che formulò la definizione del dolce stil novo, anche se qui il clima è assai diverso da quello dello stilnovismo. Qui c’è uno specchiarsi dell’autore in sé stesso e un confidarsi agli altri, quando i capelli cominciano ad ingrigire ed è l’ora di fare un bilancio della propria vita, tirando i remi in barca e affidandosi — secondo un proverbio — a Dio o alla sorte. Ecco perché l’incipit “Rivisitazioni” assume il carattere d’una premessa o introduzione a meglio capire il contenuto della corposa raccolta: e queste rivisitazioni sono fatte come ricerca di gioie perdute.

Fin dalle prime composizioni ci accorgiamo d’essere in presenza d’un robusto poeta che ha delle buone carte da giocare, a cominciare dalla musicalità che fa da sottofondo a gran parte della raccolta, dandole un’impronta di malinconica pensosità. L’autore prende per mano il lettore e lo accompagna in una serie di riflessioni che lo staccano dalla quotidianità per dar senso alla vita o — come dice lui — per farlo emigrare verso l’infinito (quello del mondo interiore), con un occhio rivolto alla vita e uno alla morte, “finché la barca va”. E, se da una parte, esaltando il creato inteso come dono di Dio, egli resta abbagliato dall’immensità, dallo splendore del meriggio in un campo fiorito o da alcune immagini femminili che guizzano nella sua mente come lampi di meteore, dall’altra pensa ai fiori che crescono fra le tombe dei cimiteri, con un costante riferimento all’aldilà.

Perciò egli biasima i degradanti aspetti della civiltà contemporanea, quali il nottambulismo, le discoteche, gli schiamazzi e le droghe, e pensa alle vittime della strada, in particolare ai tanti giovani che per incoscienza ed ebbrezza d’avventura, oltre che a causa della nebbia o di altri fattori naturali, non tornano più a casa dalle “stragi del sabato notte”: “Scende il silenzio nelle piazze; / s’addormenta stanca la città, ogni sera. / Solo le auto dei giovani / si rincorrono lungo le strade / che portano dove impazzano / discoteche e droga, ogni sera. / All’alba qualche auto non arriva / in città: si perde lungo la strada / del ritorno.” (p. 40)

E a proposito di discoteche causticamente aggiunge che di notte “I giovani-macchina profanano / i silenzi nel mondo lussurioso / delle discoteche, s’agitano come / tarantola caduta sulla brace.” (p. 83)

Oh, se i giovani leggessero questi versi e riflettessero! Ma purtroppo sono molti quelli che non ne hanno voglia, perché si sentono superiori anche ai saggi anziani. E la saggezza di quest’anziano genera poesia che assume anche un valore sociale.

Nel libro sono anche deplorate le violenze alla natura, come la caccia agli uccelli e l’inquinamento atmosferico che nella ricorrenza di S. Lorenzo non consente più di vedere le stelle cadenti; sono biasimati certi comportamenti sociali come lo scarso uso del saluto e del sorriso; sono richiamati luttuosi eventi come l’assalto alle Torri Gemelle di New York e i tafferugli di Genova: cose — tutte — che lo spingono ad auspicare un Natale né tecnologico né violento. E, se il vivere in queste condizioni diventa penoso, allora “Nel buio della notte nera solo / una luce in lontananza: provvido / faro-guida dell’ultimo viaggio / alla riva eterna della Pace”. (p. 72)

In sostanza è gratificante per il poeta isolarsi in sé stesso ed essere uomo solo “senza spazio né tempo”, “alito dentro l’Eterno”. (p. 81)

Nel libro ci sono anche piacevoli echi di poeti come D’Annunzio (p. 30), Rilke (p. 42), Catullo (p. 49) e Pavese (p. 57), poeti ben assimilati dall’Andolfi.

Dovendosi poi, per obiettività e completezza della recensione, fare qualche rilievo, diciamo che esso riguarda la quantità delle composizioni, alcune delle quali avrebbero potuto essere tralasciate a vantaggio della qualità. L’esclusione avrebbe potuto riguardare quelle composizioni, specialmente nella seconda parte del libro, in cui l’afflato lirico rivela delle cadute di tono a causa d’insistente paratassi, d’affannose spezzature e di marcata prosasticità o retorica. Ma è chiaro che ogni autore è affezionato a tutte le sue creature, come un padre a tutti i suoi figli.

Refusi e/o sviste grammaticali sono molto limitati (si possono contare sulle dita d’una mano), e anche questo rende l’edizione — tutto sommato — pregevole.

Infine appare pertinente ed efficace la prefazione d’Antonio Crecchia.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, mag. 2006]


Antonio Angelone, La ruota della fortuna (Mo ze sposa Peppnèlla), Verso il futuro, Forlì del Sannio (IS), 1994, pagg. 72, s.p.

Il Molise giustamente è stato considerato un’isola o meglio un’oasi, sia per ambiente naturale che per lingua e costumi, i quali hanno potuto conservarsi meglio e più a lungo, sotto l’incalzare del progresso. Ciò ci dà la possibilità di trovare in esso paesaggi vergini e modi di parlare e di vivere che altrove sono scomparsi.

Antonio Angelone è un artista (commediografo, poeta, pittore) lungamente impegnato nella conservazione e valorizzazione delle peculiarità della sua terra: ne sono una riprova una cinquantina d’opere da lui pubblicate presso varie case editrici. La sua recente commedia dialettale in quattro atti La ruota della fortuna (Mo ze sposa Peppnèlla), che si onora della prefazione di Ugo Vignuzzi (univ. “La Sapienza” di Roma) e della postfazione di Giovanni Ruffino (univ. di Palermo), avrebbe anche potuto intitolarsi goldonianamente “I pettegolezzi delle donne”: e al Goldoni abbiamo più volte pensato leggendo quest’opera, perché nell’Angelone come nel Goldoni c’è il gusto della semplicità e della vivacità, una marcata caratterizzazione dei personaggi, la coralità di certe situazioni, il desiderio della risata innocente e cordiale, la giusta conclusione morale. Quanto alla caratterizzazione, essa non è una marcata differenziazione fra un personaggio e l’altro, i quali — eccezion fatta per gl’immancabili e a volte buffi soprannomi — spesso sono simili nel pensare, nel parlare e nell’agire, quanto una netta e incisiva caratterizzazione del “tipo” molisano. Quello che qui è profondamente caratterizzato è un ambiente e una società rurale-pastorale forse ancora attuali.

Notevole è in questa commedia la funzione della fontana pubblica: dove non ci sono bar o altri centri d’aggregazione e intrattenimento la fontana ne svolge il ruolo. È accanto alla fontana pubblica che si raccolgono le comari e tra un pettegolezzo e l’altro intessono una trama. Qui non è tanto la vicenda del contrastato fidanzamento fra Giovannino “re Fescechiariéglie” e Peppinella “la Rcciulina” che c’interessa quanto il regime di povertà in cui si svolge la vicenda e da cui derivano non solo una vita grama, all’insegna dell’elementarità e delle privazioni, ma anche puntigli, dispetti e ripicche: regime che in effetti condiziona la vita di tutti i personaggi e d’un’intera comunità. Se ci vuole l’arrivo del classico zio d’America per vedere finalmente realizzato il sogno d’amore di due giovani, ciò dev’essere motivo di profonda riflessione per i giovani d’altri ambienti, in cui le comodità si sprecano e non si conosce il sacrificio. E questo va sicuramente a merito dell’Angelone, in cui certamente c’è l’intento non solo di dipingere un quadro folcloristico ma anche di presentare un momento storico su cui riflettere.

Pur non conoscendo il dialetto molisano, una considerazione dobbiamo fare sulla lingua usata dall’Angelone nella traduzione in italiano allegata al testo-base, alla quale ci siamo rifatti. È — questa — una lingua che per lessico, locuzioni, moduli e struttura ha un andante musicale e cantabile, di certo proveniente dal dialetto, alla quale è fortemente improntata: segno che l’Angelone ha tenuto conto della grande lezione linguistica del Verga. Ciò e i dialoghi serrati fanno sì che la vicenda scorra velocemente.

Il testo-base, oltre a due poesie, contiene anche interessanti avvertenze linguistiche e cenni storico-geografici su Forlì del Sannio, paese dell’autore e scenario della vicenda.

Carmelo Ciccia

[“Percorsi d’oggi”, Torino, nov.-dic. 1998]

Antonio Angelone, Storia di una comunità dalle lontane origini: Forli del Sannio, Comune di Forli del Sannio, 2003, pagg. 232, s.p.

LA STORIA DI FORLI DEL SANNIO

In questi ultimi anni si sta accentuando l’interesse delle comunità locali per la conoscenza della propria identità: perciò si ricercano e studiano storia, geografia, usi, costumi, tradizioni, ecc. Per quanto riguarda la comunità molisana di Forli del Sannio (IS) questo compito se l’è assunto egregiamente Antonio Angelone, figlio di questa stessa comunità, il quale con una vasta produzione ha già dato prova d’essere non solo bravo poeta e commediografo in dialetto, ma anche difensore di cultura e tradizioni locali, e ora ha pubblicato il libro “Storia di una comunità dalle lontane origini: Forli del Sannio” (Comune di Forli del Sannio, 2003, pagg. 232, s.p.).

Il compito che l’autore s’è assunto non è né semplice né facile: egli ha affrontato la storia fin dalle lontane origini, appoggiandosi ad un’autorevole bibliografia, che lui stesso ha interpretato ed ampliato con le sue conoscenze ed esperienze. Anzitutto ha affrontato la questione dell’esatta denominazione: Forli (come lui sostiene) o Forlì (come si legge in documenti e timbri ufficiali del municipio, nonché in dizionari ed enciclopedie)? Le ragioni addotte dall’Angelone si rivelano subito valide; e anche il monumentale Dizionario di Toponomastica (U.T.E.T., 1990), in una voce siglata da Carla Marcato, concorda su ciò, attribuendo l’accento finale (peraltro presente anche in questo dizionario) “ad attrazione del più noto Forlì di Romagna”.

Con appassionato, paziente e competente lavoro, che lo ha impegnato in archivi e biblioteche di varie località, oltre alla storia e alla geografia del comune l’Angelone passa in rassegna condizioni e attività economiche (con particolare riguardo all’agricoltura e all’artigianato), usi, costumi, tradizioni, casate e dinastie, personaggi (fra cui sindaci, eroi e poeti, d’uno dei quali riporta varie poesie), organizzazioni religiose, ricorrenze e feste, toponomastica, vestiari. L’autore si sofferma sulle condizioni sociali del tempo dell’ultima guerra, mettendone in evidenza i disagi e rendendo più interessante la descrizione col racconto d’episodi a lui noti. Egli riporta poi proverbi, nenie, cantilene, storielle e canti popolari, aggiungendo un utile dizionario d’espressioni dialettali non più in uso o pochissimo usate. Non manca un resoconto dell’esodo che ha portato i molisani ad emigrare in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita. L’opera si conclude con la bibliografia e con una scheda sulla considerevole attività letteraria dell’Angelone.

Infine al volume dà un notevole contributo l’apparato iconografico, costituito da disegni, planimetrie, mappe, fotografie (anche di gruppi familiari) e riproduzioni varie.

Lo stile, pur con qualche virgola fuori posto, è semplice, chiaro e scorrevole: perciò si consiglia il volume particolarmente alle università, accademie, scuole e biblioteche, non solo degli enti locali.

In conclusione si può affermare che questa monografia sa contemperare le esigenze della scientificità e quelle della divulgazione. La comunità molisana può essere orgogliosa del lavoro d’Antonio Angelone, il quale, trattando del suo comune di nascita, ha in realtà messo in buona luce l’intero Molise, i cui figli si sono affermati e fatti stimare nel mondo per la loro onestà e laboriosità. In particolare i forlivesi potranno specchiarsi in questo lavoro e trovare in esso da dove provengono, com’erano e come sono, consapevoli che non si può progettare e costruire bene il proprio futuro se non si conosce bene il proprio passato. In questo senso importante è la testimonianza dell’autore stesso, il quale soltanto dopo avere sperimentato la dura vita del pastore e del contadino è approdato agli attuali esiti letterari.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ’Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), lug.-dic. 2004; Antonio Angelone, Forli del Sannio: storiografia a cura di Antonio Angelone, Accademia “Mazzocco”, Isernia, 2004]


Antonio Angelone, Le avventure di Fiordaliso / Tra disincanto e realtà, Accademia Internazionale Lucia Mazzocco Angelone, Scoppito (AQ), 2009, pp. 200, s. p.

Questo nuovo libro dell’isernino Antonio Angelone ha tutti i requisiti per farsi leggere da piccoli e grandi: anzitutto la bella copertina e poi la carta bianca e opaca (non lucida e quindi non fastidiosa alla lettura), i caratteri grandi e nitidi, la buona impaginazione, la chiara schematizzazione dei capoversi, le idonee illustrazioni dello stesso Angelone e di Piergiovanni Battibocca. E come ogni favola che si rispetti l’incipit è quello tradizionale o quasi del C’era una volta, che qui è variato in “C’era tanti anni fa”. In più il testo abbonda di superlativi, diminutivi, aggettivi e pleonasmi, che a qualcuno potrebbero sembrare espressioni ora d’enfasi ora d’ingenuità e di semplicità, se non di semplicismo. Eppure questo è il linguaggio adatto ai fanciulli, a cui prioritariamente il romanzo è destinato: prioritariamente ma non esclusivamente, perché i messaggi sono per tutti, anche per gli adulti, i quali peraltro oggi, in un mondo meccanizzato e materializzato, cioè disincantato, hanno bisogno ancora della favola, del mito, dell’illusione, dell’incanto...

Nel romanzo dell'Angelone, oltre al “C’era tanti anni fa”, ci sono tutti gl’ingredienti delle favole: reami fantastici, castelli e casette nel bosco, re e regine, principesse e cortigiani, maggiordomi e camerieri, pranzi luculliani, fate e sirene, pesci parlanti, maghi e ciarlatani, incanti e disincanti, viaggi e metamorfosi; e poi la valle dei fiori, l’isola dei cavallucci marini, l’isola delle scimmie, la terra delle sette meraviglie, il paese dei miracoli, il paese della pace (dove si trova un convento di benedettini), l’isola felice, il mare delle tempeste o della morte, il paese della speranza. Ma l’esposizione va al di là della favola per investire la realtà, la cruda realtà odierna, e lanciare messaggi utili — e addirittura necessari — all’individuo e alla società, al fine di fare acquisire una coscienza altruistica e rispettosa di sé, degli altri e dell’universo.

Al centro della narrazione c’è un bambino di sett’anni che intraprende un viaggio avventuroso e periglioso con vari stadi e stazioni, in un continuo ricominciare da capo, alla ricerca del paese dei Miracoli, dove gli abitanti siano onesti, caritatevoli e non invidiosi, s’amino reciprocamente e amino gli animali, siano capaci di condividere beni preziosi quale il pane, non pratichino né falsità né corruzione e soprattutto rispettino igiene e ambiente. E tutto ciò, sempre con sprezzo del pericolo, il quale anzi serve far maturare il protagonista e a rafforzarne la buona volontà, sempre con la speranza nel cuore, tanto che nell’apprendimento c’è anche la “lingua della speranza”.

In quest’avventura, il protagonista Fiordaliso è in successione pastorello, contadinello, navigatore, esploratore, scimmia acrobata, fraticello, precettore. Dunque il romanzo è pieno d’azione e movimento, ma anche di pensiero: un pensiero che consiste nell’insegnamento-educazione che l’autore, già insegnante elementare, dà per bocca di Fiordaliso e che — oltre a suggerire di comportarsi rettamente e di porgere aiuto a chi ne ha bisogno — include anche la lotta alla droga e all’inquinamento, l’igiene personale, la pulizia delle strade e delle campagne, l’equilibrio del sistema planetario. Ecco perché ci sono descrizioni di paesaggi incantevoli, pieni di colori e profumi, e di floridi giardini, ricchi di frutti saporosi, a cui l’autore contrappone gli odierni cibi senza sapore e fiori senza profumo, attribuendone la responsabilità agli operatori economici, agl’industriali e ai capitalisti senza scrupoli, che — provocando fumi, rifiuti, scorie e tossicità, acqua non potabile e pesci morti — determinano l’inquinamento, che a sua volta dà luogo ad “un disastro ecologico ed umano” (p. 151).

Perciò l’autore s’esprime anche per massime, quali: “Nella vita contano i fatti e non le parole. Le parole se le porta il vento.” (p. 76); “I regali prima si accettano con piacere, poi si pretendono per i piaceri fatti, e la gente, così, diventa corrotta. Il regalo più bello è solo la gioia che ho provato per la buona azione fatta.” (pp. 76-77); “La cultura è l’anima della civiltà e del progresso di un popolo.” (p. 161); “Solo là dove si spera di vivere in un mondo migliore, nella pace e nella tranquillità, e non nell’ingiustizia, nella cattiveria e nella prepotenza umana, possono essere applicati quei principi di giustizia, indispensabili per costruire un mondo di pace.” (162).

E per sottolineare vicende e insegnamenti, l’autore inserisce ogni tanto delle composizioni in versi, semplici e cantabili, a volte quasi in forma di filastrocche, particolarmente gradite ai piccoli lettori, l’ultima delle quali alla fine del libro auspica un abbraccio dei poveri da parte dei ricchi e potenti, perché “Dall’abbraccio comune / nascerà nei vostri cuori / l’arcobaleno dell’Amore”.

Nel libro ci sono anche echi di grandi scrittori: per fare qualche esempio, l’agnellino Pippo che muore quando vede tornare il suo padroncino Fiordaliso ci ricorda l’omerico cane Argo che muore quando vede tornare il suo padrone Ulisse (Odissea XVII 290-327); il piccolo Fiordaliso ci ricorda l’Ulisse dantesco che viaggia “per seguir virtute e canoscenza” (Inf. XXVI 120; l’espressione “Non spirava un alito di vento” (p. 116) è una variante della manzoniana “Non tirava un alito di vento” (Promessi sposi VIII); lo stesso Fiordaliso ha qualcosa dello Scurpiddu dell’omonimo racconto di Luigi Capuana; e l’acrobata fra gli alberi ci ricorda Il barone rampante d’Italo Calvino. Invece sembrano distanti I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, perché nell’Angelone non c’è la satira, ma prevale l’intento didascalico-moralistico.

Le ultime pagine del libro sono interessanti dal punto di vista documentario per l’imponente bibliografia dell’autore — che è insieme scrittore, commediografo (anche in dialetto) e pittore — nonché per l’elenco dei riconoscimenti da lui ricevuti e dei critici che si sono occupati delle sue opere. Notevole è anche il profilo dell’illustratore Battibocca.

Passando all’aspetto strettamente formale, si nota l’attenzione dell’autore per fornire una forma quanto più possibile ordinata e corretta. Ciononostante qualcosa è sfuggito, come — ad esempio — gli sgradevoli errori di divisione delle sillabe in fin di riga. I numerosi refusi e sviste varie possono essere corretti direttamente dai lettori. Per quanto riguarda il sottotitolo Tra disincanto e realtà, s’osserva che questo non è esatto, perché il disincanto è già un uscire dall’incanto, illusione o favola, e un tornare alla realtà; e perciò si possono mettere in opposizione non disincanto e realtà, bensì fantasia e realtà oppure finzione e verità. Ci sono poi maiuscole indebite (Regina, Sirena, Regnante, Principessa, Sindaco, Pianeta, Convento, Esclamava, ecc.), virgolette mancanti in qualche discorso diretto e virgole che talora o tagliano il soggetto dal suo verbo o mancano nei vocativi o fungono da punto e virgola; a qualche personaggio un po’ si dà del voi, un po’ del tu; spesso il discorso diretto d’un personaggio è suddiviso fra vari capoversi, dando l’impressione (anche per la mancanza delle virgolette) che ricominci il testo narrativo e a volte confondendosi con l’inizio del discorso diretto d’altro personaggio; e in certe domande il punto esclamativo funge da interrogativo. Inoltre per rispetto alla lingua italiana le parole latine e straniere — anche se poche — avrebbero dovuto essere messe in corsivo o fra virgolette.

Ma queste imperfezioni formali non intaccano l’espressione dell’alta coscienza etico-sociale d’Antonio Angelone e il valore educativo del suo lavoro.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, lug.-dic. 2009]

Sandro Angelucci, Il cerchio che circonda l’infinito, Book, Castel Maggiore (BO), 2005, pagg. 78, euro 11,50.

Et verbum caro factum est: “E la parola si fece carne” (Giov. I 14). È proprio il caso di cominciare questa recensione con una celebre dichiarazione di fede, a causa della profonda religiosità che aleggia in questo libro: una religiosità che non è formalistica e convenzionale (anche se vi ricorrono parole come angelo, paradiso e simili), ma grande spiritualità, anelito d’infinito, tensione verso Dio. Probabilmente dietro questa silloge poetica c’è la Bibbia, nel suo spirito se non nella sua lettera. Ma la citazione evangelica sembra quanto mai opportuna anche perché è alla poesia, e quindi alla parola, e per giunta alla parola poetica, che l’autore affida le sue tensioni spirituali, chiamandola a farsi procuratrice d’infinito e quindi di quel Dio fatto uomo sopra la croce.

Indubbiamente la nostra quotidianità è intessuta di miserie, di sofferenze, d’incertezze, di paure: l’autore lo nota e lo sottolinea pur senza farne dei drammi, senza inveire o blaterare. La sua è una poesia sommessa, che s’affida più che altro alla riflessione e alla persuasione. È per questo che essa s’insinua dolcemente in noi, ci accarezza con la sua bellezza, ci culla con la sua melodia e anche ci persuade. Ed è grazie alla poesia che l’autore, lungi dalla retorica e dall’apologetica della religione ufficiale, riesce a spiccare il volo, dalla grigia o nera terrestrità-temporalità alla sfolgorante eternità, proiettandosi verso il trascendente e quindi verso Dio.

Ecco, dunque, che la silloge poetica Il cerchio che circonda l’infinito di Sandro Angelucci si configura come un’opera d’edificazione morale, in cui risalta da una parte lo spessore spirituale dell’autore, dall’altra l’utilità che ne può derivare per il lettore quando costui cerchi con l’autore di sciogliere l’enigma della creazione, dell’esistenza umana, dell’aldilà. Il lettore, per trarne profitto, può leggere e rileggere il libro, e magari decidere di tenerlo sul comodino, come prontuario o vademecum. Infatti in questo libro la poesia è adatta alla meditazione: il carattere gnomico si desume anche dalle citazioni di grandi poeti (Rilke, Goethe, Jiménez) poste in epigrafe all’inizio d’ognuna delle tre parti in cui si divide la silloge.

Oltretutto il lettore attento potrà ricavarne un notevole beneficio estetico, perché la silloge è anche frutto di grande capacità tecnica. Si capisce subito che l’autore è un vero poeta, ben esperto e navigato, uno di quelli che oggi raramente s’incontrano. E questa pubblicazione vive all’insegna della perfezione: dall’impostazione delle liriche al taglio dei versi, dal timbro del lessico alla collocazione di parole e frasi, con un’attenzione particolare al messaggio implicito, magari posto in versi isolati o in frasi nominali, dopo due punti o un punto fermo. Inoltre — sembra incredibile nella sciatteria dei nostri giorni! — non vi sono refusi, errori o sviste d’alcun tipo: perfino la punteggiatura è sempre corretta, meticolosa e altamente motivata, come pure la distinzione fra maiuscole e minuscole, mentre a sua volta l’aspetto grafico-editoriale è allettante.

In definitiva, questo è un libro perfetto sotto ogni punto di vista: caso rarissimo. E non resta che complimentarsi con l’autore, nella convinzione che a questo libro ne seguiranno altri di pari valore.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2006]


Sandro Angelucci, Verticalità, Book, Ro Ferrarese, 2009, pp. 80, € 12,50.

La verticalità di questa silloge di liriche altro non è che un’ansiosa ricerca di cielo e d'infinito: ecco perché fin dall’esordio il poeta proclama il suo “bisogno di verticalità”, che poi si fa “sogno di cielo” (p. 17), e vuole andare sempre più in alto, magari dove la neve copre le distese, lontano dagli uomini e dal loro inutile chiasso, e dove il silenzio serve per immergersi nelle proprie riflessioni sul trascendente. Le nuvole rincorrono i pensieri, fra candori e minacce, e il poeta si sente come un naufrago che s’agita nel nulla opposto al tutto e nel brutto opposto al bello. Per fortuna la sua non è una ribellione clamorosa, ma genera poesia; e, quando ci si nutre d’amore, tutto ritorna puro. E, se una colpa il poeta l’ha, egli la riconosce nel voler cantare la Bellezza: perciò il libro si costella — oltre che di morte — d’altre parole quali Poesia, Bellezza, Cielo, Sole, Luce, Dio...

Il poeta invoca Dio e lo implora di ritornare quanto prima, chiamandolo Dio dell’uomo, del tempo, d’una volta; e la sua poesia assume aspetti gnomici quando con ponderatezza scrive “La voce di un poeta / è quella del silenzio” (p. 34) e “Al cospetto della morte siamo soli / e questo tirocinio / che è la vita / forse altro non è / che l’occasione / per riappropriarci della nostra solitudine.” (p. 36). Egli parla di continue morti e d’infinite resurrezioni: “Ché all’infinito nacqui / ed infinite volte io risorsi / prima di morire” (p. 49); difende la poesia e si paragona ad un albero che accetta la volontà di Dio, offrendo al cielo i suoi rami nudi, in attesa di poter donare i frutti.

Per poterlo amare egli ha sete di Dio, lo insegue ogni giorno e vorrebbe raggiungerlo sui ghiacciai delle stelle, perché ha scommesso sulla sua esistenza, bontà e Bellezza: e non chiede una conferma a ciò, dato che gli basta il silenzio; mentre il canto liberatore che proviene dalle stelle “innalza queste vite / fatte di luce / di nuvole e di marmo” (p. 51). Immerso nella natura, il poeta ne coglie la manifestazione del divino, tanto che le foglie gli appaiono come bibbia: sente forte il bisogno di “pregare, pregare, pregare” (p. 57) e vuole salire sul carro dell’Orsa Maggiore per essere condotto “lungo campi di stelle / a raccogliere spighe / sulle zolle del cielo” (p. 67). E a conclusione il poeta, fra un’epifania e l’altra del Sole, ci dice quale sarà per lui l’unico Dio: “un’incommensurabile volontà / di sublimazione della parola / di continua materializzazione / e di dissolvimento dello spirito / nella vita universale” (p. 70).

Come si vede, il lavoro dell’Angelucci, di cui molti lettori conoscono la serietà e la capacità, pur moralmente impegnato è scevro d’elucubrazioni e appartiene alle più valide creazioni dello spirito: il poeta è riuscito anche stavolta ad innestare un tema complesso in un concerto melodico, grazie all’intelligente taglio dei versi e all’idonea scelta dei vocaboli. E si può aggiungere che il lettore, se paradossalmente non gradisse il contenuto d’elevata meditazione, per essere interessato avrebbe a disposizione tutta la bellezza della forma, che s’avvale di correttezza espressiva, chiarezza e scorrevolezza, rendendo questa silloge una delle migliori di questa stagione letteraria.

Infine utile e condivisibile appare l’attenta prefazione di Silvano Demarchi, mentre la forma grafico-editoriale è elegante e fine.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2010]


Sandro Angelucci, Titiwai, Ladolfi, Borgomanero, 2019, pp. 83, € 10.

I lettori più accorti e sensibili avevano letto con entusiasmo le precedenti sillogi di versi di Sandro Angelucci, personalità di rilievo nel panorama culturale contemporaneo, compiacendosi per l’elevata qualità della sua poesia, che si esprimeva — si può dire — alla perfezione per quanto riguarda sia il contenuto sia la forma, e rilevandone la rarità in un periodo in cui prevalevano l’improvvisazione e la mediocrità.

Con questa nuova silloge l’autore non raggiunge il livello delle precedenti, ed in particolare della prima intitolata Il cerchio che circonda l’infinito del 2005, ma ne riprende e continua alcuni temi, le problematiche, le ansie, i messaggi. In ogni caso le sue composizioni sono come quelle “titiwai” del titolo di questa silloge e dell’ultima omonima lirica, che per i Māori della nuova Zelanda di lingua polinesiana “Sono larve che emettono bagliori / sulla scala degli azzurri.” (p. 73).

Anche qui c’è tanta voglia d’infinito da parte d’un uomo che si pone molti interrogativi e mostra di tendere a quell’Assoluto, che già aveva occupato buona parte della produzione precedente. Diciamolo francamente: anche qui c’è l’anelito verso Dio, nonostante le difficoltà della ricerca. Come Ulisse-Nessuno l’uomo tende ad accecare il gigante con un palo e porsi in navigazione verso la sua Itaca: “Navighiamo per mari stranieri. / Cerchiamo in terre lontane / la creta che abbiamo nel cuore. / Ed è qui, dentro di noi, / il coraggio delle nostre paure. / Soltanto al ritorno / scopriamo il perché del nostro viaggiare.” (p. 15). Riconoscendo che alla base di tutto c’è un mistero, l’autore nota poi che “è così bello essere mortali / sapere di far parte del mistero” (p. 19); e raffigura noi uomini come “sperduti tra le dune del deserti / dove a miraggi / si riducono le oasi” (p. 23). E dopo avere capito “che c’è un solo modo / per amare davvero: / essere amati” (p. 32) e che “si avvicina l’ora del tramonto” (p. 39), l’autore si chiede ancora “Chi siamo? Dove andiamo?” (p. 45), fino a quando di fronte alla bellezza della natura può sentire l’eco della biblica voce di chi affermò “Io sono colui che sono” (p. 58).

Oltre a ciò in questa silloge ci sono altri temi: i nefasti effetti di bombe e gas nervini, l’inquinamento derivante dal petrolio, il contrasto fra la ricchezza del mondo occidentale e la povertà del terzo mondo, la carenza d’acqua e la conseguente aridità, la libertà della natura, la madre, la felicità, la poesia, i frutti benedetti da Dio ma trascurati da molti uomini, la poesia, la salvezza del mondo…

Come si vede, dunque, ci sono validi motivi per leggere e apprezzare questo nuovo lavoro dell’Angelucci. E, se pur s’incontrano composizioni con tracce di retorica prosastica, ce ne sono altre in cui dominano il fine lirismo e la competenza tecnico-espressiva: ad esempio, è il caso di “Gonfiare le piume” (p. 34), “Preghiera per mia madre” (p. 41), “Come le spighe pane” (p. 52), “Il contratto” (p. 53), “Io sono colui che sono” (p. 58), “Se si chiede” (p. 59). In queste ed altre liriche c’è una suggestione che deriva non soltanto dall’ansia del poeta per il regno dello spirito, ma anche dal taglio, dalla levità e dalla musicalità dei versi, che confermano il poeta di prima.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2022]


“Annali della fondazione Verga”

Invito al recupero della memoria complessiva del grande scrittore catanese

È ricco di notizie e commenti, e quindi molto interessante, il n° 2 (nuova serie) degli Annali della Fondazione “Verga” (Stampadiretta, Catania, 2009, pp. 316), che nella quasi totalità presenta i testi delle relazioni tenute al convegno svoltosi a Catania nei giorni 12 e 13 Dicembre 2008 sul tema “Il punto su… Verga e il Verismo”: in ogni caso i due saggi estranei al convegno rientrano nella temperie verghiana. Per evidenti ragioni di spazio, qui non è possibile recensire in profondità tutti i saggi inclusi, ma potranno essere utili alcuni cenni sul contenuto del volume, brillantemente introdotto da Nicolò Mineo, presidente della Fondazione stessa.

Giuseppe Giarrizzo s’occupa della civiltà europea fra Ottocento e Novecento, rilevando i costi umani del progresso, quando con De Roberto (I viceré) e Pirandello (I vecchi e i giovani) si comincia a fare i conti col Risorgimento: problema già affrontato dal Verga (La libertà).

Gabriella Alfieri tratta della critica linguistica sul Verismo, basandosi su quelle che lei chiama lettura a tagliatelle e lettura a lasagne; e nella lunga rassegna di filologi e linguisti vari cita Gianfranco Folena e Carlo Cenini, il quale ultimo s’era occupato dell’onomastica minore dei Malavoglia, titolo da Antonio Di Silvestro fatto risalire al siciliano malavogghia, mentre l’Alfieri stessa lo fa risalire antifrasticamente al ligure bonavogghia nel senso di “galeotto”, cioè buon rematore; e a proposito degli “alveari” velati del Mastro-don Gesualdo in nota ricorda Gino Raya e Antonio Mazzarino che di ciò s’erano occupati, mentre subito dopo rileva alcune allitterazioni in ar presenti nell’ultimo capitolo dei Malavoglia.

Giorgio Longo, parlando del Verga e del Verismo in Francia, fra l’altro riporta il poco noto articolo verghiano in francese Le patriotisme devant les sentiments internationaux (“La revue”, Paris, 1.II.1904, IV série, vol. XLVIII), in cui lo scrittore, dopo aver giudicato il patriottismo non solamente utile ma anche necessario, afferma che, in attesa del giorno in cui gli uomini si comportino da veri fratelli rinunciando alla forza per dirimere le controversie, sia cosa buona e obbligatoria non soltanto amare ed esaltare la patria, ma anche tenere secca la polvere da sparo.

Claudia Oliveri svolge un “discorso anomalo” sulla Russia e su altri paesi slavi, fra l’altro facendo presente che non soltanto i romanzi minori del Verga trovarono in Russia un ambiente idoneo alla loro diffusione e che era russa la protagonista del romanzo verghiano Tigre reale, ma anche che una certa Anna Ul’janova, sorella nientemeno che di Vladimir Ul'janov detto Lenin, tradusse in russo le novelle verghiane Guerra di santi ed Epopea spicciola, dopo aver tradotto il deamicisiano Cuore e avere scritto il suo racconto Caruso, d’impronta verghiana.

Romano Luperini esamina l’interpretazione di Giacomo Debenedetti, accennando al bozzetto Nedda, inquadrato nel filone filantropico-sociale facente capo al Dall’Ongaro e alla Percoto, e si sofferma sulla poesia della chiusa dei Malavoglia.

Andrea Manganaro parla delle novelle verghiane nella critica, rifacendosi principalmente al Russo, il quale definì “poesia cristiana” l’arte del “laico” Verga, perciò detto “prosatore-poeta” grazie alla cantabilità dei suoi periodi, e depositari d’una “religiosità laica” i suoi personaggi; e riporta la distinzione pirandelliana (ma d’origine aristotelica) circa l’essenza del romanzo, del racconto (modo epico-narrativo) e della novella (modo drammatico), da lui avvicinata alla tragedia greca, precisando che secondo Guido Guglielmi nel Novecento nasce il “romanzo a cornice” in cui ogni episodio o capitolo è un compiuto racconto a sé.

Guido Nicastro fa il punto sul teatro verghiano, evidenziandone ascendenze, trasposizioni, somiglianze e differenze, non senza accennare ai rapporti col melodramma e col cinema.

Matteo Durante presenta la laboriosa ricomposizione autografa della novella Vagabondaggio, mettendo a confronto nella sua certosina ricostruzione codici e varianti, anche con quadri sinottici, e riportando in appendice il testo dell’ultima versione dell’intera novella, corredato degli apparati di correzioni e successive varianti.

Salvina Bosco s’interessa del Verga in linea, elencando in ordine con opportune chiose tutti gli autografi per arrivare alla fruizione telematica dell’intero corpus verghiano e deplorando il fatto che per lungo tempo le carte verghiane sono rimaste segretate e a volte smarrite.

Giovanni Vecchio s’intrattiene sulla contrada Bongiardo, più volte nominata in Nedda, e ne indica il sito tra Santa Venerina e Zafferana Etnea, verso Pisano (CT), allegando due relative fotografie.

Mario Tropea fa il punto su tutto ciò che in Luigi Capuana è spiritico, soprannaturale, esoterico: una tendenza presente anche in Farina, De Roberto e Fogazzaro, oltre che in numerosi scrittori stranieri, senza dimenticare il Verga delle Storie del castello di Trezza e riferimenti in Pirandello e Svevo.

Rosario Castelli fa una panoramica su Federico De Roberto, operante nel momento in cui il Naturalismo sfociava nello Psicologismo, e sul suo malcontento circa la situazione della società italiana dopo l’Unità, ravvisando nei Viceré (come anche nel Gattopardo del Tomasi di Lampedusa) una delusione siciliana; ne traccia una bibliografia ragionata, in cui loda l’intervento di Matteo Collura, e c’informa che il Verga non aveva tanta fiducia nelle donne, specie se scrittrici.

Olga Signorello si diffonde su Antonino Russo Giusti, avvocato, attore e autore di teatro dialettale. Delinea l’ambiente catanese in cui egli operò fra personalità quali da una parte i letterati Verga, Rapisardi, De Roberto, Martoglio, e dall’altra il fisico Majorana, i politici Di Sangiuliano e De Felice e il cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, oggi beato, senza dimenticare attori come Musco, Grasso, Anselmi, Balestrieri, Micalizzi, ecc., e numerosi giornalisti. Parla pure dei successi del Russo Giusti non soltanto nell’Italia Settentrionale, ma anche all’estero, perfino in remote contrade: in questo contesto cita il musicista catanese Gaetano Emanuel Calì che musicò la celebre romanza …e vui durmiti ancora!, però non dicendo che essa era ambientata al fronte durante la prima guerra mondiale e che era stata composta dal poeta dialettale Giovanni Formisano (Catania 1878 - 1962).

Michela Toppano infine si sofferma sul romanzo derobertiano Spasimo, sottolineandone la ragione cieca e le astuzie della fede (e viceversa), i sentimenti di perdono e pietà, il collegamento con l’anarchismo bakuniano. A margine va detto che sullo stesso argomento ha pubblicato un interessante libro Giorgia Capozzi, riguardante non soltanto il romanzo, ma anche la sua trasposizione nel dramma La tormenta (titolo probabilmente desunto da La tempesta di Shakespeare, del quale egli era ammiratore), fatta dallo stesso De Roberto: trasposizione ignorata dal saggio della Toppano.

La forma grafico-editoriale è modesta, puntando solamente all’essenziale, e la lettura è disturbata da numerosi refusi tipografici, che ad ogni modo non sminuiscono il valore delle relazioni presentate.

Purtroppo nei vari interventi hanno poca considerazione critici come Gino Raya (il quale in realtà fu il principale verghista, grazie all’infaticabile ricerca e studio delle lettere del Verga, oltre che per propri saggi critici e per il completamento del ciclo narrativo dei vinti, ideato dal Verga e poi interrotto a meno di metà) e Carmelo Musumarra (critico apprezzato anzitutto per i suoi studi verghiani); e, per parziale informazione dei relatori, non vengono nemmeno citati altri “critici siciliani in servizio”, come li definì il quotidiano catanese “La Sicilia” nel supplemento speciale del 23 Aprile 1970, formando un pantheon degl’intellettuali siciliani illustri nel 25° anniversario della Regione Siciliana.

A conclusione si rileva che la Fondazione dovrebbe curare non soltanto lo studio dei manoscritti e della critica, ma la memoria complessiva del Verga, a cominciare dallo stato della tomba (che merita d’essere collocata all’interno della cattedrale di Catania) e dalla leggibilità delle lapidi sulle case del Verga stesso e del De Roberto, per incuria del Comune abbandonate a sé stesse e illeggibili da molti anni.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, mag. 2011]


Mario Pietro Ardesian, Dai Castelli al Buco del Piombo, Colorama, San Donà di Piave, 2006.

INQUIETUDINI D’UN SEMINARISTA NEL RACCONTO D’ARDESIAN-MASIER

Il poderoso volume di Mario Pietro Ardesian “Dai Castelli al Buco del Piombo” (Colorama, San Donà di Piave, 2006) reca una fascetta con una frase d’Adriano Masier: “Sette anni di storia di un ragazzo di campagna in cerca di se stesso e del suo futuro”. Tale frase, poi, nel frontespizio interno risulta come sottotitolo del volume stesso, unitamente all’altra “Strada facendo, si è trovato più volte tra i ruderi del castello dell’Innominato ”. Queste due frasi, più che il titolo, danno informazioni utili sul contenuto, di cui anticipano la sostanza; e così i sottotitoli riescono significativi, mentre il titolo vero e proprio significa poco. Ma basta guardare l’indice, bene schematizzato e collocato all’inizio, per avere un quadro abbastanza chiaro della trama.

Il Masier nell’introduzione dichiara che il protagonista Mario, cioè Mario Pietro Ardesian, è un suo fraterno amico e praticamente il suo “alter ego”. Inoltre quest’ultimo a pag. 203, circa la motivazione a scrivere il racconto-diario, confessa che nel 1957 fu spinto all’opera anche dalla considerazione che le iniziali del suo nominativo sono le stesse dello scrittore Alessandro Manzoni (A. M.). Poiché, invece, le iniziali dell’autore Mario Pietro Ardesian sono M. P. A., se ne deduce che il vero nominativo dell’autore di questo volume è Adriano Masier (A. M.), mentre Mario Pietro Ardesian è uno pseudonimo.

Dunque, siamo in presenza d’un racconto autobiografico: quello d’un ragazzo di campagna che per la povertà della famiglia, dietro consiglio del parroco, viene mandato in seminario, dove si spera che possa trovare il suo avvenire. Non è semplice né facile la vita nei seminari dei padri somaschi: è vero che alla precedente povertà si contrappone il privilegio (riconosciuto dall’autore) delle nuove eleganti dimore, della modesta agiatezza, delle visite di monumenti e paesaggi incantevoli e della gratuità del parco cibo e degli studi; ma le regole sono severe, tanto che, a detta del Masier, il quale critica quell’educazione “fatta con i paraocchi”, qualche sacerdote s’è dimostrato impreparato e/o inadatto e diversi ex seminaristi nella vita civile per reazione sono diventati atei, amorali, estremisti politici, delinquenti, squilibrati. E non bisogna dimenticare che il periodo del seminario a quell’epoca era quello della pubertà e quindi dei bisogni affettivi, delle pulsioni sessuali e dei sogni erotici.

Una serie di disavventure personali (cadute, denti rotti, esaurimento nervoso, influenza asiatica, coma, ricovero ospedaliero per asportazione delle tonsille, emorragie, incubi, ecc.), con conseguenti bocciature e calo dell’interesse per la vita seminariale, ma soprattutto una serie d’interrogativi circa la giustezza della scelta compiuta, dopo quasi otto anni inducono il protagonista a chiedere la dispensa dai voti semplici già emessi e a rientrare in famiglia e alla vita civile, nonostante che la precedente scalata ad un cedro del Libano, pericolosissima a causa di graffiature e mancamenti, sembrasse simboleggiare la vittoria sulle proprie debolezze e incertezze, con la conquista dell’“excelsior”. E dopo la sofferta rinuncia il protagonista è licenziato in malo modo, non senza essere segregato per qualche settimana in una cameretta d’altro istituto affinché non potesse “contagiare” altri novizi..

Ma neanche la ritrovata vita civile è facile: sia perché sono passati otto anni (e il protagonista non sa più parlare in dialetto, risultando un estraneo al suo ambiente) e con le donne è impacciato, sia perché la ricerca del lavoro (prima e dopo del servizio militare) è travagliata, costringendolo a vari cambiamenti d’attività, intervallati da periodi di disoccupazione. Soltanto alla fine egli trova il lavoro stabile e a lui adatto d’impiegato in un municipio e può fidanzarsi e sposarsi, procreando poi tre figli.

La narrazione si svolge in un alternarsi d’entusiasmi e ripensamenti, d’inquietudini e malinconie. Entusiasmanti sono le numerose gite e le fraterne amicizie che s’instaurano fra compagni. Già sembrano gite gli spostamenti: da Ponte di Piave (TV) a Treviso, a Quero (BL), a Corbetta (MI), a Ponzate (CO), a Somasca di Vercurago (allora BG e ora LC), a Camino (AL) e a Casale Monferrato (AL); e in tali spostamenti il protagonista ha anche l’occasione d’incontrare due futuri papi: l’arcivescovo milanese Montini e il patriarca veneziano Roncalli. Ma gite-camminate vere e proprie sono quelle a Treviso (dove il protagonista fra l’altro assaggia e apprezza i vini siciliani, pubblicizzati da un’insegna d’osteria), alla sorgente del Piave, a Venezia, ai monti Marmolada, Cesen e Grappa, alla Rocca di Cornuda, al fiume Ticino e al lago di Como, al Buco del Piombo, alla certosa di Pavia, a Lecco e ai luoghi manzoniani (tra cui anche il monte Resegone) e infine a Torino.

D’ogni dimora e località visitata, compresi monumenti e chiese, l’autore non si limita a descrivere l’aspetto (artistico, architettonico e paesaggistico) con attente e dettagliate notazioni che quasi ce le fanno vedere come in pittura o fotografia, ma, con l’apporto dei suoi assistenti e superiori (tutte persone dotate di grande cultura) traccia la storia, a volte dilungandosi per pagine intere. È il caso dei bombardamenti di Treviso, delle vicende del Veneto durante la Lega di Cambrai e della vita di S. Girolamo Emiliani (in veneziano detto Miani), fondatore della congregazione dei somaschi. Così egli stuzzica i desideri turistico-culturali dei lettori.

A proposito della cultura vigente in quei seminari, notevole è il culto delle lingue classiche: per quanto riguarda il latino, durante un’intera giornata settimanale (il venerdì) c’è per tutti l’obbligo di parlare in latino; e, per quanto riguarda il greco, la formula che accompagna il segno di croce viene pronunciata in tale lingua, di cui poi s’apprendono a memoria le parole transitate nell’italiano corrente. Invece il dialetto è vietato, pena la consegna al dialettofono d’una chiave di cui poi egli potrà liberarsi consegnandola a sua volta ad un compagno colto in fallo. Questa è una regola vigente in molti collegi (somaschi, salesiani, ecc.), dove magari al posto della chiave è un anello che circola fra gli studenti.

Il volume è talmente avvincente che quando si è giunti alla fine si riprende a leggerlo, almeno nelle parti salienti. Esso è arricchito da numerose fotografie (quelle antiche in bianconero e quelle recenti a colori), che ne fanno anche un album di memorie, con immagini di persone e luoghi. Ciò che lascia a desiderare è, però, la forma espressiva: infatti, sono parecchi non soltanto i refusi tipografici, ma anche gli errori vari (ortografia, grammatica, sintassi, punteggiatura, accentazione, lessico talora dialettaleggiante). Inoltre, a parte il fatto che l’uso dei corsivi e grassetti non sempre appare congruo, le parole dialettali o latine non sempre sono poste fra virgolette o in carattere differenziato e spesso non hanno la traduzione in italiano nemmeno in nota. Infine alcuni capitoli avrebbero potuto essere accorciati per ottenere una maggiore maneggevolezza.

Tuttavia l’opera dell’Ardesian/Masier complessivamente si caratterizza per la sua sincerità e per il suo intento d’insegnare qualcosa ai giovani: anzitutto con l’evocazione della povertà, delle privazioni e dei patimenti nel periodo a cavallo della guerra, nonché dei rudimentali giochi e giocattoli (per lo più autoprodotti), e poi con quello del rigore della vita seminariale, non a tutti accessibile. Notevole è anche l’accenno a tradizioni venete, come la festosità della vendemmia e la tristezza della ricorrenza di S. Martino, nota non soltanto per la sua breve estate e per il vino novello, ma anche per la fine dei contratti annuali di lavoro agricolo, che poteva creare gravi disagi alle famiglie.

In conclusione, da questo racconto, pubblicato quasi 50 anni dopo l’inizio della stesura, per una necessità di confessione e testimonianza, emerge la figura d’un ragazzo serio, consapevole e responsabile, maturato anzitempo, com’è raro trovarne oggi. L’autore, oltre ad auspicare un regime seminariale meno severo e più aperto di quello di mezzo secolo fa, insomma più consono all’evoluzione della società, vuole esortare i giovani d’oggi (abituati ad avere anche il superfluo e a vivere in un divertimento continuo) a riflettere sul vero scopo della loro esistenza e sulle difficoltà della vita d’una volta, dimostrando comprensione e rispetto per chi tanto patì, non sprecando i beni di consumo, praticando il dovere della solidarietà e facendo il possibile perché le privazioni e sofferenze d’un tempo non si ripetano più.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, lug.-dic. 2008]


Giovanni Pietro Arrivabene, Pontifici sit musa dicata Pio / “La mia poesia sia dedicata al pontefice Pio”, a cura d’Orazio Antonio Bologna, If press, Roma, 2014, pp. 128, € 15.

Il titolo latino di questo libro è desunto dal verso 50 della prima parte del carme di Giovanni Pietro Arrivabene, che nella sua formulazione è “Pontifici mea sit musa dicata Pio”. E bene ha fatto Orazio Antonio Bologna — docente nell’università salesiana di Roma, noto latinista e membro di prestigiose accademie latine — a pubblicare per la prima volta dopo 550 anni questo codice del sec. XV da lui scoperto nella libreria Piccolomini di Pienza, del quale in chiusura inserisce alcune pagine riprodotte, perché esso non soltanto illumina l’oscuro Arrivabene, ma di riflesso richiama l’attenzione sulla figura di quel grande umanista che fu Enea Silvio Piccolomini, poi divenuto papa Pio II.

Dopo il saluto del vescovo Rodolfo Cetoloni e l’utile presentazione di Manlio Sodi, preside del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis, il Bologna nel suo articolato saggio introduttivo c’informa che l’Arrivabene nacque a Mantova nel 1439 e morì ad Urbino (di cui era vescovo) nel 1504; che era stato cancelliere (segretario e protonotaro) alla corte dei Gonzaga; che il suo carme, pur con qualche incertezza metrica e varie ridondanze, è ricco di profonda cultura, spaziante a vasto raggio nel mondo greco-romano (dalla teologia all’astronomia, dalla storia alla mitologia, ecc.); che riesce a rendere in poesia anche i dogmi più difficili, quali la Creazione, l’Incarnazione, la Trinità e la Verginità di Maria, e anzi a quest’ultimo riguardo nei versi 229-230 della seconda parte sembra riecheggiare la famosa preghiera “Vergine Madre” della Divina Commedia, opera a lui familiare.

Nella stessa introduzione, sia pure con alcuni termini non sempre accessibili al lettore comune, il curatore c’informa che Enea Silvio Piccolomini nacque a Corsignano (poi Pienza) nel 1405 e morì ad Ancona nel 1464; che in gioventù era stato contrario alla castità e aveva anche scritto opere licenziose; che, dopo aver chiesto e ottenuto perdono per tutto ciò, era divenuto sacerdote e vescovo di Trieste e di Siena; che era stato paladino della fede e della pace fra i cristiani; che nel conclave del 1458, dopo aver difeso l’italianità del papato, era stato eletto papa col nome di Pio II e come tale, pur essendo nepotista, era stato instancabile fautore della letteratura e dell’arte, a Roma e in Toscana, dove Pienza fu rimodellata ad opera d’eccellenti architetti del tempo, divenendo uno dei borghi storici più belli d’Italia; che fu assertore dell’autorità papale, impose la disciplina agli ordini religiosi, canonizzò la sua corregionale Caterina da Siena, difese gli ebrei e trascorse gli ultimi anni assillato dall’avanzata dei turchi, contro i quali indisse la IX crociata, mettendosene lui stesso a capo fino alla morte (cui seguì il fallimento della stessa) e arrivando a scrivere al sultano Maometto II, al quale propose di convertirsi al cristianesimo per diventare imperatore d’Oriente.

Alla fine dell’introduzione il curatore confessa d’essere stato tentato di tradurre il carme in endecasillabi tradizionali, ma poi ha optato per una prosa ritmica italiana, in ogni caso rifiutando di fare una traduzione letterale, sulla scorta di S. Girolamo, il quale, rifacendosi a Cicerone, aveva dichiarato di tradurre non parola per parola, ma concetto per concetto. E in effetti, per chi conosce il latino, è piacevole in questo libro seguire il testo del carme dalla pagina in latino alla pagina in italiano posta a fronte e notare come ben riuscita è l’interpretazione del Bologna.

L’Arrivabene, mischiando sacro e profano, cristiano e pagano secondo il metodo di certi umanisti, nel suo carme tratta della nascita e diffusione del cristianesimo, delle prime chiese locali, dei màrtiri, del primo papa che fu Pietro e di quelli successivi, per arrivare a Pio I (sec. II), che morì martire e a cui si deve la decisione di fissare la Pasqua alla domenica successiva al primo plenilunio di primavera; e ciò dà all’Arrivabene stesso l’occasione d’introdurre il successore Pio II, del quale — talora con enfasi, esagerazioni varie e affermazioni inverosimili (numero di Stati e sovrani partecipanti, nemici mostruosi e cannibali, tono da Mille e una notte) — esalta non soltanto la grande cultura e l’abilità oratoria, ma anche le epiche gesta, la resistenza alle difficoltà come il mitico Atlante e i trionfi relativi a quella crociata (in realtà presto fallita), trovando anche il pretesto per lodare la dinastia dei Gonzaga, presso cui egli stesso prestava servizio.

Oltre che per la scoperta, trascrizione e traduzione del codice dell’Arrivabene, questo lavoro del Bologna si segnala per la consistenza delle note, nelle quali è concentrata una dovizia d’utilissime informazioni e commenti di carattere biografico, linguistico, estetico, storico, geografico, mitologico, biblico e religioso in generale, che costituiscono una piccola ma preziosa enciclopedia del sapere e in cui non mancano opportuni riferimenti e confronti col poema sacro di Dante.

In quest’ottica non si bada a qualche inesattezza, come quella della festa veneziana dello “Sposalizio col mare” che a p. 108, nota 146, è posta nella ricorrenza dell’Assunzione della Madonna, mentre in realtà essa si celebra per l’Ascensione di Gesù: e perciò il libro può essere benissimo consigliato agli studiosi e alle biblioteche, trattandosi d’un interessante documento.

Carmelo Ciccia

[“L’araldo poliziano”, Montepulciano, 8.VI.2014]


Giuseppe Aspesi, Franco Piacentini e Mario Rossini (a cura di), Segni per la memoria / Epigrafi in Samarate, Freeman, Busto Arsizio, 2002, pagg. 120, € 8.

Samarate è un vivace comune in provincia di Varese, in cui opera attivamente un gruppo d’intellettuali ed artisti, con relativa pubblicazione d’una collana di libri. In questo volume a cura di Giuseppe Aspesi, Franco Piacentini e Mario Rossini, e con fotografie di Piermario Maran, sono raccolte, spiegate e commentate tutte le epigrafi esistenti nel territorio comunale. È evidente che un lavoro del genere va subito apprezzato, non soltanto perché costituisce un catalogo di cose delle quali forse a varie persone sfuggiva l’importanza, ma anche perché rappresenta una lezione di civismo intesa a valorizzare il culto della memoria.

Le epigrafi qui presentate si trovano in chiese, campanili, campane, tombe, uffici, scuole, monumenti, meridiane, targhe toponomastiche, case, ecc. Con esse di volta in volta s’invocano pietà e protezione dal soprannaturale, si ricordano benefattori, martiri ed eroi, si tramanda qualche guerra o epidemia, s’indica qualche località, si sottolinea lo scorrer del tempo e s’invita alla riflessione, si richiama qualche fatto di costume come ad esempio il mito della “classe di ferro”, su cui è interessante la nota storica che illustra una relativa scritta d’evviva tracciata da qualche sconosciuto alcuni decenni fa.

In successive edizioni di questo libro si dovrà aggiungere l’epigrafe che nel frattempo è stata dipinta sulla porta dell’ufficio del sindaco: Obliti privatorum, publica curate. (“Dimentichi degli affari privati, curate quelli pubblici.”) Si tratta d’una massima latina originariamente posta sullo stipite della sala del maggior consiglio del palazzo del rettore/governatore a Ragusa di Dalmazia, fatta propria dal consiglio comunale di Santorso (VI) e ora riprodotta a Samarate (VA) dall’artista Mario Rossini: una massima tanto importante che il papa Giovanni Paolo II la inserì nei suoi discorsi ufficiali in Croazia, nel 1998 e nel 2003.

Attraverso queste epigrafi, che spesso comprendono dei nominativi, si ha un quadro della vita religiosa, civile e morale di questa comunità, di cui praticamente si delinea la storia; e quindi tutte le epigrafi vanno lette con attenzione. Ad esempio, a volte si ricordano personaggi come l’aviere Francesco Baracca, il pioniere Giovanni Agusta, l’industriale Carlo Ricci, il medico Ercole Ferrario e il frate Daniele Rossini; a volte si riportano brani della Bibbia (Qohel.-Eccl. I 10); a volte si citano grandi autori come Virgilio (Buc. X 69) e Dante (Inf. XX 61-63); e c’è perfino una lettera autografa di Gabriele D’Annunzio.

Se tutte le epigrafi sono interessanti, particolare interesse hanno quelle in latino: e ciò, perché nella nostra epoca il latino è decaduto nelle scuole, nelle chiese e perfino nei seminari. In conseguenza di ciò i nuovi sacerdoti non sono più capaci di spiegare ai fedeli le epigrafi in latino che abbondano negli edifici sacri, di cui magari sono consegnatari, e nemmeno di presentare compiutamente la storia della Chiesa. Perciò molto opportunamente in questo volume tali epigrafi hanno la traduzione, anche se non sempre essa è fedele, come nel caso delle epigrafi delle campane, del Tantum ergo (che più che traduzione ha una libera parafrasi), e delle parole “pro vobis et pro multis” della consacrazione del vino (per le quali si è preferita la versione attuale “per voi e per tutti”, anziché quella letterale “per voi e per molti”).

A quest’ultimo riguardo, ovviamente questa non è la sede per entrare nel merito della contraddizione che ha indotto la Conferenza Episcopale Italiana, a differenza d’altre (ad esempio quella francese), ad adottare dopo parecchi secoli la nuova formula “per voi e per tutti” già respinta e condannata con ampie motivazioni nel catechismo di S. Pio V; però non si può non rilevare che in questo caso la traduzione “per voi e per tutti” è fuorviante dal punto di vista strettamente linguistico, facendo insorgere nei molti lettori che non conoscono il latino — aventi sotto gli occhi contemporaneamente il testo latino e la traduzione italiana — l’erronea convinzione che la parola latina “multis” (nel vangelo greco polloús = “molti”) significhi “tutti” (e non in realtà “molti”).

Tuttavia, a parte questo rilievo, il libro, che è corredato di varie illustrazioni e d’elegante forma grafico-editoriale, è degno di molta lode; cosa per la quale ci complimentiamo sinceramente con i curatori.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 3/2006]


Sandro Attanasio, Sicilia senza Italia / Luglio-agosto 1943, Mursia, Milano, 1976, pagg. 273.

Nella ricorrenza del fatidico 14 luglio

LA GUERRA DEL ’43 IN SICILIA descritta da Sandro Attanasio

È ancora opinione largamente diffusa che nel 1943 in Sicilia le truppe italiane avessero rinunciato aprioristicamente alla difesa, dandosi alla macchia o fuggendo a casa, anche se vi fu davvero qualche episodio del genere. In realtà, salvo il caso della piazzaforte d’Augusta che fu fatta saltare per motivi tuttora inspiegabili ancor prima che i nemici fossero in vista, i nostri soldati resistettero fino all’ultimo con ogni mezzo, ancorché dotati d’armi fasulle, in una ben organizzata difesa ad oltranza. Tutto ciò è ampiamente descritto e documentato nel libro del catanese Sandro Attanasio Sicilia senza Italia / Luglio-agosto 1943 (ed. Mursia).

Con uno stile semplice e chiaro l’autore (che sembra collocarsi su posizioni ideologiche di destra) descrive numerosi episodi d’eroismo, dalla vigilia dello sbarco all’insediamento delle nuove amministrazioni, da cui emerge che la vittoria alleata fu dovuta esclusivamente alla schiacciante preponderanza delle truppe alleate, che a volte, per conquistare un lembo di territorio o un obiettivo dovettero fare ripetuti tentativi.

Nel libro, fornito d’una ricca documentazione anche fotografica, vi sono numerosi particolari che gli anziani ancora ricordano, perché impressi indelebilmente nella loro mente: la fame, il razionamento dei viveri, il contrabbando, l’oscuramento della luce elettrica, la protezione delle vetrate con strisce di carta a vari disegni, il coprifuoco, il fischio d’allarme delle sirene, gl’improvvisati rifugi antiaerei, il rombo degli aeroplani, i razzi luminosi, i volantini aerei, i bombardamenti e poi i morti, i feriti, le macerie, lo sfollamento in campagne, il ricovero in capanne e grotte, le distruzioni, i lutti...

Ma, oltre a ciò, l’autore presenta ed esamina le questioni di politica nazionale ed internazionale: Hitler, Mussolini, il Vaticano, i tentativi di pace, la caduta del fascismo, l’armistizio, il governo militare ed altri. A volte l’autore si sofferma su particolari storici, geografici, meteorologici, di costume o folclore: una festa, un atto d’eroismo o d’umanità, una parola, un grido, una nuvola bianca, una curiosità; e sembra ch’egli sia stato veramente presente in quei momenti e abbia visto, vissuto, gioito o sofferto anche lui.

Come si succedono i memorabili fatti militari, così ci sfilano sotto gli occhi le centinaia di località siciliane che furono teatro di questa guerra. Paternò (e le sue frazioni Gerbini e Sferro) vi è nominata alcune volte e vi è ricordato il bombardamento del 14 luglio, solo che è datato tre giorni prima; strano che uno storico così pignolo come l’Attanasio si sia lasciato sfuggire un errore del genere: “L’11 luglio il continuo micidiale bombardamento raggiunse Paternò, una cittadina posta una ventina di chilometri a ovest di Catania, gremita di gente sfollata dalla città. I bombardieri alleati si scagliarono sulla cittadina colpendo in lungo e in largo. Si lasciarono dietro un mare di rovine e 9.000 morti o feriti. Le vittime furono tutte civili, in maggioranza donne e bambini. L’unico obiettivo militare di Paternò, il comando della 213^ divisione costiera del generale Carlo Gotti, fin dalla sera prima, si era trasferito in un posto tattico segreto stabilito in una fattoria nei pressi di Motta Sant’Anastasia, un paesino che domina la piana di Catania.” (pag. 149)

Purtroppo anche in certi libri e audiocassette editi a Paternò risultano sbagliate le date d’inizio e fine dei bombardamenti aerei su Paternò, che (ripetiamo ancora una volta) sono 14 luglio - 3 agosto 1943: basterebbe controllare i documenti, fra cui la motivazione della medaglia d’oro e anche le lapidi commemorative collocate rispettivamente in piazza della Regione e ai Quattro Canti: a parte il fatto che date del genere sono sempre vive nei sopravvissuti di quella catastrofe.

Nel libro è dato notevole spazio anche al dopoguerra, ai fermenti d’autonomia e d’indipendenza, al ruolo della mafia. Ne deriva una decisa volontà di ripresa del nostro popolo, contrastata però da innumerevoli difficoltà, naturali e politiche. Fra i giovani politici emergenti di quel periodo a pag. 185 è citato anche il futuro deputato Matteo Agosta, figlio del segretario comunale di Paternò cav. Vito Agosta.

L’opera, sebbene a volte appesantita da dettagli tecnici e numerici non sempre necessari, è un terribile mosaico di fatti purtroppo realmente accaduti e si legge con grande interesse perché altamente educativa, oltre che informativa; e perciò ne consigliamo la lettura nella triste ricorrenza del 55° anniversario del nostro bombardamento, a ricordo e monito.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 19.VII.1998]


Mercedes Auteri, L’isola del fuoco, C. R. E. S., Catania, 2008, pagg. 152, s. p.

La giovane Mercedes Auteri, nata nel 1977 a Catania, ma residente a Ginevra dopo avere studiato anche in Francia, in Irlanda e altrove, nelle sue peregrinazioni fra una biblioteca e l’altra s’è imbattuta in un testo singolare che subito l’ha interessata: Une excursion en Sicile d’un certo V. (?) de Floriant, racconto di viaggio (récit de voyage) pubblicato in un giornale della stessa Ginevra nel 1885. L’interesse è stato suscitato non soltanto dal fatto che lei stessa è siciliana, ma anche dalla natura del viaggio in sé, da quello della sua vita (per cui ringrazia sempre i suoi genitori d’averla fatta nascere) a quello dentro sé stessa alla ricerca del proprio io.

Il libro L’isola del fuoco / Un’escursione in Sicilia contiene la traduzione di questo racconto, un saggio dell’Auteri sul medesimo e altro ancora.

Dopo aver distinto i tipi di viaggio (di piacere, d’osservazione, di conoscenza, di studio, ecc.), l’autrice esalta la bellezza del viaggiare e nomina alcuni viaggiatori letterati e artisti, intendendo come libri di viaggio — oltre che il Milione — anche opere come l’Iliade, l’Odissea, la Divina Commedia, il Don Chisciotte ed altri simili.

Quindi inizia un colloquio col misterioso V. de Floriant; e, non sapendo il significato del nome abbreviato, esplicita l’abbreviazione in Viaggiatore e si rivolge a lui con un confidenziale “tu”, citando e mettendo in risalto le parti notevoli del suo racconto, delle sue osservazioni e dei suoi commenti. Da ciò e dalla successiva traduzione integrale s’evince che questo Viaggiatore si trattenne in Sicilia circa un anno.

Sbarcato a Messina (città da lui lodata e di cui descrive e documenta la tradizione della lettera inviata dalla Madonna ai messinesi con la famosa scritta “Vos et ipsam civitatem benedicimus” che figura alla base della statua del porto), il Viaggiatore si spostò a Catania (che giudicò infelice a causa della minacciosa presenza dell’Etna, incombente anche su Naxos), a Caltanissetta (di cui rilevò l’asperità e l’aridità delle montagne circostanti), a Siracusa (che gli sembrò molto interessante per la sua grecità e il suo parco archeologico), ad Agrigento (dove ammirò la magnificenza della Valle dei Templi, mentre deplorò la grettezza della contigua città moderna) ed infine a Palermo (dove notò il largo consumo di squisita pasticceria e la maestosità di certi palazzi, chiese, cappelle come la Palatina, monumenti e mausolei come quelli dei re normanni e svevi nella cattedrale, fasti conviventi con la miseria di casupole e stamberghe).

Il soggiorno a Palermo, poi, diede a lui l’occasione per descrivere usanze, feste e modi di vivere degli abitanti e per esternare dei giudizi. Oltre all’inconfutabile bellezza dell’“Isola del fuoco”, almeno nelle zone costiere e nei parchi archeologici, egli notò negli abitanti uno stato estremo di povertà (molti vivevano di soli frutti spontanei della terra), sottosviluppo e ignoranza a causa delle varie dominazioni (su cui si mostra ben informato), l’indolenza, l’incuria, la superstizione, la religiosità paganeggiante e una diffusa propensione alla delinquenza, tuttavia senza dimenticare il prestigio della Sicilia ai tempi in cui Siracusa aveva superato Atene per numero d’abitanti, forza bellica, ricchezza, lusso e cultura. Interessanti sono anche le sue osservazioni a proposito del clientelismo elettorale dei politici del nuovo Stato italiano.

Alla traduzione e al commento l’autrice aggiunge la rassegna d’altri viaggiatori svizzeri (comprese le truppe svizzere arruolate dai Borboni), di cui riporta opinioni all’incirca uguali a quelli di V. de Floriant. Fra questi viaggiatori non mancano pittori e disegnatori (fra cui — solo per citarne uno rinomato — Jean-Pierre Hoüel); e dei loro disegni allega numerose fotografie.

La scrittura dell’autrice è piana, scorrevole e fedele; e da essa traspare la vibrante passione con cui è sentito e svolto l’argomento. Il testo, pur essendo colloquiale, non manca di riferimenti culturali che denotano la vastità e la profondità della sua preparazione. Inoltre dettagliate note, elenco di fonti e ampia bibliografia arricchiscono il volume; il quale dal punto di vista editoriale, pur presentando qualche svista di punteggiatura e accentazione, interlinee talora irregolari e mancanza d’indicazione finale della tipografia che ha eseguito la stampa, anche se non perfetto è largamente apprezzabile sia per contenuto che per forma, anzitutto perché ci fa conoscere quello che pensavano gli stranieri della Sicilia e dei siciliani.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 18.II.2009]


Autori vari, Da Conegliano ad Auschwitz, Tip. Scarpis, S. Vendemiano, 1999.

DA CONEGLIANO AD AUSCHWITZ: Un libro-ricerca per riflettere

Un viaggio d’istruzione nei campi di concentramento e sterminio, una manciata di terra-cenere colà raccolta, una serie d’interviste ai deportati sopravvissuti, una mostra di testimonianze e materiali di quell’immane tragedia: così è nato il libro Da Conegliano ad Auschwitz (Tip. Scarpis, S. Vendemiano) che espone la ricerca delle classi 5^ A e 4^ A del liceo scientifico “Marconi” di Conegliano, guidate dal prof. Pier Vittorio Pucci, circa la deportazione nei lager nazisti dai comuni del comprensorio di Conegliano.

Leggendolo e osservandone fotografie e altri documenti, si tocca con mano l’immensità di quella tragedia, perché le persone qui ricordate (militari, civili o ebrei) sono tutte della nostra zona; e, mentre molte non sono più tornate, quelle miracolosamente scampate portano ancora evidenti le indelebili stigmate.

Al di là della profonda commozione che il libro suscita, una considerazione è importante: quanti leggono questo libro sicuramente acquistano un’elevata formazione civica, poiché quei tragici eventi non sono favole o cose da dimenticare. Sono realtà viva e tuttora dolorante: una realtà che può ancora ripetersi, ma che bisogna fare di tutto perché non si ripeta mai più.

In tempo di sollazzi, sballi e allucinazioni da discoteche e droghe, il ricordo e la nuova documentazione di ben altre allucinazioni sono molto utili e anzi fondamentali per costruire un futuro di pace. Per ciò — e non solo per l’accuratezza e la scientificità del lavoro — notevole è il merito di questi giovani e di chi li ha così opportunamente spronati e guidati.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 23.XI.1999]


Autori vari, Le Muse a tavola, Collegium musicum Vox Angeli, Castelliri 2021

Le Muse a tavola

Nel libro Le Muse a tavola, pubblicato nel 2021 a scopo benefico dall’Associazione “Collegium Musicum Vox Angeli” di Castelliri (FR), di cui due degli autori sono rispettivamente il presidente Fabio Pantanella e la segretaria Annarita Granata, a prima vista possono disturbare i caratteri tipografici sottili e i versi incolonnati ad epigrafe, anziché giustificati a sinistra; ma andando avanti nella lettura ci s’accorge della pregnanza culturale — oltreché della pratica utilità in cucina — dell’opera, compilata da ben cinque autori, i cui nominativi figurano non in copertina ma all’interno e di cui, oltre ai due citati, gli altri sono Roberta Nicoli, Emanuela Quadrini e Tiberio Tramontozzi..

Fondamentalmente il libro è un ricettario gastronomico, essendo la Granata specialista in questo settore: e ciò, per esaltare i piaceri della tavola, la convivialità e la socializzazione, messi a dura prova dall’attuale pandemia. Forse, dato l’accostamento di tematiche così differenti, si sarebbe dovuto realizzare due pubblicazioni separate: una con la parte gastronomica e l’altra con quella culturale. Tuttavia il solo ricettario sarebbe riuscito arido; e allora esso di pagina in pagina è arricchito con notizie e considerazioni di natura storica, letteraria, artistica e musicale, che rendono l’opera stessa una piccola e gradevole enciclopedia del sapere.

Solo per fare qualche esempio, il cocktail ispirato alla Tosca pucciniana porta ad approfondire la nascita e il contenuto di questo melodramma, le sue esecuzioni e il suo successo, con particolari curiosi riguardanti la vittoria di Marengo (che diede nome al cavallo di Napoleone e ad una moneta), le campane e la processione; la ciambella ciociara richiama alla memoria attori e registi nati in Ciociaria, quali Marcello Mastroianni e Vittorio De Sica, candidati o insigniti del premio “Oscar”, del quale qui c’è la storia e il significato del nome; la frisella o fresella pugliese, cibo adatto ai crociati nei lunghi viaggi per la sua buona conservazione, porta a tratteggiare una storia delle crociate, dove vengono alla ribalta le figure di Pietro l’Eremita, Goffredo di Buglione, il Tasso della Gerusalemme liberata col suo celebre esordio “Canto l’arme pietose e ’l capitano…” e il Verdi dei Lombardi alla prima crociata, con accenni ad altri personaggi, quali Hayez, Canova, Grossi e Manzoni; la pasta alla norma richiama il catanese Vincenzo Bellini, la sua Norma con l’indimenticabile romanza “Casta diva” e la banconota da 5.000 lire che lo raffigurava.

Il Verdi è ricordato anche a proposito delle sue meditazioni nella chiesa delle Grazie di Cortemaggiore (PR) davanti al quadro dell’Assunzione di Maria dipinto da Francesco Scaramuzza: meditazioni da cui poi nacquero il brano “La Vergine degli angeli”, inserito nell’opera La forza del destino, e le Laudi alla Vergine Maria, una delle quali mette in musica la preghiera dantesca “Vergine madre, figlia del tuo figlio” (Par. XXXIII). E non soltanto il Verdi torna ancora con interessanti particolari, ma a proposito della Pietà vaticana di Michelangelo si chiarisce che la discussa giovinezza di Maria in questa scultura si rifà al suddetto verso di Dante “Vergine madre, figlia del tuo figlio”.

Molto altro ci sarebbe da dire, anche sull’inno Fratelli d’Italia, il tricolore, il suo significato e il merito del presidente Ciampi nel risvegliare il sentimento nazionale; ma i lettori potranno scoprire da sé, spesso con ammirazione, tutta la cultura che gli autori hanno profuso a piene mani in questo lavoro, In pratica in esso c’è una sfilata di letterati, musicisti, artisti figurativi e loro opere: il che dà la possibilità d’apprendere molte cose nuove o di ripassare quelle un tempo apprese a scuola. E in più il libro ha dei pregi che oggi non sempre s’incontrano: la correttezza linguistico-espressiva, la leggerezza e la scorrevolezza; senza dire che la qualità delle immagini è ottima e ben formulate sono le loro didascalie.

Il libro s’avvale della presentazione di Luciano Fontana, direttore del “Corriere della sera“, di prefazioni di vari autori (storica dell’arte Eleonora Donghi, attore-regista Alessandro Quasimodo, pizzaiolo-cantante Gianfranco Iervolino, soprano Maria Luigia Borsi e direttrice dell’ASL di Frosinone Pierpaola D’Alessandro), della postfazione di Fabio Pantanella e d’una nota sul coro “Collegium Musicum Vox Angeli”, che tanti riconoscimenti ha riscosso col suo repertorio e di cui peraltro altre volte si parla nel testo.

Tornando alla beneficenza, già nella prima pagina colpisce la dedica “Alla città di Bergamo / simbolo del dolore dell’Italia / nel momento più grave della pandemia”: essa denota la sensibilità altruistica degli autori e dell’intera associazione che ha pubblicato il libro. Infatti questa pubblicazione, essendo il ricavato destinato alla fondazione Heal protesa alla cura e ricerca nell’ambito della neuro-oncologia pediatrica, confida nei contributi volontari dei lettori, i quali potranno essere versati nel conto IBAN IT50N0537274470000011023922 o richiedendo il libro tramite il sito telematico https://shop.progettoheal.com/collections/libri/products/le-muse-a-tavola#:~:text=Le%20Muse%20a%20tavola%E2%80%9D%20%C3%A8,un'opera%20in%20un%20museo.

Perciò è importante possedere questo libro: per avere l’occasione di fare del bene, prima agli altri con la solidarietà e poi a sé stessi con l’acquisizione d’un’opera capace di soddisfare il corpo (grazie alle ricette proposte) e lo spirito (grazie all’arricchimento culturale).

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2022]


Giusi Baglieri, Ho seminato parole, Il convivio, Castiglione di Sicilia, 2014, pagg. 85, € 10.

Poesie di Giusi Baglieri

La siciliana Giusi Baglieri è nata con la poesia nel sangue. Autrice di versi fin dall’adolescenza, è inclusa in numerose antologie e ha pubblicato alcuni suoi volumi, ottenendo significativi riconoscimenti.

Il suo libro Ho seminato parole (Il convivio, Castiglione di Sicilia, 2014, pp. 85, € 10) è diviso in tre parti: Alla vita, All’amore, Alla pace. Soltanto quattro delle liriche inserite hanno un titolo, e tutte le altre no. Ciò dà l’impressione che ci sia una continuità tematica e stilistica fra una lirica e l’altra; e quest’impressione è accentuata dai frequenti puntini di reticenza, specialmente dopo l’avverbio ma, i quali producono la sospensione del discorso, lasciando quindi in sospeso osservazioni e riflessioni, che magari il lettore può fare da sé.

Il contenuto della silloge è per la maggior parte di carattere intimistico: con una certa inquietudine l’autrice espone pensieri, timori, speranze e preghiere, in versi semplici, brevi e intensi, spesso dotati di rime e musicalità; e queste sensazioni si concretizzano in parole che lei semina per farle crescere e trasformare in alimento di bontà per i lettori. Perciò non si può non riconoscere alla silloge anche un intento sociale, specialmente quando l’autrice con evidente turbamento si prostra a riflettere sulle ingiustizie del mondo, sulla nocività delle guerre (per esempio in Afghanistan), sulla bellezza del creato (minacciato dall’imprudenza dell’uomo) e sugli affetti familiari (figlio, padre). Una lirica poi ricorda anche la compianta poetessa Alda Merini.

Il carattere della riflessione è avvalorato dalle massime di vari autori poste a mo’ d’epigrafe in alcune pagine. E se a volte invoca Dio con profonda religiosità, l’autrice sente che “Gocciola amore / nel segreto del cuore” (p. 25), che “Concerto d’amore / si fa poesia” (p. 36) e che in lei ci sono “Cascate di sogni” (p. 39). E così “Stilla dagli occhi una goccia di pianto…” (p. 57) e non resta che auspicare “un mondo di pace / dopo tanto diluvio / prima che perisca” (p. 68).

Il libro, che s’apre con la prefazione di Paolo Ziino e l’introduzione di Giuseppe Manitta, s’avvale d’una forma chiara, scorrevole e corretta (tranne qualche svista come “A voi che basta” a p. 73) e quindi si legge facilmente e piacevolmente.

L’aspetto grafico-editoriale è elegante, grazie a carta paglierina, caratteri nitidi e impaginazione accurata. Bella anche l’illustrazione di copertina dovuta a Carla Colombo, che rappresenta proprio un campo in cui è stato seminato un grano rigoglioso, buono come le buone (e belle) parole seminate dalla Baglieri, impresse nel titolo e in tutto il contesto.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), lug.-dic. 2014]


Dante Balboni, La “Divina Commedia” poema “liturgico” del primo Giubileo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1999, pagg. 50, £ 15.000.

DANTE ALIGHIERI IN DANTE BALBONI

“Nomen omen” (o anche “ Nomen numen”) dice il proverbio. E mons. Dante Balboni nella sua sterminata attività di letterato e scrittore, storico e liturgista, teologo e archeologo, non poteva non occuparsi di Dante Alighieri. Fra l’altro, in occasione del 7° centenario della nascita dell’Alighieri (1965) egli fu incaricato di curare per l’Enciclopedia Dantesca l’illustrazione delle voci liturgiche presenti nella Divina Commedia. Successivamente è uscito il suo volumetto “La ‘Divina Commedia’ poema ‘liturgico’ del primo Giubileo” (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1999, pagg. 50, £ 15.000), che riprende e sviluppa lo stesso argomento, alcuni elementi del quale erano presenti in altre opere dello stesso autore.

Questo lavoro, nonostante alcuni difetti, risulta molto interessante per gli studiosi e per i semplici appassionati del divino poeta, perché mette a fuoco alcune questioni fondamentali su cui poggia la costruzione del poema sacro. La prima è quella della data di svolgimento del viaggio dantesco, che secondo alcuni si sarebbe svolto dal 7 (giovedì santo) al 14 (giovedì dopo Pasqua) aprile 1300, mentre per il Balboni s’è svolto dal 25 marzo (vigilia della domenica delle Palme) al 2 aprile (domenica di Pasqua) 1301: e ciò, non soltanto — come hanno dimostrato alcuni astronomi — perché la posizione delle stelle in questi giorni del 1301 coincide con quella descritta dall’Alighieri, ma anche perché le citazioni liturgiche dantesche (attinte al messale, al breviario e al libro delle ore) sono quasi tutte quelle in uso nella settimana santa. In sostanza il divino poeta avrebbe punteggiato il suo viaggio ultraterreno con inni, salmi, preghiere, giaculatorie, massime e proverbi che in quegli stessi giorni e in quelle stesse ore effettivamente si cantavano o recitavano sulla terra. E l’Alighieri doveva esserne al corrente perché, quale terziario francescano, anch’egli aveva l’uffizio del canto e della recita. Perciò concludono il lavoro alcune tavole di corrispondenza fra versetti, versi danteschi, date, ore civili e ore liturgiche, che certamente aiutano ad una migliore intelligenza di tutto il poema.

In sostanza il viaggio dantesco sarebbe una corale Via Crucis d’espiazione a conclusione del primo Giubileo, dal peccato che ha portato all’Incarnazione, coincidente con l’Annunciazione (25 marzo), fino alla visione di Dio nell’Empireo, coincidente con la Resurrezione (2 aprile), solennità che — in base al documento pontificio Ad honorem Dei del 25 dicembre 1300 — rappresentava la scadenza dell’anno giubilare e quindi era il termine ultimo per godere dei benefici spirituali del Giubileo. Solo per fare qualche esempio si potrebbe citare il verso Vexilla regis prodeunt inferni (Inf. XXXIV 1), che è l’incipit d’un inno di S. Venanzio Fortunato, sia pure con l’aggiunta dantesca della parola inferni, cantato il venerdì santo.

Inoltre si capisce meglio perché la festa di Pasqua, secondo il Concilio di Nicea (anno 325), debba cadere nella prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera (fra il 22 marzo e il 25 aprile): perché si diceva che Cristo fosse morto nel primo plenilunio di primavera. E nel Medio Evo si ritenne che la data ottimale fosse il 25 marzo (a Firenze allora anche data d’inizio dell’anno civile), la quale così assommava l’Incarnazione-Annunciazione alla Crocifissione, mettendo a perfezione il disegno divino.

È vero che il 25 marzo 1300 era proprio un venerdì e che in Inf. XXI 112-114 si legge che la Crocifissione “mille dugento con sessanta sei / anni compiè”, attestandone la data al 1300 (dall’Incarnazione di Cristo alla sua morte sono 34 anni, che più 1266 danno un totale di 1300); ma secondo il Balboni la contraddizione si risolve leggendo con altra lezione “mille ducent’un con sessantasei / anni compiè” e spostando così la data al 1301.

Quella del Balboni è una tesi interessante; e, anche se alcuni sono contrari alla datazione al 1301, mi rammarico di non averla conosciuta prima della pubblicazione del mio libro “Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante” (Pellegrini, Cosenza, 2002), nel quale mi sono rifatto al 1300 e ho affrontato alcune questioni parallele, quali la differenza fra allegoria e simbolo, la funzione simbolica d’inni e preghiere, la Comunione dei Santi, la totale abolizione del latino nella liturgia cattolica. Però, essendo io stesso contrario a qualsiasi datazione categorica, ritengo che probabilmente nelle varie determinazioni temporali del viaggio dantesco siano confluiti elementi relativi alle effemeridi e alla liturgia di vari anni, i quali venivano percepiti e utilizzati dal poeta man mano che scriveva, ferma restando la data ideale del 1300: anche perché la lezione “mille dugento con sessanta sei / anni compiè” appare ovvia, mentre l’altra “mille ducent’un con sessantasei / anni compiè” sembra artificiosa.

A proposito dell’abolizione del latino, il Balboni giudica “provvida” la disposizione della Chiesa che ha introdotto nei suoi riti l’uso della lingua volgare, rilevandone la necessità nelle preghiere e nella lettura delle Scritture; e non si può non concordare con lui in quest’affermazione, osservando però che l’abolizione del latino non è stata limitata alle preghiere e alle letture, come stabilito dal Concilio Vaticano II e lodato dal Balboni, ma è andata ben oltre, arrivando ad un completo sradicamento della lingua e della tradizione latina nella Chiesa Cattolica (salvo alcune celebrazioni papali nella basilica vaticana), che ha comportato la perdita d’unità e identità dei cattolici delle varie parti del mondo, dato che la religione è non soltanto dottrina e fede ma anche tradizione.

Il libro del Balboni, arricchito da affascinanti illustrazioni del Doré e d’altri, purtroppo presenta numerosi refusi tipografici e qualche svista dell’autore, come quando (a pag. 19) l’autore afferma che “il passaggio di Dante e Virgilio dalla quinta alla sesta bolgia... è reso possibile dall’intervento del mostro Gerione che li prende sulla groppa librandosi nell’aria”. In realtà l’intervento di Gerione avviene al passaggio dal secondo e terzo girone del settimo cerchio alla prima bolgia dell’ottavo cerchio (Inf. XVI-XVII). Ma questi difetti non ne inficiano il valore, largamente positivo.

Carmelo Ciccia

[ “Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2005]


Luigino Baldan, Principali mestieri ed attività artigianali in Conegliano, Confartigianato, Conegliano, 2006, pagg. 64, s. p.

LE ORIGINALI RICERCHE DI LUIGINO BALDAN

Luigino Baldan, già docente alla scuola enologica di Conegliano (TV), impiega il suo tempo libero in una lodevole attività: la rassegna delle tradizioni popolari della sua città. Prima ha contato e passato in rassegna tutti i vespasiani un tempo esistenti nella sua città e dopo ha cominciato a studiare l’albero genealogico della sua famiglia, allegando documenti e immagini non facilmente reperibili. Ora nel volumetto Principali mestieri ed attività artigianali in Conegliano (Confartigianato, Conegliano, 2006, pagg. 64, s. p.), che s’apre con un’opportuna introduzione di Mario Anton Orefice, egli concentra la sua attenzione sui principali mestieri ed attività artigianali del passato. E subito emerge l’importanza di questo lavoro per chi consideri la sua potenziale utilità nei confronti delle nuove generazioni, le quali devono conoscere il passato per poter capire il presente e progettare il futuro.

La ricerca riguarda calzolai e zoccolai, barbieri e parrucchieri, sarti e camiciaie, fornai, fruttivendoli, macellai e lattai, merciai, fiorai, tabaccai, autisti di piazza, magliaie, arrotini, farmacisti, lattonieri, venditori di stoffe, materassai, orologiai, meccanici, idraulici, fotografi, cartolai e librai, pasticcieri, imbianchini ed elettricisti: tutti indicati prioritariamente con termini dialettali. Per ogni categoria l’autore descrive il tipo d’attività, il personale, l’abbigliamento da lavoro, l’ambiente, gli attrezzi e il loro funzionamento, condendo il tutto a volte con sapidi episodi, aneddoti e battute che vivacizzano le descrizioni; e conclude le singole trattazioni con gli elenchi nominativi e i relativi indirizzi degli appartenenti ad ogni categoria in esame. Notevole è poi il corredo fotografico d’epoca, che riporta alla memoria visi e personaggi d’un tempo, oltre che strumenti e macchinari, modo di vestire, d’abbigliare vetrine, di far pubblicità, ecc.

È chiaro che in un lavoro del genere non si deve andare in cerca dell’eleganza grammaticale e/o stilistica, perché quello che conta è la sostanza della trattazione, anche per quanto riguarda la lingua d’allora. Il volumetto, infatti, contiene espressioni idiomatiche che forse stanno per essere dimenticate, ivi compresi nomi, nomignoli e soprannomi. Perciò il lavoro del Baldan si configura come un’azione di recupero e in qualche modo di salvaguardia d’un passato che comunque ha caratterizzato la vita e la storia della comunità.

Sarebbe sciocco o quanto meno semplicistico valutare sbrigativamente questo lavoro, magari limitandosi alle curiosità e amenità: esso, invece, va considerato come un’indagine seria, attuata con la collaborazione di diverse persone e costata tempo e fatica. E in un periodo di vita facile e comoda, come l’attuale, è bene far riflettere sulle difficoltà della vita d’una volta, sui sacrifici affrontati, sull’esigenza d’accontentarsi dell’indispensabile ed evitare gli sprechi.

Ecco dunque che l’originale ricerca di Luigino Baldan assume anche una valenza etica; e, mentre ne apprezziamo l’impegno, ringraziamo l’autore e quanti altri hanno collaborato alla realizzazione del volumetto (a cui però sarebbero stati necessari la correzione d’alcune sviste formali, una migliore impaginazione e l’indice finale), augurandoci che a questo ne seguano altri dello stesso tenore e che vengano presi in debita considerazione.

Carmelo Ciccia

[“ Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, genn.-giu. 2007]

Marino Alberto Balducci, Classicismo Dantesco / Miti e simboli della morte e della vita nella Divina Commedia, 1^ ediz. Guaraldi, Rimini, 1999, 2^ ediz. Le Lettere, Firenze, 2004, qui seguìta.

CLASSICISMO DANTESCO E MITOLOGIA IN UNO STUDIO DI MARINO A. BALDUCCI

Il classicismo e i miti presenti nella Divina Commedia sono stati fra i più trattati negli studi danteschi. Solo per fare qualche esempio, si ricordano i lavori di: • Mariapina Settineri, Influssi ovidiani nella “Divina Commedia” (“Siculorum Gymnasium”, Catania, genn.-giu. 1959), la quale — fra l’altro — ha sottolineato che la mitologia classica (in particolare ovidiana), abbondante nel resto delle prime due cantiche, è assente dal XXIX al XXXIII canto del Purgatorio; • Carmelo Ciccia, Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante (Pellegrini, Cosenza, 1998), il quale ha formulato e interpretato una rassegna d’allegorie e simboli della seconda cantica; • Orazio Tanelli, Miti nella Divina Commedia (Il ponte italo-americano, New York, 1999), il quale ha elencato ed esaminato i miti sotto vari punti di vista, dal letterario al filosofico e altri; • Cletus Pavanetto – Antonius Salvi, Classicorum poetarum memoriae evocatae in Dantis Alagherii poemate "De Inferis" (“Latinitas”, Città del Vaticano, giu. 2005), i quali si sono concentrati sull’Inferno e ne hanno presentato vari esempi.

Fra questi lavori s’inserisce il volume di Marino Alberto Balducci Classicismo Dantesco / Miti e simboli della morte e della vita nella ‘Divina Commedia’ (1^ ediz. Guaraldi, Rimini, 1999; 2^ ediz. Le Lettere, Firenze, 2004, qui seguìta). Il Balducci è docente di letteratura italiana e storia dell’arte nell’università del Connecticut (USA) e direttore dell’Accademia - Istituto internazionale di studi italiani “Carla Rossi”. Ha pubblicato anche i saggi Il sorriso di Ermes / Studio sul metamorfismo dannunziano (1980), La morte di re Carnevale / Studio sulla fisionomia poetica di Giuseppe Giusti (1989), Il nucleo dinamico dell’imbestiamento / Studio su Federigo Tozzi (1994), Il preludio purgatoriale e la fenomenologia del sinfonismo dantesco / Percorso ermeneutico (1999), L’essenza ermeneutica / Aforismi e metodologia interpretativa (2002), Rinascimento e anima / Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso: spirito e materia oltre i confini del messaggio dantesco (2006). È anche poeta e in tale veste ha pubblicato Poesie indiane con prefazione di Mario Luzi (premio Giusti 2001), Quartine d’amore (premio Selezione 2001) e Risveglio a Benares: frammento inedito di una rapsodia indiana (2002). Ha eseguito la versione in prosa poetica moderna della Divina Commedia.

In questo volume, il cui argomento è ben esplicitato nel titolo, non potendo trattare in toto l’argomento stesso, il Balducci si diffonde su quattro esempi, corrispondenti a relative parti: l’altro viaggio, il Minotauro e i centauri, Narciso, la Gorgone.

Nella prima parte l’autore anzitutto ricorda che gli “spiriti magni” del canto IV dell’Inferno, che stanno sopra un verde smalto, rappresentano la luce della classicità, di cui usufruisce la civiltà cristiana; perciò in tale canto il concetto dell’onore è ribadito ben otto volte e Dante — “sesto di cotanto senno” della schiera eccellente e subito dopo Virgilio — si sente il continuatore di tale luce, anche se la classicità ha un lato negativo nel politeismo. Virgilio, suo accompagnatore e protettore, maestro e guida, è una figura emblematica della classicità o meglio della razionalità classica ed ha delle somiglianze e differenze con Dante: anche se non era cristiano, e se ne duole amaramente più volte, da Dante per bocca di Stazio è visto come chi di notte porta un lume alle sue spalle, senza beneficiarne, ma fa luce a quelli che vengono dopo di lui, cioè ai cristiani (Purg. XXII). La Roma pagana ha una vita invidiabile, in preparazione del cristianesimo; ma perché tale città debba essere sede ideale della parusia resta un mistero di Dio. E con Dante Virgilio compie un “altro viaggio”, un viaggio di liberazione dalla selva oscura del peccato attraverso non il colle illuminato, ma l’inferno e il purgatorio, alla ricerca della chiave della salvezza: un viaggio protoumanistico trasfuso nel cristianesimo.

Entrando specificamente nel campo della mitologia, fra i vari personaggi mitologici (Caronte, Flegiàs, Cerbero e i giganti, Apollo e le Muse...), Minosse (Inf. V), con la coda di serpente nella parte inferiore del corpo, indica la presenza del male nell’uomo, parte superiore del corpo stesso, e per giudicare preferisce la parte animalesca (coda) anziché quella umana (voce). Con l’episodio della maga Eritone (Inf. IX) Dante sembra accettare il rischio della superstizione pagana; ma c’è anche un aspetto onorevole del paganesimo, costituito dalle anime salve di Stazio mantovano (Purg. XXI e segg.), Traiano imperatore romano (Purg. X e Par. XX) e Rifeo troiano (Par. XX), la seconda delle quali rappresenta la positività per la terra d’un governo romano voluto da Dio (impero): anche se la lupa, simbolo d’una Roma corrotta, ingloba tutti i vizi e non soltanto la cupidigia, e nell’operare la loro salvazione la giustizia divina resta misteriosa. E anche il “Veglio di Creta” (Inf. XIV) rappresenta l’eredità positiva dell’antichità mitologica: e quindi l’autore ritiene che nelle fessure di questo simulacro si possano vedere le ferite di Cristo, dovute alla corruzione del mondo.

Nella seconda parte l’autore si sofferma sulla bestialità del Minotauro, della sua svergognata genitrice Pasife e dei centauri (Inf. XII). In particolare, nell’accoppiamento di Pasife con un gagliardo toro emerso dalle onde marine egli vede l’allegoria del matrimonio fra Sole e Luna. Teseo, che con l’aiuto del filo d’Arianna sconfigge il Minotauro (e poi con quello della propria spada invincibile sconfigge i centauri nella lotta contro i Lapiti) è simile a Cristo e a Dante: l’uno scende nel Labirinto e gli altri due negl’inferi (analoghi al Labirinto) e tutt’e tre ritornano vittoriosi, anche se per altri il ritorno è impossibile.

A proposito dell’anno di svolgimento ideale della Divina Commedia, sulla scorta d’Antonio Lanza, il quale nell’opera dantesca da lui curata La Commedia / Nuovo testo critico secondo i più antichi manoscritti fiorentini (De Rubeis, Anzio, 1999) legge “milledugento un con sessantasei” anni di distanza fra la morte di Cristo e la visita di Dante all’inferno (Inf. XXI), ritiene che tale anno sia il 1301, contrariamente alla maggioranza degli altri studiosi per i quali esso è il 1300, anno dell’indizione del primo giubileo da parte di Bonifacio VIII.

Se il fiume Flegetonte, il cui nome deriva dal verbo greco fleghéto = “accendo, infiammo, brucio”, dai pagani era immaginato con fiamme e fuoco vorticoso, quello dantesco, custodito dai centauri e contenente in punizione le anime dei violenti contro gli altri, è descritto come fiume di sangue bollente, perché il sangue dei violenti quando vivono sulla terra bolle; e in ciò Dante è più vicino alla Bibbia, che assegnava all’Egitto fiumi del genere come piaga divina (Esodo VII 14-25 e Salmo LXXVIII 44). E ora Nesso è accostato al Flegetonte come prima lo era al vorticoso Eveno.

A proposito dell’episodio di Bonagiunta degli Orbicciani (Purg. XXIV), l’autore afferma che il dolcestilnovo era una specie di follia, che prevedeva l’adesione del poeta al Dittatore, cioè Amore, Assoluto, Dio; e annota che per Platone (Fedro) l’invasamento giungeva dalle Muse. Per lui, poi, la golosità (Inf. VI e Purg. XXIII e XXIV) è una mania erotica, cioè una concupiscenza per oggetti materiali, anziché spirituali: non per nulla questi peccatori sono da Dante collocati rispettivamente subito dopo e subito prima dei lussuriosi (Inf. V e Purg. XXV e XXVI).

Nella terza parte il mito di Narciso è occasione per considerare che lo specchiarsi tenta d’esprimere, in senso simbolico e analogico, l’enigma della ricerca dell’ultima visione, cioè della penetrazione dei segreti supremi e della comunione con essi. L’errore di Dante circa il presunto riflesso di Piccarda e delle altre anime del cielo della Luna (Par. III e IV) sta nel non capire che lo specchio che le riflette è nella mente divina. E qui l’autore si sbizzarrisce su riscontri e simboli dei concetti di specchio e riflesso, per concludere che la radice del male sia da ricercarsi nel mondo delle false apparenze, non senza ricordare lo specchiarsi delle mitologiche Demetra e Kore-Persefone e delle bibliche Lia e Rachele (Purg. XXVII).

Nella quarta parte, dopo aver ripreso il mito di Narciso per affermare che lo specchiarsi di costui significa innamorarsi di sé e della propria immobilità (pietrificazione), l’autore passa ai miti di Dioniso e della Gorgone Medusa. Dante in Inf. IX deve coprirsi gli occhi e volgersi indietro quando le Erinni invocano l’apparizione di Medusa, che col suo sguardo l’avrebbe fatto rimanere di smalto, come in Odissea XI Ulisse dovette tornare indietro dagl’inferi quando temette l’apparizione della stessa. L’autore ritiene che, pur non conoscendo Dante quell’episodio omerico, aver fatto una narrazione simile a quella d’Omero, relativamente all’impedimento meduseo d’un viaggio tra i morti, appartiene al patrimonio archetipo della creatività. Dopo che Perseo con l’aiuto d’Atena uccise la Gorgone, mostro con occhi incantatori e serpenti per capelli, la dea pose la testa del mostro al centro dell’ègida, il suo scudo (già di Giove) ricoperto con la pelle della ninfa-capra Amaltea. Con tale scudo-specchio la dea fece in modo che gli uomini non andassero oltre il velame degli enigmi dell’essere. E qui si riprende il discorso sullo smalto, lo specchio, lo specchiarsi, il rispecchiamento e il riflesso (che rende pietrificati). In Inf. XXX e segg. il lago di Cocito è come uno specchio e Dante si specchia anche in quei dannati, mentre Ugolino si specchia nei suoi ragazzi. Ma già in Purg. XV della carità dei beati Dante aveva scritto che uno la riflette sugli altri come uno specchio. E a proposito di Lucifero (Inf. XXXIV), l’autore osserva che la conoscenza completa del male implica un contatto tattile con esso e che il capovolgimento dei due poeti all’altezza dei genitali del padre d’ogni male è per Dante come il rifiuto della paternità d’un tale genitore.

Il Balducci conclude che nel rapporto tra Dante e l’eredità classica è utopica una fusione costruttiva fra l’antichità e il cristianesimo, in un periodo in cui la spada è congiunta col pastorale e vi sono degli apostoli (sacerdoti) che potrebbero essere definiti apostati per vanità e corruzione.

In appendice l’autore aggiunge una sua consistente riflessione ermeneutica su un fatto che tuttora appassiona le menti: la creazione dell’uomo. Con una nuova lettura della Genesi egli presenta e sostiene una teoria non del tutto sua, ma avanzata anche da altri studiosi: la creazione dell’uomo fu fatta in due fasi. Nella prima, detta del sesto giorno, Elohim (Dio) creò l’adam (uomo) “a sua immagine e somiglianza”, cioè come emanazione di sé stesso e quindi della sua stessa sostanza, con due parti complementari (maschile e femminile) non ancora separate, almeno mentalmente (I 26-31); nella seconda, Jahve (Signore) Elohim (Dio) creò Adamo non più “a sua immagine e somiglianza”, ma dal fango, soffiandogli lo spirito vitale attraverso le narici, e poi, dopo un periodo di vita solitaria d’Adamo, creò Eva da una costola di lui (II 4-7 e 18-23). Adamo ed Eva prima del peccato non avevano idea e paura della morte, ma ciò non significa che questa non fosse stata istituita; inoltre non avevano vergogna della loro nudità, essendo imperturbabili; invece dopo il peccato (conoscenza del bene e del male), scoprono i rispettivi sessi e si vergognano, coprendosi con foglie di fico. Per quanto riguarda il serpente, a cui viene ordinato di strisciare da quel momento sulla terra, l’autore ipotizza che esso prima della tentazione, non strisciasse. E poiché col peccato si passò dall’andamento ciclico dell’eternità alla scansione del tempo (passato, presente, futuro), secondo l’autore la forma del serpente stesso prima sarebbe stata circolare, rappresentando il cerchio la perfezione e l’eternità, per diventare dopo rettilinea e strisciante. E col peccato nacque la paura della morte.

Nell’appendice l’autore si sofferma anche sul significato del mito e sulla sua articolazione e definizione, precisando che i tratti d’una vicenda mitica (situazioni, oggetti, personaggi) sono dei simboli e che, quando l’elaborazione ricopre un concetto con un’immagine definibile come figurazione, allora si passa dal mito all’allegoria. E le pagine finali sono piene di grafici, intesi a chiarire visivamente questi passaggi.

Come si vede, dunque, il lavoro del Balducci è di vasta e profonda cultura, che spazia dalla letteratura alla storia, dalla filosofia alla psicologia e alla psicanalisi, dalla religione all’antropologia. Tale immensa cultura è espressa non solo nel testo, ma anche nelle note che l’arricchiscono e che sono per lo più lunghe e abbondanti, sottili e dettagliate. È vero che questo comporta riprese, ripetizioni, ripensamenti, estensioni o amplificazioni di quanto sembrava già esaurientemente trattato; che l’autore usa una terminologia strettamente tecnico-scientifica, non facilmente accessibile a tutti i lettori; che l’analisi dei miti classici nella Divina Commedia cattura tanto l’attenzione del Balducci che a volte egli per pagine e pagine sembra dimenticare l’opera dantesca, preferendo sviscerare la storia e il significato dei miti stessi in assoluto, cioè in autonomia dal poema sacro; che soltanto per il canto del conte Ugolino l’autore si concentra su di lui, fornendo un articolato commento; e infine che nel volume vi sono vari refusi e sviste. Ma ciononostante questo lavoro è lodevole per l’originalità, la passione, la competenza e l’acutezza mentale dell’autore. In sostanza si tratta d’un lavoro di notevole spessore e prestigio, che sicuramente s’impone nel mondo accademico e specialistico.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2009]


Diletta Barone, Sull’acqua e sul vento, Pendragon, Bologna, 2003, pagg. 260, € 14.

UN ROMANZO SICILIANO DI DILETTA BARONE

Fin dalle prime pagine del romanzo di Diletta Barone Sull’acqua e sul vento (Pendragon, Bologna, 2003, pagg. 260, euro 14) si ha l’impressione che l’opera sia stata scritta esclusivamente per i siciliani, e particolarmente per i ragusani, dato che i protagonisti sono di Ragusa e data la quantità d’espressioni e periodi in dialetto, che — non essendo accompagnati da traduzione o note esplicative o glossario — nemmeno tutti i siciliani comprendono se non sono proprio ragusani. Il titolo del libro deriva dal modo di dire, più volte ripetuto nel libro, “all’acqua e a lu vientu”, che però dal contesto sembrerebbe significare “alla pioggia e al vento”, cioè esposti alle intemperie e a velocità travolgente, ma la traduzione Sull’acqua e sul vento nella fattispecie potrebbe indicare due complementi d’argomento, volendo l’autrice trattare dell’acqua e del vento di tale modo di dire.

Le espressioni dialettali sono inserite in mezzo al contesto in lingua italiana senza neanche un diverso carattere o stile tipografico, provocando una commistione di lingua e dialetto che non è facile dipanare. Acciù, accupore/mi accupai, agghiuttere, ammincialuti, assancati/a, babbiari, cauru, ciantau, ciappe, crasto, crirrere, dammuso/a, incrasciatu, inturciniava, maccia, maisia, mangiaparrini, minciati, nivera, quaccherunu, runne, scacce, sciarriari, scantu-scantatu-scantosa-si scantano, scurau, sparte, stapia, taliari, tanticcia, tranti, tumbulati-tumpuluna, virri, virrigghiusu...: che significano? Neanche le parole straniere (tank, charleston...) hanno un segno grafico che le contraddistingua. Solo verso la fine del libro spuntano le virgolette a contraddistinguere i termini dialettali, ma manca lo stesso la traduzione: “’ncugnava” che significa?

Talvolta i periodi dialettali occupano delle mezze pagine, quando si riportano dialoghi; talaltra, quando si riportano lettere, interi capitoli sono dialettali o frequentemente farciti di termini dialettali; talaltra ancora le espressioni italiane traducono o adattano il dialetto: lasciare a me nel senso di “lasciare me”, risse nel senso di “disse”, ci nel senso di “gli” (con la conseguente difficoltà di comprensione quando in successione si alternano il significato dialettale e quello italiano), mi credeva (nel senso di “credevo”), mezza viva e mezza morta, sacchetta, seratina, femminaro, litigati, ziti... E, se alcune espressioni forniscono un appiglio etimologico alla comprensione (ad esempio, s’abbenerica è il classico saluto di rispetto, cioè “vossia mi benedica”, uredda fa pensare alla “natural burella” del dantesco Inf. XXXIV 98, cioè un budello sotterraneo con dei meandri che poi diedero luogo al nome d’una via e d’un quartiere di Firenze, e susirsi e susire ci ricordano il dantesco “t’insusi” di Par. XVII 13, che alcuni ritengono invenzione di Dante, ma che proviene dalla scuola poetica siciliana, equivalendo al siciliano ti susi, cioè “ti [in]alzi”), altre risultano etimologicamente infondate: cabbanirene, ammuccuini, abitutati... Con tutto ciò non mancano espressioni settentrionali, come magone nel senso di “afflizione, scoramento”.

Qui il ricorso al dialetto non è semplice colore locale: siamo in presenza d’un impasto linguistico alla Stefano D’Arrigo o più ancora all’Andrea Camilleri. In realtà quella della Barone è una lingua che non ha nulla a che fare con quella coniata dal Verga, il quale in tutte le sue opere usò solo un paio d’espressioni dialettali e per il resto adattò l’italiano alla sintassi siciliana e alla mentalità dei suoi personaggi. Perciò si sarebbe tentati d’abbandonare la lettura di quest’opera, se non fosse che, leggendo e saltando a pie’ pari le parti dialettali, ci si accorge che la Barone è una scrittrice vera e profondamente seria, una che ha alle spalle un ragguardevole tirocinio e significativi riconoscimenti.

Naturalmente pensiamo alle difficoltà per chi legge, ma dobbiamo pensare anche alla fatica dell’autrice stessa che ha scritto un romanzo così congegnato e soprattutto a quella di chi a quei tempi doveva comunicare quando si allontanava dalla sua terra natale: è il caso dei protagonisti di questo libro, soldati nelle trincee o emigrati a Torino o in America, che fra le tante angustie avevano anche quella della lingua, spesso scoglio insuperabile. Eppure essi si esprimevano pressappoco come la Barone veristicamente scrive; ma fu anche da questi drammatici e rozzi incontri che si formò l’unità d’Italia.

Di ciò non si preoccupano ai nostri giorni coloro che stanno facendo di tutto per riportare l’Italia a quei tempi, propugnando separatismi che di fatto tendono alla chiusura più che all’apertura verso gli altri, ad accentuare vieppiù il proprio “particulare”, a dividere e non ad unire. Basti pensare alla pretesa d’ufficializzare il proprio dialetto negli uffici (compresi consigli e tribunali), nelle scuole, negli ospedali, nelle chiese, nei supermercati, ponendo segnali stradali e ospedalieri in dialetto o finanziando pubblicità televisiva suggerente l’uso del dialetto in ogni circostanza della giornata, come stanno facendo alcune regioni, volendo far tornare l’Italia alla babele d’una volta: e ciò, nonostante che ora si siano centuplicati i rapporti interregionali e le occasioni di contiguità e convivenza fra indigeni e allogeni, per i quali ultimi ovviamente tali forme di campanilismo e chiusura, per non dire diffidenza e ostilità, rappresentano un’offesa.

Nata a Bologna da famiglia siciliana e ivi residente, Diletta Barone in questo romanzo parzialmente epistolare, che è a tratti anche un diario familiare e un saggio storico, tenta un recupero delle sue origini: tutto sommato, anche se incomprensibile ai molti, il suo dettato dialettaleggiante (a volte non perfettamente genuino per le esigenze d’un qualche adattamento), non solo segue la storia della sua famiglia, ma esprime l’orgoglio del possesso di quell’idioma e dell’appartenenza — sia pur lontana — a quella sicilianità. Ecco perché a Ragusa il presentatore-esaltatore di questa scrittura non poteva che essere, com’è stato, il palermitano Salvatore Di Marco, il quale da sempre si batte per l’introduzione dell’insegnamento del dialetto siciliano nelle scuole dell’Isola, anche se in Sicilia, come in ogni regione, esistono miriadi di dialetti e non uno solo, tanto che la parlata d’una località riesce pressoché incomprensibile o quanto meno strana se non buffa in altra località della stessa regione.

In pratica la Barone vuole fare un salvataggio — peraltro lodevole — di certi valori popolari: lingua, proverbi, canti, usi e costumi, credenze (fatture, esorcismi, riti della notte di S. Giovanni...), anche se rileva l’incongruenza di certe tradizioni siciliane, come quella d’imporre ai figli lo stesso nome dei nonni, col risultato che nel giro di pochi anni si crea una grande confusione familiare per il ripetersi di nomi fra cugini, zii e altri congiunti. Soprattutto la Barone sottolinea l’onore, la disciplina, il sacrificio e la solidarietà insiti nella sicilianità.

Tale sicilianità è quella d’una Sicilia povera e arcaica, quale s’ebbe a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, quando i genitori avevano diritto incontestato sui figli, li educavano al senso dell’onore e imponevano loro le scelte di lavoro e di matrimonio. Allora i matrimoni venivano combinati dai sensali, magari ricorrendo a ridicoli espedienti per fare incontrare gli aspiranti sposi: un giovane rischiava d’essere ucciso solo per aver fatto per scherzo una serenata ad una ragazza e questa non si sarebbe sposata più se avesse accondisceso a qualche sguardo di troppo. E mentre si riconosceva il benessere dell’Italia Settentrionale, anche se vi si trovavano dei “topi-conigli” e “topi giganti”, s’escludeva un matrimonio sud-nord in ossequio al proverbio “Moglie e buoi dei paesi tuoi”.

In Sicilia quelli erano gli anni della miseria, dell’analfabetismo, del mutuo insegnamento (uno che sa scrivere insegna all’altro che non sa scrivere), dell’emigrazione in America che smembrava le famiglie e della leva obbligatoria che le dissanguava. Come nei Promessi sposi, non mancavano gl’impuniti rapimenti di donne da parte di nobili già sposati; e non mancavano dei frati violenti che maltrattavano i bambini. Il lutto, presente quasi in ogni famiglia, veniva portato molto a lungo; e il color nero dei vestimenti intristiva ancor più la vita. Eppure, in un quadro così deprimente, si poteva trovare la felicità nell’accettare di buon grado il proprio ruolo, nel compiere con responsabilità il proprio dovere, nel sottostare con pazienza alla propria fatica.

Alla resa dei conti, il lavoro della Barone si rivela un grandioso affresco dell’Italia post-unitaria, in cui risultano tutti gli eventi più significativi: povertà, emigrazione, catastrofi naturali, guerre mondiali e coloniali, storiche vittorie e sconfitte, fascismo, autarchia, 8 Settembre, nascita di socialismo e comunismo, rivoluzioni, resistenza e liberazione, malattie micidiali (come malaria, spagnola, tubercolosi, tifo), il famoso treno “Freccia del sud”. A quei tempi le persone non avevano grilli per la testa: raggruppate in famiglie con dieci o più figli ciascuna, l’unico rovello per loro era come sbarcare il lunario e mandare avanti la baracca. Anche quelli che non combattevano al fronte erano eroi ed eroine che al loro valore aggiungevano quello di non essere riconosciuti come tali, vivendo nell’ombra o nell’oscurità. Eppure erano la generalità, in cui le eccezioni si contavano sulle dita d’una mano.

L’autrice ora ha trovato nella sua stessa famiglia una delle tante storie anonime e, con l’aiuto d’una squadra di persone fra narratori, consulenti per il dialetto e revisori, l’ha portata alla ribalta: e chissà che in seguito di questa storia non si possa ricavare un film, essendocene tutti gli elementi. Tale storia è una vera e propria saga, e l’autrice ci tiene a dichiarare in copertina che tutti i fatti e le persone della narrazione sono veramente esistiti: ad esempio, del provveditore agli studi Casaccio molti ricordano la firma nelle circolari e nei diplomi. Così sono tristemente veri l’aereo “Pippo” che terrorizzava i cittadini, i bombardamenti a tappeto, la strage dei fratelli Cervi. Peccato però che non sia stato tracciato l’albero genealogico di quella grande famiglia Di Martino, la quale per la sua diaspora si è sparpagliata in tre continenti e in varie città e regioni italiane.

A tutti gli elementi sopra accennati, s’aggiunge poi l’avventurosità: la narrazione assume un tono salgariano o fantascientifico quando i protagonisti per emigrare si trovano a dover attraversare il deserto africano in carovane con cammelli e beduini pronti ad uccidere; e si colora di “giallo” quando costoro uccidono davvero. La varietà della narrazione comprende anche la fiaba: verso la fine l’autrice si dimostra anche brava scrittrice per l’infanzia, introducendo una fiaba nel romanzo.

Un tema da non sottovalutare è l’odio per la guerra: di questa, definita ragno enorme, con significative pennellate si fa vedere l’assurdità, unita all’arroganza e all’insipienza dei potenti, quando s’accenna al fatto che Trento e Trieste (che per quei poveri combattenti non avevano alcuna importanza) avrebbero potuto essere ottenute con accordi diplomatici. Il patriottismo guerrafondaio è visto come ipocrisia; e, in una visione di generale fratellanza, anche i nemici sono definiti poveracci. L’autrice si domanda perché i potenti decidono d’ammazzare; e presenta il caso paradossale ma veramente esistito di due fratelli che, costretti a combattere in eserciti opposti, rischiano di doversi ammazzare l’un l’altro. Per questi motivi la sconfitta di Caporetto è compresa e giustificata. Alla condanna della guerra s’associano quelle della dittatura fascista e della leva obbligatoria, intese come soprusi sociali e vilipendio dei diritti umani.

Un cenno merita la religiosità che aleggia in tutto il romanzo. é — questa — una religiosità spontanea, sincera e profondamente sentita, che scaturisce da una sana educazione familiare e da salde convinzioni. È vero che ad un certo punto, di fronte a certe catastrofi (come terremoti e morte di figli), qualcuno si chiede se Dio esista davvero, visto che permette certi mali, ma in genere i protagonisti sono tutti religiosi, si comportano da buoni cristiani e pregano tanto; e, anche se spesso le loro preghiere restano vane, a volte raggiungono — almeno così sembra — lo scopo desiderato.

Tirando le somme, questo è un libro che per certi versi può dimostrarsi stancante, ma per altri si dimostra molto interessante, perché potrebbe riuscire educativo per i giovani ed essere adottato nelle scuole: peraltro alle difficoltà di lettura si potrebbe ovviare o saltando le parti incomprensibili o allegando un fascicoletto con il glossario. In ogni caso agli studenti dovrà spiegarsi che le parti incomprensibili sono una realtà: così o pressappoco comunicava o tentava di comunicare quella gente.

Oltre alla questione dell’impasto linguistico nella forma espositiva si nota qualche imperfezione di punteggiatura (a volte la virgola manca o è usata come se fosse un segno più consistente), qualche ripetizione (“aveva sperimentato un senso di partecipazione... che finora aveva sperimentato”), qualche pleonasmo o ridondanza ancorché d’uso corrente (“così tanto”, “talmente tanto”, “così immenso”, “impossibile che potesse”), allitterazioni fuori luogo (“continuamente in mente”) e qualche altra svista (“La diffusione... contagiavano”); ma per il resto essa appare accettabile, chiara e scorrevole. La lettura riesce più piacevole quando il lettore si sente emotivamente coinvolto, grazie alla capacità dell’autrice di alleggerire la narrazione e renderla affascinante.

Nel romanzo, oltre a quelle realistiche si trovano pagine piene di sentimenti ora forti ora delicati. È il caso delle pagine in cui affiora la nostalgia della terra natale: “si era fatta strada dentro di lui una profonda nostalgia e un solo grande desiderio: tornare a casa, in Sicilia, e ricominciare da capo. Gli turbinavano continuamente in mente solo la Sicilia e Ragusa, non ne poteva più di nebbia, freddo, parlare torinese, mangiare torinese, bere torinese. Sognava la pasta con le sarde, i cannoli, la pasta di mandorle, il marsala, desiderava sentire la cantilena della sua lingua, con quelle ‘u’ così lunghe che risuonano nei passati remoti come se il tempo dovesse durare in eterno. Aveva una gran voglia di sentire l’odore della sua terra, il profumo della citronella e delle zagare, voglia di caldo che brucia, del sole del Sud, e non di questo sole bianchiccio del Nord, che certi giorni pare non scaldi neppure e certo non scalda il cuore... Qui al Nord ciascuno si faceva i fatti suoi e non c’era quella calda partecipazione che al Sud è vissuta come comunanza mentre qui come invadenza.” (pag. 117-118). Ed è anche il caso delle ultime pagine del libro, in cui, nel proprio sorprendente ritrovamento in una stanza d’ospedale dopo vite separate e vissute in continenti diversi, due lontani innamorati s’incontrano per darsi l’addio della morte: qui allora i pungenti ricordi diventano esame di coscienza, straziante rimpianto. E qui il lettore attento e sensibile viene coinvolto in forti emozioni e formula pensieri che sanno di verghiano: la marea che travolge i vinti, l’epica lotta per la sopravvivenza, la casa di via Paternò a Ragusa che è come la casa del Nespolo ad Acitrezza, tanti fatti e personaggi che ci richiamano il Verga, inducendoci a riconoscere la capacità e la validità della scrittrice, tanto che ci rammarichiamo che il fittissimo intreccio sia finito.

E, ripensando alle complesse vicende e ai vari personaggi di quest’affascinante storia, ci sembra l’ora che finalmente si renda onore agli eroi ed eroine di quell’epopea, finora ignorati o misconosciuti. È vero che molti giovani d’oggi non vogliono saperne né della miseria né dei sacrifici d’una volta, tesi come sono a pascersi più del necessario e a sollazzarsi perennemente, in un divertimento o carnevale continuo. Eppure quella è stata una realtà non tanto lontana da noi e che comunque potrebbe anche tornare da un momento all’altro. I giovani, le istituzioni e la società d’oggi dovrebbero capire che per rendere onore a quegli eroi ed eroine non bastano fiori e corone, lapidi e monumenti: ci vuole il ripudio o una notevole riduzione degli sprechi e della frivolezza, l’esperienza di quei sacrifici che ora ci fanno considerare eroi o santi i nostri genitori e nonni. Costoro, attraverso lo scenario abilmente disegnato da Diletta Barone, sembrano riemergere dall’oscurità e avanzare barcollanti verso di noi, nell’incertezza e fugacità della nostra stessa vita, per richiamarci ed ammonirci. E non ci resta che ascoltarli, ringraziando l’autrice che ci ha fornito l’opportunità per queste utili riflessioni e per una sperabile catarsi.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2004]


Salvo Basso, Un pensiero che non finisce, Novecento, Mascalucia, 2006, pagg. 80, s. p.

Se può essere capitato più volte che un libro venga scritto in occasione d’un matrimonio, non è una cosa usuale che esso sia allegato alle bomboniere e donato dagli sposi (di cui reca i nomi) ad invitati ed amici. Ciò è avvenuto per il libro “Un pensiero che non finisce mai / Versi (1997-2002)” del defunto poeta Salvo Basso, che Sebastiano Leotta ha curato e opportunamente introdotto per quest’occasione. In realtà si tratta d’un’antologia ricavata da varie opere pubblicate in vita dallo stesso autore o dopo la sua morte dagli eredi.

Salvo Basso (Giarre1963 - Scordia 2002) si laureò in filosofia ed ebbe una notevole propensione per il pensiero e la cultura, tanto da essere nominato assessore alla pubblica istruzione (oltre che vice sindaco) del comune di Scordia, dove risiedeva. Ma quello che domina nella sua produzione è una forte interiorità, con l’idea della morte incombente. Indubbiamente egli seppe farsi amare e ammirare, se è vero che un gruppo d’amici ne coltiva la memoria e coopera alle pubblicazioni postume.

Quest’antologia raccoglie delle schegge di pensieri in forma di versi per lo più dialettali e senza titoli. Sono pochissime le composizioni in italiano e con titoli, ma quelle dialettali sono corredate d’espressive traduzioni in italiano, ad opera di vari amici: sicché chi non capisce o non ha a genio questo dialetto può leggere direttamente i testi italiani.

In una serie di colloqui o meglio di soliloqui fatti di semplici frasette, il contenuto di carattere intimistico ci richiama in qualche modo certe poesie del Gozzano o del Pavese, due autori che ebbero sempre presenti la qualità del proprio io e l’imminenza della morte. Al riguardo potrebbero essere emblematici i seguenti versi del Basso: “a ppicca a ppicca / tutti i cosi s’aggiustunu – picchì / sulu a vita / nun c’è rriparu” ( a poco a poco / tutte le cose si aggiustano – perché / solo alla vita / non c’è riparo). Ma tutta l’antologia è piena d’aforismi del genere, secchi, asciutti e privi d’eleganze formali, frutto di profonda serietà, saggezza e trepidazione.

L’autore sa che la sua avventura terrena durerà poco; ma non grida, non impreca e nemmeno implora: si rassegna in una realistica attesa, che è anche amara accettazione del proprio destino.

Ecco, dunque, che questi versi, i quali più che poesie, potrebbero essere definiti pennellate di tremuli acquerelli, vanno letti non alla ricerca di pregi artistici, che potrebbero scarseggiare o non esserci, ma con atteggiamento quasi religioso, in quanto che inducono a riflettere sulla precarietà dell’esistenza umana, del cui mistero il Basso non vuole indagare, limitandosi a subirne le conseguenze e ad affidarsi alla scrittura come testimonianza d’una sofferenza che a volte assume l’aspetto d’un rovello.

In questo libretto, perciò, non c’è nulla di filosofico: non ci sono sistemi e nemmeno elucubrazioni, ma solo inquietudine, spontaneità, bisogno di condivisione. E non c’è nemmeno ricercatezza stilistica: l’autore stesso confida di non sapere scrivere poesie artisticamente elaborate e valide per i concorsi letterari; e d’altronde aggiunge che non saprebbe che cosa farsene di diplomi, coppe, targhe e medaglie. La sua poesia – egli afferma – è come la messa del prete, il quale per primo si confessa e si comunica.

In conclusione, questo libretto si configura come una degna commemorazione dello sfortunato autore, cui certamente va la simpatia dei lettori, unitamente alla gratitudine per il curatore e per gli altri amici che hanno cooperato.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 7.IV.2006]

Angelo Battiato, Canticu di’ Cantici, Le farfalle, Valverde, 2012, pagg. 86, € 10. (1)

Il biblico “Cantico dei cantici” tradotto in siciliano da Angelo Battiato

Il libro sostanzialmente erotico è stato definito “sacro” ed inserito nella “Bibbia”

Il biblico Cantico dei Cantici (probabilmente scritto dopo il sec. IV a. C.) attraverso i secoli è stato oggetto di lunghe indagini, analisi, commenti; e ciò per vari motivi: la data di composizione, l’autore effettivo al di là del presunto Salomone, la struttura, il contenuto, le allegorie, le finalità. In particolare ha meravigliato il fatto che un libro sostanzialmente erotico possa essere stato definito “sacro” ed inserito nella Bibbia. Ora ad esso ha dedicato un notevole impegno Angelo Battiato, docente nelle scuole secondarie superiori e studioso di cultura locale, il quale ne ha anche eseguito una traduzione in dialetto siciliano nel suo libro Canticu di’ Cantici (Le farfalle, Valverde, 2012, pp. 86, € 10). Ma, oltre che per la traduzione, il lavoro appare interessante per la cospicua introduzione, nella quale l’autore affronta tutta la problematica relativa al Cantico.

Premesso che egli s’è letteralmente innamorato di questo Cantico, tanto da farne il compagno dei suoi viaggi per l’Italia, da impararlo a memoria, da recitarlo in varie occasioni ancorché soltanto per sé stesso e da trovare in esso il mezzo più idoneo alla ricerca dell’assoluto, il Battiato s’è fatto carico di risolvere tutte le questioni ad esso connesse e specialmente quella della sua discussa “sacralità”. Dopo aver notato che questo Cantico era usato dagli ebrei per Pasqua come inno della fecondità, com’era usato nelle feste di nozze ebraiche e cristiane, in definitiva egli vede in esso un aspetto dell’amore per il prossimo insegnato da Gesù, amore inteso in modo totalizzante, cioè carnale e spirituale insieme.

Per il Battiato l’amore di coppia è una comunione dell’uno con l’altra e una partecipazione della divinità: l’erotismo, il possesso e il godimento reciproco vogliono essere un’anticipazione del gaudio celeste, tanto che lo sfinimento dopo l’atto sessuale diventa una specie d’estasi divina, pari a quella provata da certi santi. Al riguardo si può aggiungere che Veniero Scarselli aveva supposto la visione beatifica di Dio avuta da Dante nell’Empireo come la metafora d’un orgasmo sessuale dopo una travagliata relazione d’amore: ipotesi che a suo tempo ha suscitato grande scalpore. (Per questo cfr. Gianna Sallustio, Oltre le Colonne d’Ercole: Veniero Scarselli e la poetica dell’esplorazione, Ursini, Catanzaro, 1998.)

Quindi quella del Battiato, sebbene azzardata, certamente è una tesi originale e meritevole d’attenzione.

Nelle conclusioni del Battiato il Cantico diventa indice dell’amore di Dio per l’uomo: la sessualità/sensualità umana implica l’amore completo, ripetiamo carnale e spirituale insieme, che si sublima poi in amore per Dio e per il prossimo. E il Battiato afferma: “Solo con l’amore umano pregustiamo la dolcezza infinita del paradiso”, così che il Cantico dei Cantici viene visto come “La chiave di volta della Parola di Dio, della Bibbia”. Ecco perché, come osserva ancora il Battiato, “i mistici, in modo particolare, sono attratti dalle pagine del sacro poema che narrano dei notturni, dei silenzi, delle lontananze, di immagini che sembrano inspiegabili ad occhio nudo”.

La traduzione in dialetto siciliano con testo italiano a fronte, poi, rivela l’attaccamento del Battiato alla sua lingua natia, di cui egli stesso in varie opere s’è fatto difensore e divulgatore, nella convinzione che nessun altro idioma se non quello natio possa esprimere sentimenti, passioni, esperienze e aneliti così forti. Perciò essa si configura come un tentativo di far proprio e trasferire nella propria intimità, oltre che nel proprio registro linguistico, qualcosa che profondamente colpisce e coinvolge, fino a diventare norma di vita presente e speranza di salvezza futura.

L’autore-traduttore ha usato un dialetto genuino, arcaico e scevro d’infiltrazioni della lingua nazionale, nella speranza che la sua traduzione possa essere gustata appieno dai suoi compaesani, dato che ogni dialetto per sua natura è diverso non soltanto da regione a regione ma anche da comune a comune.

In considerazione dei pregi, a parte la modestia grafico-editoriale del volumetto (che ad ogni modo non incide sulla validità del contenuto), passano in secondo piano le improprietà lessicali che talora rendono poco chiaro il contesto, le sviste di vario tipo e la punteggiatura sovrabbondante di virgole (spesso usate con funzione di segni più consistenti), la quale frammenta il testo.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, mag.-giu. 2016]


Angelo Battiato, Canticu di’ Cantici, Le farfalle, Valverde, 2012, pagg. 86, € 10. (2)

Il biblico Cantico dei cantici fra letteratura e arte figurativa

Il biblico Cantico dei cantici (probabilmente scritto dopo il sec. IV a. C.) attraverso i secoli è stato oggetto di lunghe indagini, analisi, commenti; e ciò per vari motivi: la data di composizione, l’autore effettivo al di là di quello presunto, la struttura, il contenuto, le allegorie, le finalità. In particolare ha meravigliato il fatto che un libro sostanzialmente erotico possa essere stato definito “sacro” ed inserito nella Bibbia.

Si precisa che presso gli antichi popoli orientali espressioni quali “Cantico dei cantici”, “Re dei re”, “Tempio dei templi” e simili equivalevano a forme di superlativo, come a dire Cantico/Re/Tempio per eccellenza: il migliore, il più grande, il più importante.

Anche Dante nella Divina Commedia cita questo Cantico quando in Purg. XXX 11 scrive che uno dei ventiquattro seniori (anziani che rappresentavano i libri dell'Antico Testamento) componenti della grandiosa processione che si svolgeva nel paradiso terrestre, e cioè Salomone, proclamato autore di questo libro della Bibbia all’inizio dello stesso, cantò per tre volte, seguito da tutti gli altri, l’espressione del Cantico “Veni, sponsa, de Libano!”, cioè “Vieni dal Libano, sposa!”: espressione rivolta secondo alcuni alla Chiesa, sposa di Cristo, e secondo altri a Beatrice lì apparsa. (1) E in Par. X 109-111, alludendo all’amore esaltato in questo Cantico, il poeta dice che l’anima di Salomone ha espresso per ispirazione divina un amore tale che tutto il mondo desidera avere notizie della salvezza di lui. Fra l’altro nel Paradiso il sommo poeta collocò Salomone fra i sapienti del cielo del Sole, a suo riguardo facendo precisare dal presentatore S. Tommaso d’Aquino che — “se il vero è vero”, cioè dato che la Bibbia non può non dire il vero (e qui si riferisce al biblico I Re III 12) — “a veder tanto non surse il secondo”, cioè che non è nato altro re con una sapienza pari alla sua: concetto poi fatto chiarire, sempre da S. Tommaso, nel successivo canto XIII (e in merito a ciò si nota che non per nulla a questo re, costruttore del tempio di Gerusalemme, è stata attribuita dalla tradizione anche la composizione del biblico libro della Sapienza, una sapienza che attrasse a lui perfino la regina di Saba). Infine lo stesso Salomone nel successivo canto XIV spiega a Dante un suo dubbio circa la durata della luminosità di quelle anime.

Ora al Cantico dei cantici ha dedicato un notevole impegno il siciliano Angelo Battiato, docente nelle scuole secondarie superiori e studioso di cultura locale, il quale ne ha anche eseguito una traduzione in dialetto nel suo libro Canticu di’ Cantici (Le farfalle, Valverde, 2012). Ma, oltre che per la traduzione, il suo lavoro appare interessante per la cospicua introduzione, nella quale l’autore affronta tutta la problematica relativa al Cantico.

Premesso che egli s’è letteralmente innamorato di questo Cantico, tanto da farne il compagno dei suoi viaggi per l’Italia, da impararlo a memoria, da recitarlo in varie occasioni ancorché soltanto per sé stesso e da trovare in esso il mezzo più idoneo alla ricerca dell’assoluto, il Battiato s’è fatto carico di risolvere tutte le questioni ad esso connesse e specialmente quella della sua discussa “sacralità”. Dopo aver notato che questo Cantico era usato dagli ebrei per Pasqua come inno della fecondità, com’era usato nelle feste di nozze ebraiche e cristiane, in definitiva egli vede in esso un aspetto dell’amore per il prossimo insegnato da Gesù, amore inteso in modo totalizzante, cioè carnale e spirituale insieme.

Per il Battiato l’amore di coppia è una comunione dell’uno con l’altra e una partecipazione della divinità (2): e in questo modo si riscatta quanto d’immondo e peccaminoso è stato impropriamente attribuito all’amplesso coniugale (3). L’erotismo, il possesso e il godimento reciproco vogliono essere un’anticipazione del gaudio celeste, tanto che lo sfinimento dopo l’atto sessuale diventa una specie d’estasi divina, simile a quella provata da certi santi. E qui non si può non pensare all’estasi di S. Teresa d’Àvila, che Gian Lorenzo Bernini meravigliosamente ritrasse nel suo marmo: questa santa mistica, descrivendo la sua esperienza soprannaturale in cui un angelo la trafiggeva con una freccia nel cuore e fin nelle viscere, paragonò le sue sensazioni (durante le quali c’era per dirlo con S. Agostino un excessus mentis in Deum e con S. Bonaventura un itinerarium mentis in Deum, cioè un viaggio della mente/anima verso Dio, viaggio comprendente visioni e piaceri eccelsi) a quelle provate da due amanti al loro primo approccio. Al riguardo si può aggiungere che Veniero Scarselli aveva supposto la visione beatifica di Dio avuta da Dante nell’Empireo come la metafora d’un orgasmo sessuale dopo una travagliata relazione d’amore: ipotesi che a suo tempo ha suscitato grande scalpore (4). Quindi quella del Battiato, sebbene azzardata, certamente è una tesi originale e meritevole d’attenzione.

Nelle conclusioni del Battiato il Cantico diventa indice dell’amore di Dio per l’uomo: la sessualità/sensualità umana implica l’amore completo, ripetiamo carnale e spirituale insieme, che si sublima poi in amore per Dio e per il prossimo. E il Battiato afferma: “Solo con l’amore umano pregustiamo la dolcezza infinita del paradiso”, così che il Cantico dei Cantici viene visto come “La chiave di volta della Parola di Dio, della Bibbia”. Ecco perché, come osserva ancora il Battiato, “i mistici, in modo particolare, sono attratti dalle pagine del sacro poema che narrano dei notturni, dei silenzi, delle lontananze, di immagini che sembrano inspiegabili ad occhio nudo”.

La traduzione in dialetto siciliano con testo italiano a fronte, poi, rivela l’attaccamento del Battiato alla sua lingua natia, di cui egli stesso in varie opere s’è fatto difensore e divulgatore, nella convinzione che nessun altro idioma se non quello natio possa esprimere sentimenti, passioni, esperienze e aneliti così forti. Perciò essa si configura come un tentativo di far proprio e trasferire nella propria intimità, oltre che nel proprio registro linguistico, qualcosa — come questo Cantico — che profondamente colpisce e coinvolge, fino a diventare norma di vita presente e speranza di salvezza futura. L’autore-traduttore ha usato un dialetto genuino, arcaico e scevro d’infiltrazioni della lingua nazionale, nella speranza che la sua traduzione possa essere gustata appieno dai suoi compaesani, dato che ogni dialetto per sua natura è diverso non soltanto da regione a regione ma anche da comune a comune.

Per quanto riguarda l’arte figurativa, il Cantico dei cantici ha ispirato alcuni artisti. Già il lombardo Michelangelo Merisi detto Caravaggio (1571-1610) nell’olio su tela intitolato Riposo durante la fuga in Egitto aveva fatto allusione al Cantico inserendo uno spartito musicale con un mottetto ad esso riferito, come a sottolineare l’amore mistico della scena. Successivamente, in un olio su tela del 1853, il francese Gustave Moreau (1826-1898) ha illustrato una scena del Cantico ottenendo esiti incerti, perché al di là del titolo, questo dipinto d’impostazione classicheggiante è di non facile interpretazione.

Per la sua notorietà e passione spicca poi il bielorusso Marc Chagall (1887-1985), al quale è dedicato il museo nazionale di Nizza, che ha una sala riservata proprio ai suoi cinque quadri illustranti il Cantico (lavori ad olio su carta incollata sopra tela, 1958). Tali opere — come altre di questo pittore — sono certamente dotate di suggestione per la vivacità del colore che fa da sfondo e la profondità del misticismo che le pervade, anche se le abbozzate figure di stampo nativo e gli svariati elementi di contorno non sempre consentono di distinguere bene i particolari e coglierne le corrispondenze testuali. Bisogna ricordare anche che lui, naturalizzato francese, era d’origine ebraica e fu tanto affascinato e coinvolto dalla Bibbia da realizzare per essa un vero e proprio percorso artistico.

Infine una menzione particolare per la chiarezza dei contenuti, l’attinenza al testo biblico e la delicatezza dei tratti merita il pittore veneto Franco Murer (nato nel 1952 dal noto scultore Augusto Murer), il quale ha intitolato Cantico dei cantici una serie di suoi dipinti a tecnica mista con figure nitide e graziose, facilmente riportabili al dettato.

Carmelo Ciccia

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1) Per una più dettagliata interpretazione della citazione dantesca cfr. C. Ciccia, Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, alle pagine 52-53.

2) “I due saranno una sola carne” (Genesi II 24).

3) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri nel suo libro Eloisa e Abelardo (1984) riferisce che i medievali Libri Penitenziali riducevano a soltanto una cinquantina in tutto l’anno i giorni leciti all’amplesso coniugale. Per questo motivo l’anonimo affresco del cosiddetto Cristo della Domenica presente sulla facciata dell’antica pieve di S. Pietro di Feletto (TV) fra le cose che feriscono Gesù, e quindi da non farsi nei giorni festivi, rappresenta anche due sposi a letto. Ma già il Levitico XII 2-8 riteneva la puerpera immonda per diversi giorni e l’obbligava a purificarsi con sacrifici vari: infatti il vangelo latino di Luca (II, 22) attribuiva l’obbligo della purificazione a Maria Vergine (dies purgationis Mariae), mentre l’attuale vangelo italiano tradotto dalla Conferenza Episcopale Italiana (La Bibbia, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, p. 1598) attribuisce tale obbligo ad entrambi i coniugi, Giuseppe e Maria (“il tempo della loro purificazione”), così travisando il testo latino delle parole dell’evangelista ed estendendo al marito (Giuseppe) la disposizione di Mosè per la moglie (Maria). La Purificazione di Maria, detta anche Candelora, è una festa della Chiesa Cattolica ricorrente il 2 Febbraio.

4) Per questo cfr. Gianna Sallustio, Oltre le Colonne d’Ercole: Veniero Scarselli e la poetica dell’esplorazione, Ursini, Catanzaro, 1998.

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2016]


Antonietta Benagiano, Poetiche sinapsi, Istituto Italiano di Cultura, Napoli, 2008, pagg. 84, € 15.

POETICHE SINAPSI D’ANTONIETTA BENAGIANO

Roberto Pasanisi, responsabile editoriale di questa pubblicazione, concludendo la sua prefazione al libro Poetiche sinapsi d’Antonietta Benagiano (Istituto Italiano di Cultura, Napoli, 2008, pp. 84, € 15), scrive: “versi che chiari corrono come un ruscello tra le tue dita timorose”. Ma alla resa dei conti le sue sembrano “le ultime parole famose” delle freddure, annuncianti un paradosso, dato che molte composizioni della Benagiano sono poco chiare, poco scorrevoli, astruse e incomprensibili. Esse, salvo eccezioni, risultano da accostamenti di parole senza senso, in cui i periodi sono contorti, il taglio dei versi non appare motivato e la punteggiatura è carente.

Per avere conferma di ciò, basta leggere l’inizio della prima composizione, dal titolo “Immortalità mortale”: “Persa carne al noumeno trasvola l’ombra / sangue ignoto pur l’eccelsa risuonerà nomanza / sino allo stendersi di Krono, s’estinguerà poi / l’immortale eco quaggiù pur essa mortale / cosmica polvere oscura diverrà l’eletto verbo / ai risonanti millenni sogno d’eternità.” (p. 17).

Non si comprende perché l’autrice abbia scritto e pubblicato una silloge di versi i cui messaggi sono ammantati d’oscurità. Si potrebbe pensare che la poesia, se non sta nel contenuto, possa stare nella forma: ma qui gli espedienti tecnici consistono soltanto in una certa enfasi, nell’allineamento dei versi, in un’abbondante fraseologia latineggiante (prodotto dell’insegnamento nei licei) o ad ogni modo arcaico-aulica, mescolata ad espressioni straniere e ad altre attinte dal linguaggio scientifico, a partire dalle sinapsi del titolo, nonché nell’uso di poche allitterazioni, anafore, rime e assonanze.

Eppure da quel poco che si riesce a capire l’autrice avrebbe dei messaggi significativi: l’angoscia dell’enigma universale, i rischi della globalizzazione, la tecnologia e i suoi idoli, la deplorazione dei razzismi e totalitarismi, il compianto delle condizioni delle popolazioni africane, la fatica e la scarsa remunerazione di certi lavori da schiavi, il biasimo del consumismo e degli sprechi coi barboni fra i rifiuti, il ricordo dei genitori, l’avversione reciproca e l’auspicio d’una universale fratellanza, l’amore per gli animali, la disaffezione per l’Italia, i tromboni elettorali che presto diventano predoni, la fiducia in Dio, la ricerca d’un pianeta diverso.

E interessanti sarebbero certi pensieri: “Ricerco un pianeta / dov’è lingua fida lo sguardo / ogni colore bellezza [...] il pianeta inesistente.” (p. 19); “Chi nulla ha meno continuerà ad avere” (p. 22); “Bella Italia disamata / dolo in petto nel tuo nome”, che rifà una nota composizione del Monti (p. 38); “Non toccate i fratelli di Namibia / lor danze agli antichi tamburi / libertà d’Africa madre non toccate!” (p. 46); “Solo in Dio confida chi ha il vuoto attorno” (p. 56); “L’onda all’azzurro che alto si sbianca / il vento giocoso l’albero e il fiore e l’erba / inizio a imparare il volto dell’altro / la voce di Dio in me.” (p. 80). Ma sono pensieri episodici e nebulosi..

Per quanto riguarda la forma grafico-editoriale, il volume è elegante e ben impaginato, a parte la mancanza di corsivi o virgolette per certi termini greci, latini o stranieri. Le sviste sono rare: della parola padre e madre (p. 31); caroselli, che solo pochi conoscono come cetriolini pugliesi (pp. 59 e 60); Frates, che non si capisce se è un nome di cane o se sta al posto di Fratres (p. 66); e alcune iterazioni quali Krono/Kronos, smemorata, memorare, smemoranda.

Carmelo Ciccia

[“Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2010]

Placido Benina, Fidi divina, Coop. Callicari, Biancavilla, 1997, pagg. 86.

LE POESIE DIALETTALI DI PLACIDO BENINA

Placido Benina da molti anni pubblica poesie dialettali, singolarmente e collettivamente, partecipando con successo anche a premi letterari; ma Fidi divina (Coop. Callicari, Biancavilla, pagg. 90) è la sua prima raccolta organica. Il pregio principale di questo libro è che il suo autore — come si professa lui stesso — è illetterato; e quindi la sua poesia è più genuina, ingenua, semplice, non inquinata da modi di dire e di pensare di persone colte. Ad esempio, qui si possono anche trovare espressioni non più in uso o scarsamente in uso, come ammàtula, allianari, tuttu-n-tutt’una, smarinari, ntempu-nenti, a scanna de’ nuccenti, mmudarati, nfutari, ecc. D’altronde non poteva essere diversamente per puisii riliggiusi (come recita il sottotitolo) che esprimono non solo la religiosità ma anche il modo di vivere d’una volta: e per questo esse hanno il profumo-calore-sapore del pane casereccio appena sfornato.

L’autore chiede scusa degli errori, affermando “non sugnu littiratu” e “non mi sentu pueta di valuri / n sìmplici dilittanti hat’a ccittari”, ma è proprio questo il suo punto di forza: in un’epoca in cui dominano l’artificiosità e l’ipocrisia ben vengano la sincerità e la semplicità.

Placido Benina è forse l’ultimo poeta contadino che crede nella poesia, nelle sane tradizioni, in certi valori ora in declino o non più praticati. Ovviamente la sua religione non è quella dei dogmi e delle dispute teologiche, ma quella della tradizione popolare, dei racconti biblici, degli aneddoti, delle feste familiari, ma anche dei sani princìpi e del corretto vivere civile, dei saldi convincimenti e dell’incrollabile fede. La sua poesia è perciò descrittiva e didascalica nello stesso tempo; e da essa traspare l’anelito per un mondo migliore, ordinato, pacifico e soprattutto basato sull’amore e sul rispetto reciproco, sempre nella prospettiva d’un aldilà, per cui costante è l’invocazione a Dio e ai santi.

Con le sue preghiere “campagnole”, a volte depositate sotto le immagini sacre, il poeta chiede benedizioni per la campagna, frumento e frutti, salute e benessere per tutti, intenti di pace per gli scienziati nel timore che “lu munnu la scienza lu fà sfari”; e inoltre coscienza per i malvagi, buonsenso per i drogati, rimorso per i delinquenti, in modo che siano evitati “stupri, siquestri, ccu morti ammazzati”.

Simpatiche sono le feste natalizie con l’arrivo di parenti e amici: “Ccu nuciddi e cosi duci / nichi e granni, n cumpagnia, / tra li jochi, sciali, vuci, / aspittamu lu Missia”. Ma varie sono le occasioni dovute e ricorrenze e cerimonie. “La nascita d’o Bamminu” è un vero e proprio poema di ben 52 strofe, nel quale la sequenza dell’Annunciazione ha movenze antonelliane; e nella sequenza della ricerca dell’albergo da parte di Giuseppe e Maria in viaggio per Betlemme l’autore sembra ricalcare l’analoga sequenza del Gozzano.

Insomma, in questo libro di Placido Benina i lettori che si accosteranno ad esso con la sua stessa umiltà troveranno piacere estetico e spirituale. Ed è per questo che auguriamo all’autore di proseguire su questa strada e di conseguire quei successi che si addicono alle persone semplici, oneste e generose come lui.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 26.II.2000]

Alfonso Beninatto, L’ultima fatica di Josef, Piazza, Silea, 2014, pagg. 208, € 14.

“L’ultima fatica di Josef” di Alfonso Beninatto

L’Autore-alpinista racconta con passione la montagna e il suo ecosistema

Il libro d’Alfonso Beninatto L’ultima fatica di Josef (Piazza, Silea, 2014, pp. 208, € 14) è il riflesso della grande passione dell’autore per la montagna e per il suo ecosistema, estrinsecata in tutta la sua vita. Infatti egli è prima di tutto alpinista e poi insegnante e autore di vari libri, ma è stato anche amministratore civico (sindaco del comune di Breda di Piave e consigliere della provincia di Treviso).

Josef (la cui fotografia appare in copertina) è uno stambecco che per la sua età di circa 10-12 anni può definirsi vecchio e si è ritirato dal branco, al quale non può essere più utile, per condurre vita statica e solitaria. Casualmente scoperto dall’autore in una sua ascensione sulle Dolomiti, ne diventa amico e dialoga con lui, che decide di condurlo con sé verso un ghiacciaio, per toglierlo dal torpore che poco prima lo faceva sembrare morto ed offrirgli l’occasione di qualche attività; ma l’animale si muove a malapena, tanto che ad un certo punto egli lo lega a sé con un cordino annodato alle corna, trainandolo: e con tutto ciò, a causa di quest’ultima fatica l’animale spira in cospetto di quella natura ch’era stata il suo mondo.

Questa è soltanto una della ventina di storie che compongono questa raccolta ed è essa che dà il titolo al libro. Fra le altre ci sono: quella d’un gracchio mutilato che per un’intera giornata segue l’autore in un’ascensione e viene ritrovato tre anni dopo, riconosciuto per la mutilazione alla zampa; quella d’un agnellino neonato finito in un burrone, che l’autore — con gran dispendio d’energie — recupera e affida al resto della sua ansiosa famigliola, ricevendone un segno di gratitudine dalla pecora madre; quella d’una scoiattola per la quale il compagno chiede ed ottiene soccorso (anche se essa poco dopo muore), guidando verso l’infortunata l’autore, che poi in un alto anfratto d’un tronco (per raggiungere il quale fatica non poco) scopre il nido degli scoiattolini derelitti, a cui istantaneamente dà il cibo che ha con sé e qualche giorno dopo con altra apposita arrampicata porta dei viveri in abbondanza; quella d’un sacerdote alpino che celebra la messa ad oltre 2.000 metri d’altitudine in occasione d’un raduno interregionale; quella d’una pastorella che parla con una volpe; quella d’un piccolo montanaro che va in giro fra le cime alla ricerca di suo padre mai conosciuto e anche lui viene rapito da un temporale; quella d’un cane senza padrone trovato su una roccia, rifocillato, curato, trasportato a valle e consegnato ad un canile; quella della statua del Cristo Pensante sul Monte Castellazzo, per l’autore occasione ora di commozione, meditazione e preghiera, ora d’indignazione e disgusto a causa del turismo di massa e delle sue conseguenze (baccano, sporcizia, inquinamento ecc.); quella d’una gita scolastica di tre giorni in alta montagna.

L’autore deplora la possibilità data alle automobili di raggiungere siti un tempo inviolati, come ad esempio le Tre Cime di Lavaredo, patrimonio dell’umanità, per le quali è stata approntata una strada asfaltata, fonte d’inquinamento dell’aria, del paesaggio e del silenzio; e, mentre della gente della Carnia elogia “il saluto cordiale, l’aiuto reciproco, l’ospitalità” (p. 186), di quella del Tirolo Meridionale decanta la pietà religiosa tramandata, nonché “l’aiuto reciproco, l’armonia tra vecchi e giovani, l’amicizia, il farsi compagnia” (p. 196); e fra le tante cose apprende che nella credenza popolare le previsioni meteorologiche vengono fornite non soltanto da certi animali ma anche da certe piante come funghi, carlina e taràssaco.

Fin dalle prime pagine emerge il valore educativo di quest’opera: il voler trovarsi fra monti e cielo, preferibilmente in solitudine, evidenzia il carattere meditativo dell’opera, in cui all’estasi per le bellezze del creato (paesaggio di cime, boschi, torrenti, cascate…) l’autore aggiunge la considerazione di ciò ch’è l’uomo di fronte alla natura e al suo creatore: “chi sono, da dove vengo, dove vado” (p. 187): e al riguardo egli propone d’insegnare già nelle scuole elementari la filosofia per educare al pensare. Inoltre il voler salire excelsior, sempre più in alto, fra disagevolezza dei luoghi, stanchezza, intemperie e difficoltà varie, rappresenta un efficace allenamento e quindi un’educazione della volontà sulla scia della pascoliana “Piccozza”. Né va sottovalutato il grande amore che l’autore manifesta per gli animali, per il cui benessere egli compie notevoli sacrifici, in uno spirito di francescana fratellanza, giungendo a rimproverare i compagni che hanno ucciso una vipera. Infine non mancano giudizi critici sulla scuola d’oggi e sul suo degrado, in particolare circa l’attuale frenesia d’effettuare gite molto lontano da casa, trascurando invece il territorio che sta a ridosso dei singoli istituti scolastici.

Il fatto poi — come opportunamente mette in luce l’autore — che queste montagne, oggi tanto ammirate, per parecchi anni sono state zone di contesa, conflitto e morte, non può non far riflettere il lettore sull’insensatezza della guerra, dovendosi nel caso d’un territorio preteso da due o più Stati interpellare i residenti per far decidere a loro con chi stare, secondo il principio dell’autodeterminazione dei popoli enunciato dal presidente statunitense Wilson e recepito dalla nostra Costituzione.

Per questi e altri motivi questo libro è consigliabile particolarmente agli alunni, magari facendolo adottare nelle scuole come opera di narrativa. I lettori possono trovarvi paesaggi incantevoli, pensieri profondi, utili stimoli alla formazione del carattere e anche occasioni per esercitare la propria fantasia in leggende e fiabe dolomitiche, come in quella del lago di Carezza, in quella della pastorella Azzurra e della volpe Furba, in quella del piccolo montanaro Tonino — il cui testo più d’altri si colora di poesia e che anzi, se si sceneggiasse, potrebbe avere come colonna sonora l’omonima e celebre composizione musicale Le petit montagnard (“Il piccolo montanaro”) di Francesco Paolo Frontini (Catania 1860-1939) — e in quella del mostro-gigante guardiano della Slingia (BZ) addormentatosi a lungo e quindi trasformato per castigo in un gruppo montuoso.

La forma grafico-editoriale del libro è ben curata ed elegante; e, nonostante alcune imperfezioni linguistico-espressive, esso si legge con facilità e vivo interesse, data la chiarezza e la scorrevolezza. Inoltre per le espressioni dialettali sarebbe stata opportuna una traduzione in italiano, anche se in nota, e per le parole straniere una differenziazione tipografica con corsivi, grassetti o virgolette.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, dic. 2015]


Giacinto Bevilacqua, Giovanni Micheletto il “conte di Sacile” (Sports 15 Futur Editing, Vittorio Veneto, 2012, pagg. 126, € 10.

Il conte di Sacile (PN) descritto da G. Bevilacqua

Il giornalista e scrittore friulano Giacinto Bevilacqua, autore di varie pubblicazioni, nel suo recente libro Giovanni Micheletto il “conte di Sacile” (Sports 15 Futur Editing, Vittorio Veneto, 2012, pp. 126, € 10) descrive con dovizia di particolari la poliedrica figura di Giovanni Micheletto (Sacile 1889-1958 ), che fu ciclista, commerciante, partigiano e amministratore civile.

Dopo aver accennato alla sua formazione giovanile in un’agiata famiglia di commercianti di vini e liquori (ma la madre gestiva un’osteria con cucina) e aver sottolineato che fu il fratello Achille, dapprima corridore, ad incitarlo a darsi al ciclismo, l’autore si diffonde sull’attività agonistica di Giovanni Micheletto, che nel ciclismo fu in successione principiante, concorrente e vincitore.

Fra le varie gare a cui il Micheletto partecipò, l’autore ricorda in particolare il debutto a Conegliano nel 1905 e le vittorie al Giro di Lombardia del 1908, a quello del Veneto del 1909, a quello di Romagna-Toscana, a quello della Lombardia e a quello della provincia di Mantova del 1910, a quello della Romagna e a quello delle tre capitali del 1911 (per il 50° dell’Unità d’Italia), a quello d’Italia di vari anni, ma vinto in trio nel 1912. E nel centenario di questa vittoria al Giro d’Italia è uscita la biografia del Bevilacqua.

Quindi il Micheletto si trasferì per un certo periodo in Francia, dove nel 1913 vinse la Parigi-Menin; e, dopo averne vinto la prima tappa, stava per vincere anche il Tour de France, ma, pur essendo in testa verso il traguardo, non poté vincere a causa d’un’improvvisa foratura. Questo fu il motivo che lo fece ritirare dall’agonismo e rientrare in patria, dove però verso i 60 anni riprese a correre, non più in bicicletta bensì in automobile Lancia, partecipando a varie gare, fra cui la “Coppa delle Dolomiti” a Cortina d’Ampezzo. E l’autore conclude la parte sportiva con un album alfabetico dei migliori corridori contemporanei del Micheletto, fornendo una serie d’interessanti notizie in merito.

Proseguendo nella narrazione, l’autore parla del servizio militare del Micheletto in artiglieria durante la prima guerra mondiale, della morte del fratello, del suo matrimonio allietato dalla nascita di due figlie e della fortunata attività commerciale di vini e liquori, il cui marchio era “Fratelli Micheletto”, facente capo a lui stesso e a sua sorella, la quale preparava personalmente certi liquori.

Per quanto concerne la seconda guerra mondiale e il relativo dopoguerra, l’autore ricorda i bombardamenti su Sacile, la Resistenza, il padre antifascista, il cognato partigiano e ricercato, la sorella deportata a Udine, le epurazioni che videro cadere anche uno stimato medico, la costituzione del locale Comitato di Liberazione Nazionale, di cui fece parte lo stesso campione, iscritto al partito d’azione e in contatto coi partigiani, il quale poi fu costretto a fuggire lontano insieme col padre perché minacciato di morte, il ripristino della democrazia (alle cui prime elezioni egli fu candidato indipendente) e la sua nomina a presidente dell’ospedale di Sacile. Sotto la sua ultradecennale presidenza, quest’ospedale registrò un grande miglioramento, con nuovi locali e moderne attrezzature. E perciò nell’ospedale stesso poi è stata posta una lapide a ricordo dello zelo e delle benemerenze del Micheletto, lodate anche da alcune testimonianze riportate nel libro.

In appendice l’autore, dopo aver precisato che il Micheletto — nonostante la sua attività commerciale — era astemio, che seguiva le corse ciclistiche in automobile e che faceva tanta beneficenza, parla del soprannome di “conte di Sacile” attribuitogli per il suo garbo e la sua distinzione, che lo facevano somigliare ad un vero gentiluomo e che una volta lo fecero accogliere alla stazione di Sacile da una folla enorme, con banda e fuochi d’artificio. Nelle conclusioni poi si tratta dei suoi solenni funerali, dei premi, coppe e trofei intestati col suo nome, del Club Micheletto, del Museo del ciclismo “Altolivenza” di Portobuffolé intitolato a lui e al cineoperatore Duilio Chiaradia, del nuovo palasport di Sacile intitolato a lui stesso. E, mentre nel contesto dell’opera ci sono numerose fotografie d’epoca, oggi preziose, nelle ultime pagine c’è una buona bibliografia,.

Questo libro si rivela importante per aver posto all’attenzione dei lettori — anche con l’ausilio di cronache giornalistiche dei vari tempi — un personaggio che senza dubbio ha onorato lo sport e la sua città natale anche col contributo da lui dato alla democrazia e all’amministrazione ospedaliera. In esso poi ci sono pagine di storia nazionale e locale: e a quest’ultimo riguardo notevole è il racconto che l’autore fa delle origini della plurisecolare Fiera dei Osei che annualmente si svolge a Sacile.

L’espressione linguistica è chiara, scorrevole e corretta (tranne qualche refuso, qualche virgola mancante, qualche vocabolo non italiano e qualche titolo di giornale scritto senza virgolette o non in corsivo) e l’opera si legge sicuramente con piacere ed utilità.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, lug.-dic- 2013]


Rino Walter Bianconi, Correggioli / Notizie sul nostro paese, Grafiche FM, Bergantino, 2009, pagg. 64, s. p.

Correggioli di Ostiglia (MN): un grazioso paesino lombardo

Il libretto di Rino Walter Bianconi Correggioli / Notizie sul nostro paese (Grafiche FM, Bergantino, 2009, pp. 64, s. p.) appartiene alla categoria di quelli che, presentando un piccolo centro abitato, in realtà portano all’attenzione la storia d’un’area più vasta, che in questo caso è il territorio che va dal Polesine a Verona: e ciò, perché Correggioli (nome con pronuncia piana) è una frazione del comune d’Ostiglia, in provincia di Mantova.

Rino Walter Bianconi, morendo nel 2001, lasciò un documento inedito sulla storia del suo paese. E nel 2009 le figlie Anna Maria e Gabriella, con la mamma, per onorare la sua memoria hanno deciso di pubblicare questo lavoro, che in realtà è fatto non da un improvvisato, ma da uno studioso che aveva le carte in regola per una ricerca del genere: infatti l’autore — oltre che essere stato maestro elementare per buona parte della sua vita, apprezzato particolarmente per la cura della lingua italiana, della cui didattica era diventato esperto frequentando specifici corsi d’aggiornamento (e a conclusione della carriera aveva anche ricevuto dal ministero della pubblica istruzione un diploma di benemerenza con medaglia), ed organista parrocchiale — aveva conseguito il diploma in archivistica, paleografia e diplomatica.

La descrizione dell’autore, dopo un quadro dell’ambiente geografico del fiume Po, che spesso invade la terra provocando immense paludi, percorre preistoria e storia, trattando delle varie bonifiche succedutesi nei tempi, dei primi insediamenti abitativi, degli stanziamenti dei romani (i quali definirono ostili, cioè impraticabili, le zone in cui poi sorse l’attuale Ostiglia), delle invasioni barbariche (fra l’altro ricordando che proprio da quelle parti il papa Leone Magno fermò Attila e i suoi unni), delle contee istituite durante il Sacro Romano Impero, del lungo dominio prima di Verona e poi di Mantova (quest’ultima con la signoria dei Gonzaga), a cui seguirono il regime austriaco (col breve intervallo napoleonico) e l’annessione al regno d’Italia; e a tal proposito egli non manca di ricordare lo spirito patriottico dei lombardi e le repressioni austriache, culminate nell’impiccagione dei martiri di Belfiore proprio presso Mantova, citando anche il patriota ostigliese don Luigi Martini, confortatore di quei martiri stessi.

Dopo aver trattato l’onomastica della zona (fra l’altro precisando che il nome di Correggioli indicava le strisce di terreno elevate e non invase dal Po), l’autore si diffonde sulla storia della parrocchia, ricordando il ruolo svolto dalla chiesa locale mediante la tenuta dei registri anagrafici fin da quand’era semplice cappella. Accenna anche al compatrono san Bernardino da Siena, che, predicando con eccezionale fervore in buona parte dell’Italia Centro-Settentrionale, si fermò pure in questo paese, suscitando grande devozione; e quindi parla del restauro della vecchia chiesa, per la quale i paesani lavorarono gratis, e fa presente che a questa poi seguì la costruzione d’una chiesa moderna.

A ciò seguono ben otto appendici, con rispettivamente: elenco di rettori e parroci, visite pastorali, registri parrocchiali, campane, toponimi, cimiteri, epigrafi marmoree, fondi documentari. Al riguardo qui va sottolineata l’importanza (anche fotografica) di certe pagine dei registri, delle antiche mappe catastali, delle lapidi e relative epigrafi.

Il lavoro è stato condotto col sostegno dell’Archivio di Stato di Mantova; e questa circostanza ne conferma la serietà e la validità, rendendolo prezioso non soltanto alla comunità locale, ma anche agli appassionati di quella storia che rende affascinanti i borghi d’Italia.

Il testo contiene soltanto qualche raro refuso e la forma grafico-editoriale è buona nella scelta dei caratteri, nell’impaginazione, nella qualità della carta e delle immagini.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, genn.-giu. 2014]


Orazio Antonio Bologna, Manfredi tra scomunica e redenzione, Sentieri meridiani, Foggia, 2010; e Manfredi di Svevia / Impero e Papato nella concezione di Dante, LAS - Libreria Ateneo Salesiano, Roma, 2013.

Dante, Manfredi, Papato e Impero negli studi d’Orazio Antonio Bologna

In Purg. 103-145 Dante presenta l’anima del re di Sicilia Manfredi di Svevia (1232-1266), il quale, perché scomunicato, deve attendere nell’antipurgatorio trenta volte il tempo vissuto nella scomunica, prima di potere scalare da penitente le cornici del purgatorio per la purificazione e poi ascendere da beato all’empireo per la felicità eterna. Già dalla presentazione (“biondo era e bello e di gentile aspetto”) il divino poeta dimostra grande ammirazione per lui, descritto come un cavaliere ideale, simile al biblico David; e già più volte egli aveva espresso stima per lui e per il padre: perciò l’episodio è soffuso di delicatezza e perfino il sorriso del re si vela di malinconia. La scena si svolge alla base del monte del Purgatorio: le anime sono appena giunte dalla terra e risentono tuttora della loro terrestrità. Così Manfredi si vanta della nonna Costanza e dell’omonima figlia, giudica “onor di Cicilia e d'Aragona” la sua discendenza e ripensa con rammarico al suo corpo, seppellito, riesumato e infine abbandonato lungo il fiume Verde per opera dell’arcivescovo di Cosenza e ordine del papa Clemente IV. Qui non si parla di politica, ma della fede in Dio e del suo perdono; e la preoccupazione di Manfredi è quella di far sapere a Dante, alla figlia e a tutti gli altri che — contrariamente alla generale opinione — egli è salvo e desidera ottenere preghiere di suffragio, dato che, nonostante la gravità dei suoi peccati e la maledizione ecclesiastica, “la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei”.

La vicenda storica di Manfredi — successore del padre Federico II nel regno di Sicilia (comprendente quasi tutta l’Italia Meridionale), dopo esserne stato reggente dal 1250 al 1258, e ucciso in battaglia dagli angioini mossi contro di lui dal suddetto papa Clemente IV — attraverso i secoli ha sempre attratto i cronisti, gli storiografi e gli studiosi: egli è stato esaltato dai ghibellini e dai patrioti italiani ma fortemente avversato dai guelfi e dagli ecclesiastici.

Su questo personaggio storico ha pubblicato due interessanti volumi lo studioso Orazio Antonio Bologna: Manfredi tra scomunica e redenzione (Sentieri meridiani, Foggia, 2010) e Manfredi di Svevia / Impero e Papato nella concezione di Dante (LAS - Libreria Ateneo Salesiano, Roma, 2013). In essi l’autore ripercorre e interpreta tale vicenda alla luce del pensiero di Dante; e nella sua analisi investe diversi filoni d’indagine: dantistica, storia della Chiesa, storia d’Italia, tradizioni popolari, linguistica.

Secondo l’autore, che tratta il personaggio con grande simpatia, Dante collocò Manfredi nell’antipurgatorio non quale scomunicato dal papa — dato che tale scomunica era motivata da questioni non dottrinali ma territoriali — bensì quale colpevole d’orribili peccati non meglio specificati: pentitosi d’essi all’ultimo momento della vita, egli non aveva da pentirsi d’una scomunica non valida secondo il divino poeta, il quale la pensava proprio come Manfredi, sua proiezione, ed era anche lui padre di figli e perseguitato da un papa simoniaco. Infatti, in base alla teoria dantesca dei due soli (Purg. XVI 106-129), Dio ha disposto per il bene dell’umanità due capi: il papa per guidare gli uomini alla felicità spirituale e l’imperatore per guidarli alla felicità terrena. Volendo appropriarsi del potere temporale, il papa si distoglieva dalle funzioni prettamente spirituali; e quindi ben faceva Manfredi a cercare di strappare territori a lui per tentare di costituire l’unità d’Italia (anche se a quei tempi mancava l’aspirazione popolare a ciò) come avevano tentato di fare il padre Federico II e prima ancora i longobardi, i franchi e i normanni, sempre incappando nel veto della Chiesa. È vero che alcuni curialisti pontifici vedevano una deviazione di Dante dall’ortodossia nel separare la felicità terrena da quella ultraterrena; ma il poeta poi riconobbe che la prima è finalizzata alla seconda e che il potere temporale è soggetto a quello spirituale, tanto che per le cose spirituali anche l’imperatore doveva sottostare al papa. Quindi la scomunica che sconta Manfredi nell’antipurgatorio non sarebbe quella inflitta dal papa, ma un’autoesclusione dalla comunione dei santi o comunione della Chiesa a causa degli orribili peccati commessi, dal personaggio stesso riconosciuti.

Insomma Dante non avrebbe potuto concepire una condanna da parte di Dio d’un re come Manfredi, convinto d’agire per mandato divino contro la Chiesa, allontanatasi dagli scopi per i quali era stata fondata da Gesù.

Ovviamente a chi conosce il pensiero di Dante l’originale tesi del Bologna appare verosimile e affascinante dal punto di vista della logica umana e sentimentale. Dal punto di vista critico-letterario, però, essa collide con la plurisecolare tradizione esegetica, che ha ritenuto Manfredi punito qui perché scomunicato dal papa, ed in particolare contrasta con l’opinione di Benedetto Croce il quale scrisse che Manfredi nel suo pentimento finale, pur deplorando il comportamento persecutorio da parte degli ecclesiastici nei confronti del suo cadavere, “vede il loro torto e vede anche il torto proprio e le ragioni della santa Chiesa” (La poesia di Dante, Laterza, Bari, 1921, p. 109). Inoltre essa non si concilia né con la parola dantesca “maladizion” (v. 133), che è sinonimo d’anatema e quindi di scomunica, e presuppone una o più sanzioni ufficiali da parte della Chiesa, quali sono le bolle pontificie che c’erano state contro Manfredi, né col fatto che nei canti successivi Dante presenta vari penitenti non scomunicati dalla Chiesa che tardarono a pentirsi dei loro peccati (anche gravi), fra cui Belacqua (Purg. IV), i morti per violenza altrui (Purg. V e VI) e i prìncipi lenti nella conversione (Purg. VII e VIII), i quali hanno tempi d’attesa nell’antipurgatorio inferiori a quelli del re svevo, condannato invece ad attendere trenta volte quanto durò la sua “presunzione”, cioè la sua ribellione alla Chiesa che lo aveva “maledetto”, cioè scomunicato. Quindi, pur se nel canto la parola “scomunica” non è mai pronunciata, il suo concetto è espresso con la parola “maladizion”. Peraltro l’autore stesso dichiara di non illudersi che le conclusioni da lui addotte diano un’interpretazione definitiva tanto dell’episodio dantesco quanto dei pochissimi documenti superstiti, da lui consultati in vari archivi.

Eppure questi studi del Bologna sono interessantissimi perché in essi c’è un rimprovero alla gerarchia ecclesiastica del passato per l’ostinazione nel pretendere il potere temporale, dimenticando da una parte l’insegnamento del Crocifisso, il quale lasciò l’esempio d’un’estrema povertà, dall’altra il richiamo di personaggi autorevoli, anche riformatori e fondatori d’ordini religiosi, che per aver predicato l’esigenza per papi, cardinali e vescovi d’abbandonare il loro scandaloso comportamento e ritornare allo spirito evangelico dei primordi furono perseguitati e finirono al rogo o perlomeno dichiarati pazzi. E giustamente nel secondo volume l’autore cita più volte l’abate calabrese Gioacchino da Fiore (Par. XII 139-141), non finito al rogo e nemmeno dichiarato pazzo, ma ad ogni modo emarginato per molti secoli, il quale influì notevolmente su Dante col suo fervido auspicio di purificazione della Chiesa e di ritorno alle origini.

L’autore parla diffusamente di simonia, corruzione, frode, immoralità, sfarzo, nepotismo, odi e sanguinose lotte per il conseguimento del papato, tutti metodi che vigevano fra gli ecclesiastici (e che non escludevano le ricompense sostanziose ai cardinali elettori, ma anche le vendette e gli omicidi); delinea la Chiesa come organismo politico più che spirituale e presenta Manfredi come unto del Signore, esecutore d’una missione affidatagli da Dio e martire della spregiudicata politica dei papi. Tuttavia, difendendo l’ortodossia di Dante, ci tiene a sottolineare la sintonia del divino poeta con l’insegnamento dogmatico basato sulla Dottrina e sulla Tradizione e il suo disappunto per la politica del papato.

Quindi egli esamina dettagliatamente il trattato dantesco De Monarchia e il Constitutum della presunta donazione di Costantino, facendo rilevare che i beni donati al papa avrebbero dovuto formare un patrimonio da utilizzare per i poveri e non per uno Stato politico; estende la sua ricerca all’editto di Costantino del 313 e a quello di Teodosio del 380; descrive luoghi e fasi della battaglia di Benevento in cui il re svevo perse la vita (1266); segue le tracce del suo cadavere, dalla provvisoria tomba fattagli erigere dal re Carlo I, vincitore anche grazie al tradimento di certi baroni pugliesi (a cui accenna pure Dante in Inf. XXVIII 16), alla riesumazione e all’abbandono d’esso lungo il fiume Verde, fino all’individuazione della corrispondenza fra Verde e Calore; e in queste approfondite indagini si trasforma quasi in un investigatore, visitando luoghi, interpellando persone e allegando documenti d’archivio, prove e testimonianze varie, come le leggende popolari della zona.

In definitiva gli studi d’Orazio Antonio Bologna si configurano come una dura requisitoria contro le brame terrene degli ecclesiastici del passato a danno della spiritualità e della diffusione del vangelo. La presunta donazione di Costantino si trasformò in ferreo potere temporale (che impedì l’unità d’Italia per oltre mille anni), arroganza, lusso sfrenato e sfruttamento di poveri cittadini. Perciò Manfredi, che quale capo dei ghibellini italiani aspirava a cingere anzitutto la corona d’Italia e poi semmai quella dell’impero, è morto per una causa santa; e Dante non l’ha dannato all’inferno, come il padre eretico (Inf. X 119), ma posto in luogo di salvazione, implorante indulgenze acquistabili non con donazioni o lasciti materiali, ma con orazioni, specialmente quelle della bella e buona figlia Costanza.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2014]


Orazio Antonio Bologna, Manfredi tra scomunica e redenzione, Sentieri meridiani, Foggia, 2010, pagg. 120, € 14.

“Manfredi tra scomunica e redenzione” d’Orazio Antonio Bologna

Un’attenta indagine che ripercorre Dante, la linguistica, le tradizioni popolari, la storia della Chiesa e d’Italia

La vicenda storica di Manfredi di Svevia (1232-1266), successore del padre Federico II nel regno di Sicilia (comprendente quasi tutta l’Italia Meridionale), dopo esserne stato reggente dal 1250 al 1258, e ucciso in battaglia dagli angioini mossi contro di lui dal papa Clemente IV, attraverso i secoli ha sempre attratto gli studiosi, dato che egli era esaltato dai ghibellini e patrioti italiani ma fortemente avversato dai guelfi e dagli ecclesiastici.

Il libro Manfredi tra scomunica e redenzione d’Orazio Antonio Bologna (Sentieri meridiani, Foggia, 2010, pp. 120, € 14) ripercorre e interpreta tale vicenda alla luce del pensiero di Dante; e nella sua analisi investe diversi filoni d’indagine: dantistica, storia della Chiesa, storia d’Italia, tradizioni popolari, linguistica.

Secondo l’autore, che tratta il personaggio con grande simpatia e ammirazione, Dante collocò Manfredi nell’antipurgatorio (Purg. III 103-145) non quale scomunicato dal papa — dato che tale scomunica era motivata da questioni non dottrinarie ma territoriali — bensì quale colpevole d’orribili peccati non meglio specificati: pentitosi di tali peccati all’ultimo momento della vita, egli non aveva da pentirsi d’una scomunica non valida secondo il divino poeta, il quale la pensava proprio come Manfredi, sua proiezione, ed era anche lui padre di figli e perseguitato da un papa simoniaco. Infatti, in base alla teoria dantesca dei due soli (Purg. XVI 106-129), Dio ha disposto per il bene dell’umanità due capi: il papa per guidare gli uomini alla felicità spirituale e l’imperatore per guidarli alla felicità terrena. Volendo appropriarsi del potere temporale, il papa si distoglieva dalle funzioni prettamente spirituali; e quindi ben faceva Manfredi a cercare di strappare territori a lui per tentare di costituire l’unità d’Italia come avevano tentato di fare il padre Federico II e prima ancora i longobardi, i franchi e i normanni, sempre incappando nell’ostacolo della Chiesa. È vero che alcuni curialisti pontifici vedevano una deviazione di Dante dall’ortodossia nel separare la felicità terrena da quella ultraterrena; ma il poeta poi riconobbe che la prima è in qualche modo soggetta alla seconda. Quindi la scomunica che sconta Manfredi nell’antipurgatorio non è quella inflitta dal papa, ma un’autoesclusione dalla comunione dei santi o comunione della Chiesa a causa degli orribili peccati commessi, da lui riconosciuti.

Insomma Dante non avrebbe potuto concepire una condanna da parte di Dio d’un re come Manfredi, convinto d’agire per mandato divino contro la Chiesa, allontanatasi dagli scopi per i quali era stata fondata da Gesù.

Ovviamente a chi conosce il pensiero di Dante l’originale tesi del Bologna appare verosimile e affascinante, anche se collide con la plurisecolare tradizione esegetica, che ha ritenuto Manfredi punito qui perché scomunicato dal papa, ed in particolare con l’opinione di Benedetto Croce il quale scrisse che Manfredi nel suo pentimento finale, pur deplorando il comportamento persecutorio da parte degli ecclesiastici nei confronti del suo cadavere, “vede il loro torto e vede anche il torto proprio e le ragioni della santa Chiesa” (La poesia di Dante, Laterza, Bari, 1921, p. 109).

In questo libro c’è un rimprovero alla gerarchia ecclesiastica per l’ostinazione nel pretendere il potere temporale, dimenticando da una parte l’insegnamento del Crocifisso, il quale lasciò l’esempio d’un’estrema povertà, dall’altra il richiamo di personaggi autorevoli, anche fondatori d’ordini religiosi, che per aver predicato l’esigenza per papi, cardinali e vescovi d’abbandonare il loro scandaloso comportamento e ritornare allo spirito evangelico dei primordi, furono perseguitati e finirono sul rogo o perlomeno dichiarati pazzi. E per questo può sembrare una stonatura la massima iniziale del papa Pio IX (p. 7), grande assertore e difensore del potere temporale.

L’autore parla diffusamente di simonia, corruzione, frode, immoralità, sfarzo, nepotismo, odi e sanguinose lotte per il conseguimento del papato che vigevano fra gli ecclesiastici (e che non escludevano le ricompense sostanziose ai cardinali elettori, ma anche le vendette e gli omicidi); delinea la Chiesa come organismo politico più che spirituale e presenta Manfredi come unto del Signore, esecutore d’una missione affidatagli da Dio e martire della spregiudicata politica dei papi, dato che “La brama di potere era così grande che chiunque vi si opponeva era considerato nemico di Dio e, come tale, veniva combattuto con tutte le armi, compresa la scomunica” (p. 25). Tuttavia ci tiene a sottolineare la sintonia di Dante con l’insegnamento dogmatico basato sulla Dottrina e sulla Tradizione e il suo disappunto per la politica del papato, il quale, sotto l’egida della Croce, “s’ingeriva con crescente prepotenza negli affari interni degli Stati, determinava squilibri e seminava discordie, spesso finite nel sangue” (p. 26).

Quindi egli esamina dettagliatamente il trattato dantesco De Monarchia e la presunta donazione di Costantino, facendo rilevare che secondo Dante i beni ricevuti dal papa avrebbero dovuto costituire un patrimonio da utilizzare per i poveri e non per uno Stato politico; descrive il luogo della battaglia di Benevento in cui il re svevo perse la vita (1266); segue le tracce del suo cadavere dalla provvisoria tomba fattagli erigere dal re Carlo I, vincitore anche grazie al tradimento di baroni pugliesi (a cui accenna pure Dante in Inf. XXVIII 16), alla riesumazione e all’abbandono d’esso lungo il fiume Verde, fino all’individuazione della corrispondenza fra Verde e Calore; e in queste indagini si trasforma quasi in un investigatore, visitando luoghi, interpellando persone e allegando documenti d’archivio, prove e testimonianze varie, come le leggende popolari della zona, da lui ben conosciuta per esservi nato.

L’opera si configura come una dura requisitoria contro le brame terrene degli ecclesiastici del passato a danno della spiritualità e della diffusione del vangelo; e, secondo l’autore, il Concilio Vaticano II “non è riuscito a cancellare del tutto la patina di temporalità, che ancora permane e incrosta la mente di qualche rigido conservatore” (p. 33). La presunta donazione di Costantino si trasformò in “roccaforte d’un potere spesso soverchiatore e dispotico” (p. 54), lusso sfrenato e sfruttamento di poveri cittadini. Perciò Manfredi, che quale capo dei ghibellini italiani aspirava a cingere la corona del ricostituendo regno d’Italia e poi quella imperiale, è morto per una causa santa; e Dante non l’ha dannato all’inferno, come il padre eretico (Inf. X 119), ma posto in luogo di salvazione, implorante indulgenze acquistabili non con donazioni o lasciti, ma con orazioni, specialmente con quelle della bella e buona figlia Costanza.

La forma è chiara, scorrevole e corretta (salvo alcuni refusi, sviste e ripetizioni), con particolare attenzione alla punteggiatura e al lessico, che lo rende accessibile a tutti, grazie anche al fatto che numerose espressioni in latino sono tradotte in nota. Dal punto di vista grafico-editoriale, il libro è decoroso, ha buona carta e caratteri leggibili ed è ben impaginato, anche se manca la numerazione delle pp. 64-67.

In chiusura è collocata una ricca bibliografia, in cui però — a quanto dichiarato a p. 15 — sono trascurati i contributi più recenti. L’autore non ha messo qui una sua biografia, ma cercando nella rete telematica si può vedere fra l’altro ch’egli vive ed opera vicino ai responsabili della Chiesa Cattolica: infatti, dopo essere stato docente di lettere classiche nei licei, ora egli insegna letteratura latina nell’università pontificia salesiana di Roma, è latinista e collaboratore della rivista vaticana “Latinitas” più volte premiato in Vaticano (e al riguardo si veda la bella dedica in latino con cui s’apre questo volume), autore di varie pubblicazioni principalmente in latino e membro della Pontificia Academia Latinitatis.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, ag. 2014]


Marino Bonifacio, Cognomi dell’Istria / Storia e dialetti, con speciale riguardo a Rovigno e Pirano, Edizioni Italo Svevo, Trieste, 1997, pagg. 196.

STUDI DI MARINO BONIFACIO SUI COGNOMI ISTRIANI

A Rovigno dal 1475 al 1753 esistette la casata Albona o d’Albona, il cui cognome era etnico dell’omonima città, mentre nel 1695 esisteva il cognome Degobbis pure proveniente da Albona: lo riporta Marino Bonifacio nel suo interessante libro Cognomi dell’Istria / Storia e dialetti, con speciale riguardo a Rovigno e Pirano (Edizioni Italo Svevo, Trieste, 1997, pagg. 196). Il Bonifacio, profugo piranese residente a Trieste, è un appassionato cultore d’onomastica e dialettologia istriana: altre sue opere da ricordare sono gli studi Antichi casati di Pirano e d’Istria rispettivamente dedicati ai cognomi Contento (Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, Trieste, 1992, pagg. 147-228) e Indrigo (Tipografia Triestina, Trieste, 1995, pagg. 87), nonché una serie di saggi sparsi su giornali e riviste.

Tutta la produzione del Bonifacio è una testimonianza di quanto possano l’amor di patria e lo spirito di ricerca in uno studioso come lui, votato alla riaffermazione d’un’identità calpestata e vilipesa. In ogni pagina, in ogni riga, vibra il sentimento dell’italianità, che non si palesa come borioso orgoglio, ma come documentata consapevolezza delle proprie radici.

L’autore, come altri, sostiene che i dialetti istriani e dalmati non sono una sovrapposizione veneziana su sostrati slavi, ma si formarono autoctonamente dal latino, come il veneziano, a cui risultarono affini; anzi in certi casi sono più vicini all’italiano di quanto non lo sia il triestino, che sembra quasi storpiare certe pronunce. Premesso che tutte le città dell’Istria, da Capodistria a Pinguente e Pisino, fino a Fianona ed Albona, sono state ininterrottamente latine, italiche, venete e italiane fino al 1945, l’autore afferma che attraverso i secoli esse hanno assimilato entro le loro mura ogni tipo di slavo proveniente dalla penisola balcanica; anzi spesso certe famiglie slave chiedevano d’essere aggregate ai Consigli Nobili, ritenendo un orgoglio potersi definire istriane latine.

Ma oltre a ciò in questi studi ci sono miniere d’informazioni, anche disseminate nelle note, che rivelano una preparazione si direbbe sconfinata, attinta alla cultura classica, alla storia e alla tradizione, e che qui non è possibile riassumere. A volte attraverso un cognome, com’è il caso d’Indrigo e altri, l’autore scandaglia secoli di storia, ne registra le varianti e la loro ubicazione, ne segue le peregrinazioni e altre vicende, ne annota l’estinzione. L’autore registra anche le immigrazioni, come quelle provenienti dal Meridione d’Italia.

Ovviamente lavori del genere presuppongono intense ricerche in archivi, municipi, parrocchie, tanto da far tremar le vene e i polsi. Non mancano le ricostruzioni d’alberi genealogici plurisecolari, dallo stesso Bonifacio pazientemente disegnati, qualche fotografia di personaggio e un opportuno indice alfabetico dei nomi.

I rilievi che si possono muovere sono che l’espressione linguistica italiana dell’autore non sempre è ortodossa e che sarebbe stata opportuna una migliore organizzazione tecnica dei testi e dell’impostazione grafica, specialmente là dove, come nelle varie centinaia di note (la cui quantità avrebbe potuto essere ridotta), il carattere tipografico è minuto e quindi si legge con difficoltà.

Tuttavia sia ben chiaro che il Bonifacio, pur avendo presenti i grandi linguisti, non è un ripetitore: le conclusioni a cui approda sono frutto di personale elaborazione; anzi a volte egli lamenta che non ci siano ancora degli studi scientifici in merito, particolarmente da parte di autori istriani, oppure corregge qualche grande linguista. È il caso d’Emidio De Felice, il quale aveva definito veneziano il cognome Tommaseo, portato dal famoso scrittore e patriota dalmata Niccolò Tommaseo, mentre il Bonifacio ne sottolinea l’origine dalmatica, rilevandone il “tipico suffisso dalmatico derivativo -èo, che continua il latino -eus, ed è quindi indipendente dall’omonimo suffisso -èo, esito del greco e neogreco -aios, presente in taluni cognomi etnici di alcune aree griche (cioè neogreche) dell’Italia meridionale, come il Salento, la Calabria e la Sicilia orientale”. E allo stesso De Felice egli addebita l’avere erroneamente inteso il cognome Raguseo anche come Ragusano, cioè come etnico della Ragusa siciliana, mentre esso è etnico solo della Ragusa dalmatica, poiché in realtà per la Ragusa siciliana l’etnico è Ragusano o — aggiungiamo noi — anche Ibleo, dall’antica località Ibla, oggi parte inferiore della città.

Abbiamo voluto riportare quanto sopra per dimostrare la vastità delle conoscenze e la serietà dell’autore. Perciò le ricerche di Marino Bonifacio meritano l’apprezzamento non solo degl’istriani e dalmati, ma anche di tutti gli studiosi, i quali possono trovare nei suoi studi risposte fondate a vari quesiti d’onomastica istriana.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, sett. 2000]


Yves Bonnefoy, Le assi curve, con testo originale in francese e traduzione in italiano a fronte curata da Fabio Scotto, Mondadori, Milano, 2007, pp.240, € 12,00

Letteratura francese d’oggi

PENSOSITÀ, RICERCA E SIMBOLISMO NELLA POESIA D’YVES BONNEFOY

Yves Bonnefoy, nato a Tours nel 1923, laureato in filosofia alla Sorbona e docente al Collegio di Francia di Parigi, è uno degli scrittori più eminenti della letteratura francese d’oggi e per alcuni il poeta più accreditato al mondo. Più volte candidato al premio Nobel, ha ottenuto altri importanti riconoscimenti, quali il “Balzan” (1995), il “Grinzane Cavour” (1997) e il “Kafka” (2007). È saggista, critico, traduttore e poeta, che fa confluire nella poesia la pregnanza del suo pensiero e della sua riflessione sull’essenza della poesia e sul suo modo di farsi. Infatti, dopo aver seguito il surrealismo, s’è accostato all’esistenzialismo, facendosi promotore d’una poesia con accenti filosofici che cerchi di ritrovare la vicinanza fra parola e cosa, già esistente al tempo dell’infanzia e poi guastata dalla concettualità e dalla quotidianità. Tuttavia egli non si può inquadrare in una corrente specifica: e la sua poesia, più che filosofia, esprime pensosità.

Cultore della classicità e del Rinascimento, più volte s’è recato in Grecia e in Italia, per abbeverarsi alle fonti del pensiero, del mito e della bellezza: ed è proprio l’Italia che lui ha scelto come seconda patria, venendo spesso qui, dov’è di casa, per incontri, fiere, conferenze, amicizie, tanto che da noi è uno dei poeti stranieri più letti, grazie all’inserimento nelle collane di nostre grandi case editrici. Infatti, oltre che poeti nordici quali Shakespeare, Keats e Yeats, egli ha tradotto anche Petrarca e Leopardi.

Delle sue moltissime opere, che è impossibile citare tutte, ricordiamo in italiano i titoli d’alcune in versi: Movimenti e immobilità di Douve (1953), Anti-Platone (1953), Ieri nel deserto regnante (1958), Pietra scritta (1965), Nell’illusione del limite (1975), Quel che fu senza luce (1987), Dove la freccia ricade (1988), La verità della parola (1989), Inizio e fine della neve (1991), La vita errante (1993), Le assi curve (2001). Il volume di Tutte le poesie, con traduzione a cura di Fabio Scotto, è in preparazione presso Mondadori.

Per mettere in rilievo la complessa personalità d’Yves Bonnefoy ci soffermiamo ora sul volume Le assi curve, con testo originale in francese e traduzione in italiano a fronte curata dallo stesso Scotto, contenente in forma antologica anche ampi stralci di precedenti pubblicazioni (Mondadori, Milano, 2007, pp.240, € 12,00).

Con un linguaggio altamente simbolico, non sempre penetrabile, e ricco di metafore, anafore ed altre figure retoriche, la poesia del Bonnefoy, a volte espressa in prosa poetica, ruota attorno ad alcuni concetti-chiave quali morte, pietra, barca, bambino, nudità, Dio, poesia, bellezza e verità, sonno — e conseguentemente sogno e risveglio — che, come per una fissità ideologica, sono ripetuti parecchie volte in semplici parole o in intere frasi, facendo anche da titoli o sottotitoli di composizioni o sillogi: perciò non è possibile citare i numeri delle relative pagine.

La morte è il concetto onnipresente, espresso o sottinteso, perché “mourir est simple” (“morire è semplice”). Essa è desiderata come una notte chiara, ma il poeta si augura che questo mondo rimanga, nonostante la morte. C’è anche la barca dei morti; e la morte è una matrigna che chiama ancor prima della nascita.

La pietra può essere quella della tomba o quella dell’oblio, o semplicemente qualche pietra incontrata per caso, usata come sedile, crepata, rovesciata, sfiorata o lanciata, o un campo di pietre.

“Les planches courbes” (“le assi curve”) che danno il titolo al volume sono quelle d’una barca che si trova in perigliosa navigazione, in un fiume-oceano sempre più minaccioso, da cui è impossibile raggiungere la riva: nella barca ci sono un gigante-traghettatore senza volto (Caronte? Dio?), assente a sé stesso, e un bambino (il poeta?) che gli ha chiesto d’essere traghettato, pagando il relativo obolo. Il bambino è senza identità e senza genitori, non sa da dove proviene e dove va, e chiede insistentemente al traghettatore di fargli lui da padre; ma quegli non soltanto risponde evasivamente, ma si dimostra nocchiero incapace, mentre le assi curve della barca scricchiolano nella turbolenza e il traghettatore, con l’acqua fino al collo, tanto che ha dovuto caricarsi del bambino sulle spalle come un novello S. Cristoforo, rischia d’essere travolto anche lui dalla piena; e “nage dans cet espace sans fin de courants, qui s’entrechoquent, d’abîmes qui s’entrouvrent, d’étoiles” (“naviga in questo spazio senza fine di correnti, che si scontrano, d’abissi che si socchiudono, di stelle”), anche se ad un certo punto, per un poeta in cerca di bellezza e verità, diventa bello questo errare o vagabondare come Ulisse.

Nudo è il bambino, e nudi sono altri bambini, come a volte nude sono le mani, nudi i piedi e nudi o bagnati certi seni oggetto di desiderio erotico. E c’è una donna, anch’essa senza volto, che fa capolino (una Parca?) e che danza con le sue ombre, mentre si parla anche d’un vendemmiatore senza volto (Dio?).

L’autore racconta che a volte dorme e sogna, o sogna ad occhi aperti, e oggetto dei suoi sogni sono dei ricordi, specialmente d’infanzia, della sua classe, ecc., che sembrano rivivere in tanti loro particolari e vengono descritti e accarezzati con nostalgia; ma al risveglio nella casa natale vede gli altri nella gioia, mentre lui non lo è. Addirittura il risveglio può avvenire in una barca, che ha le assi della prua curvate “Pour donner forme à l’esprit sous le poids / de l’inconnu, de l’impensable, se desserrent” (“Per dar forma allo spirito sotto il peso / dell’ignoto, dell’impensabile, si allentano”). Anche il sogno, che a volte può essere indifferenza, offre bellezza nella verità; e la bellezza nel suo luogo natio è soltanto verità: bellezza e verità.

La parte finale del volume è tutta relativa a Dio (qui sempre espressamente nominato) e al concetto che ne hanno certi teologi, i quali ritengono che Dio ci sia, ma sia cieco: “L’idée, le rêve de Dieu, / Le rêve de ce fond de la nuit qu’ils nomment Dieu” (“L’idea, il sogno di Dio, il sogno di questo fondo della notte ch’essi chiamano Dio”). Tale Dio cerca di vedere una pietra e altre cose naturali: “Dieu cherche, lui sans yeux, / À voir enfin la lumière” (“Dio cerca, pur essendo senz’occhi, di vedere finalmente la luce”). Egli è inconsistente e senza nome, uno che lacera le pagine che scrive, in odio della sua stessa opera e come un artista bizzarro; e la materia da lui sognata altro non è che fango. E siccome ama la musica e la scultura, s’incarna in un ceppo scolpito da uno scultore che con esso costruisce il suo Dio. (Cfr. però il biblico libro della Sapienza, 13 e 14.)

In questo marasma d’incertezze non si salva che la parola, e con essa la poesia ch’essa crea e con cui trova bellezza e verità, magari descrivendo che “grands bruits d’abîmes puis se perdaient dans l’incréé, dans l’absence” (“grandi fragori d’abissi poi si perdevano nell’increato, nell’assenza”). La poesia è l’unico bene, perché è un quasi cantare; e il poeta riconosce che la vita è un “Parler, presque chanter, avoir rêvé / De plus même que la musique, puis se taire” (“Parlare, quasi cantare, aver sognato / ancor più della musica, poi tacere”). Il nome della poesia è uno e molteplice, il suo canto si ricorda sempre e il poeta sa “qu’il n’est d’autre étoile / [...] / Dans le ciel illusoire des astres fixes” (“che non esiste altra stella / [...] / nel cielo illusorio degli astri fissi ”).

Come si vede, la poesia d’Yves Bonnefoy s’incentra su quei temi che da sempre assillano l’uomo, nel tentativo di dare qualche risposta a questioni fondamentali quali l’origine e il destino dell’uomo, la morte, l’aldilà, Dio. E non trovando risposte si ripiega su sé stessa, in una visione pessimistica, restando essa medesima l’unica consolazione.

Per il suo malinconico simbolismo il Bonnefoy sembra l’erede e continuatore nel Novecento del Baudelaire e del suo spleen. I versi sono fatti di periodi brevi, spesso con proposizioni nominali e affermazioni apodittiche, che si riscattano soltanto in squarci paesaggistici, visioni cosmiche o apocalittiche, fulgori abbaglianti, memorie emozionanti. Però in essi è carente il respiro sintattico, come pure l’afflato lirico e quella musicalità che il suo connazionale Verlaine postulava per la versificazione nella sua “Art poétique”: De la musique avant toute chose (“Musica anzitutto!”). Abbonda, invece, la concettosità che vi è sottesa.

Anche Dante a volte aveva celato dei concetti — come lui stesso riconosce — “sotto il velame delli versi strani” (Inf. IX 63), eppure complessivamente il suo poema è comprensibile e godibile, tanto da essere diventato universale. Invece nel Bonnefoy il pensiero-simbolo limita non soltanto la comprensibilità ma anche il lirismo. Se questo poeta riscuote tanto successo, ciò è dovuto non alla forma, ma al contenuto, cioè alla problematica ch’egli agita. Leggendo l’originale in francese, ci s’accorge che la sua è una poesia disadorna e difficile, spesso discorsiva (tanto che in certe pagine si trasforma in prosa vera e propria), concentrata in alcune massime, ma che — quando comprensibile — fa lungamente riflettere.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2009]


Renato Borsotti, Sulla strada di Zenna, Gruppo Editoriale Veneto, Marcon, 1991. (1)

Sulla strada di Zenna di Renato Borsotti

Renato Borsotti, giudice di pace a Conegliano, è noto non soltanto per qualche sua sentenza esemplare, ma anche per la sua passione per la cultura e particolarmente per la poesia. Fornito d’una solida cultura classica e d’una sensibilità non comune, egli ha potuto conciliare la sua passione con la carriera giuridica, prima in campo militare poi in campo civile. Perciò è frequentemente presente, attento e vivacemente partecipe, a conferenze, tavole rotonde e convegni, particolarmente sul Novecento italiano, che magari lui stesso anima.

Il suo recente libro Sulla strada di Zenna (uscito dopo il precedente Marlies ed altre poesie) dichiara sulla copertina l’omaggio a Vittorio Sereni, che fu professore d’italiano dell’autore al liceo “Carducci” di Milano e dal quale egli derivò l’amore per la poesia e quel certo non so che di triste che caratterizza la sua produzione. Ma il legame col Sereni si manifesta anche nel titolo e nel contenuto della raccolta: Zenna, che è a due passi da Luino, paese natale del poeta suo professore e grande amico, è un posto di partenza per la Svizzera. Il titolo perciò evoca l’opera prima Frontiera del Sereni a 50 anni dalla pubblicazione, ma anche una porta verso i sogni e quel nomadismo che tutto sommato caratterizza ancora la vita del nostro autore, segnata da tristi vicende e dall’angoscia d’un irraggiungibile ideale.

In questo libro, illustrato con disegni di Mihu Vulcanescu, ci sono tracce di poeti che hanno sofferto e hanno sublimato in arte la loro sofferenza, quali Leopardi, Pascoli, Ungaretti, Montale, Sereni. Al Montale sembrerebbe rifarsi la forma scabra, a volte ellittica e aspra, delle composizioni; ma è leggendo bene che si scopre un’altra presenza sottesa, quella del Quasimodo, adombrata fra le zàgare di Tindari mite della lirica “Silenzioso meriggio”: e questa presenza è nel costante atteggiamento di frustrazione nei confronti della vita, nel ripiegamento su sé stesso e nella lene e triste musicalità che a qualche composizione conferisce la connotazione d’un epicedio.

Il pessimismo del Borsotti non è un’azione di protesta contro checché o chicchessia, ma semplicemente l’espressione d’una dolorosa condizione di vita e la ricerca di solidarietà. Il suo non è lo spleen bodleriano, violento e quasi teatrale, ma un penoso abbassamento di testa di fronte a certe delusioni, a certe situazioni. È una tristezza con la quale si deve convivere e anzi si convive nel migliore dei modi; una pena delicata, raccontata quasi sottovoce... Ed è proprio quando questa pena si sublima che nasce la poesia: nasce da vicende del mondo, belliche e sociali quali quelle della guerra del Golfo Persico, di piazza Tien An Men, di Sarajevo e Lubiana, ma anche da esperienze e risorse personali; nasce per noi, i quali la gustiamo e offriamo la nostra solidarietà all’autore che ha tanto sofferto, tanto soffre e sa esprimere così delicatamente la sua pena.

Certamente nella poesia di Renato Borsotti c’è un sofferto autobiografismo, ma questo più che intimismo è un’ispezione dentro e fuori del proprio io alla ricerca della condizione umana.

Se Montale invidiava l’immobilità d’una statua nel meriggio, Borsotti invidia l’immobilità estiva del mare (“Ad una stella caduta”); se Ungaretti scrive “Mattina” Borsotti gli fa eco con “Mattino”: “Ho negli occhi / la gioia del tuo sorriso”. Ma è nei frequenti epifonemi che si dimostra la saggezza del poeta, specialmente quando questa scaturisce dalla pena: “Com’è soave l’amore / quando giovinezza / negli occhi / sognanti.” E qui bisogna dire che in questa composizione c’è la poetica di Borsotti, e la sua essenza è posta come titolo della composizione: Poesia / è infinita tristezza.

La lirica “Dolorosa attesa” ha già nel titolo la pregnanza del dolore e merita una lettura attenta e una riflessione particolare anche per capire l’animus del poeta: in essa sottili arcani premono da sterminati silenzi, tristi sensazioni d’innovate angosce s’infittiscono, ci sono dolorose memorie d’ignoti fili attorcigliati, stagioni senza vittorie, amori senza incantesimi e canti senza musica; e l’amore è dolorosa attesa. E se si vuole un solo esempio dello scorrere della poesia di Borsotti si legga la lirica che comincia con le parole Quando sorpreso guardo, dove non soltanto ci sono ancora angosce, stavolta d’amore, ma struttura dei versi e musicalità, intrise d’un profondo senso di pena, costituiscono il binario della lirica, che si conclude con l’epifonema “Toglie e dà memoria / il mare”; oppure quella che comincia con le parole Quando sono solo, triste, che vibra di grazia interiore, con reminiscenze classiche: reminiscenze che si trovano più avanti nei nomi di Saffo, Attide e Acheronte, come pure in certi brani latini di Plinio e Orazio.

Naturalmente tutti questi epifonemi non avrebbero tanta importanza, ovvero la loro sarebbe solo un’importanza esteriore e prosastica, se non fossero impastati d’autentica poesia: “Agli incanti futuri / smemora il cuore, chiuso / alle vibranti / estive carezze.” (“Controcanto”).

E qui ci piace notare che forse la parte migliore, per scorrevolezza dei versi e musicalità, è proprio quella finale, dove le liriche prendono titolo dal primo verso; e se da un lato esse si legano l’una all’altra come un racconto che continua, dall’altra sono l’emblema dello stile di Borsotti, anche se più viva è in esse la presenza di maestri come Quasimodo e Montale.

Per concludere, la poesia di Renato Borsotti è un distillato di pensosità e tristezza che dai recessi del cuore e della mente si sublima in dolorosi sentimenti e sa librarsi in un intreccio di lirici voli.

Carmelo Ciccia

[“Nuova rassegna di studi meridionali, Cosenza, n° 1-2/1997” ]


Renato Borsotti, Sulla strada di Zenna, Gruppo Editoriale Veneto, Marcon, 1991. (2)

“SULLA STRADA DI ZENNA”

Fornito d’una solida cultura classica e d’una sensibilità non comune, Renato Borsotti, residente a Ponte della Priula, ha potuto conciliare la sua passione per la poesia con la carriera d’avvocato e di giudice. Perciò egli è frequentemente presente a conferenze, tavole rotonde e convegni che magari lui stesso anima.

Il suo recente libro Sulla strada di Zenna (uscito per il Gruppo Editoriale Veneto di Marcon dopo il precedente Marlies ed altre poesie) è dedicato a Vittorio Sereni, che fu suo professore d’italiano al liceo “Carducci” di Milano e dal quale egli derivò l’amore per la poesia e quella tristezza che caratterizza la sua produzione.

In questo libro ci sono tracce di poeti che hanno sofferto e hanno sublimato in arte la loro sofferenza, quali Leopardi, Pascoli, Ungaretti, Montale, Sereni. A Montale sembrerebbe rifarsi la forma scabra, a volte ellittica e aspra, delle composizioni; ma è leggendo bene che si scopre un’altra presenza sottesa, quella di Quasimodo, adombrata fra le zàgare di Tindari mite della lirica “Silenzioso meriggio”: e questa presenza è nel costante atteggiamento di frustrazione nei confronti della vita, nel ripiegamento su sé stesso e nella lene e triste musicalità che a qualche composizione conferisce la connotazione d’un epicedio. Spesso si notano solitudine e autobiografismo, ma questo più che intimismo è un’ispezione dentro e fuori del proprio io alla ricerca della condizione umana.

La poesia di Renato Borsotti è un distillato di pensosità e tristezza che dai recessi del cuore e della mente si sublima in dolorosi sentimenti e sa librarsi in un intreccio di lirici voli.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 19.IX.1998]


Renato Borsotti, Sulla strada di Zenna, Gruppo Editoriale Veneto, Marcon, 1991. (3)

LA POESIA DI RENATO BORSOTTI

Renato Borsotti, emiliano di nascita, lombardo d’adozione e ora veneto di residenza, è noto per la sua passione per la cultura e particolarmente per la poesia. Fornito d’una solida cultura classica e d’una sensibilità non comune, egli ha potuto conciliare la sua passione con la carriera d’avvocato e di giudice, prima in campo militare poi in campo civile. Perciò è frequentemente presente, attento e vivacemente partecipe, a conferenze, tavole rotonde e convegni, particolarmente sul Novecento italiano, che magari lui stesso anima.

Il suo recente libro Sulla strada di Zenna (uscito per il Gruppo Editoriale Veneto di Marcon dopo il precedente Marlies ed altre poesie) dichiara sulla copertina l’omaggio a Vittorio Sereni, che fu professore d’italiano dell’autore al liceo “Carducci” di Milano e dal quale egli derivò l’amore per la poesia e quel certo non so che di triste che caratterizza la sua produzione. Ma il legame col Sereni si manifesta anche nel titolo e nel contenuto della raccolta: Zenna, che è a due passi da Luino, paese natale del poeta suo professore e grande amico, è un posto di partenza per la Svizzera. Il titolo perciò evoca l’opera prima Frontiera del Sereni a 50 anni dalla pubblicazione, ma anche una porta verso i sogni e quel nomadismo che tutto sommato caratterizza ancora la vita del nostro autore, segnata da tristi vicende e dall’angoscia d’un irraggiungibile ideale.

In questo libro, illustrato con disegni di Mihu Vulcanescu, ci sono tracce di poeti che hanno sofferto e hanno sublimato in arte la loro sofferenza, quali Leopardi, Pascoli, Ungaretti, Montale, Sereni. Al Montale sembrerebbe rifarsi la forma scabra, a volte ellittica e aspra, delle composizioni; ma è leggendo bene che si scopre un’altra presenza sottesa, quella del Quasimodo, adombrata fra le zàgare di Tindari mite della lirica “Silenzioso meriggio”: e questa presenza è nel costante atteggiamento di frustrazione nei confronti della vita, nel ripiegamento su sé stesso e nella lene e triste musicalità che a qualche composizione conferisce la connotazione d’un epicedio.

Il pessimismo del Borsotti non è un’azione di protesta contro checché o chicchessia, ma semplicemente l’espressione d’una dolorosa condizione di vita e la ricerca di solidarietà. Il suo non è lo spleen bodleriano, violento e quasi teatrale, ma un penoso abbassamento di testa di fronte a certe delusioni, a certe situazioni. È una tristezza con la quale si deve convivere e anzi si convive nel migliore dei modi; una pena delicata, raccontata quasi sottovoce... Ed è proprio quando questa pena si sublima che nasce la poesia: nasce da vicende del mondo, belliche e sociali quali quelle della guerra del Golfo Persico, di piazza Tien An Men, di Sarajevo e Lubiana, ma anche da esperienze e risorse personali; nasce per noi, i quali la gustiamo e offriamo la nostra solidarietà all’autore che ha tanto sofferto, tanto soffre e sa esprimere così delicatamente la sua pena.

Certamente nella poesia di Renato Borsotti c’è solitudine e sofferto autobiografismo, ma questo più che intimismo è un’ispezione dentro e fuori del proprio io alla ricerca della condizione umana.

Se Montale invidiava l’immobilità d’una statua nel meriggio, Borsotti invidia l’immobilità estiva del mare (“Ad una stella caduta”); se Ungaretti scrive “Mattina” Borsotti gli fa eco con “Mattino”: “Ho negli occhi / la gioia del tuo sorriso”. Ma è nei frequenti epifonemi che si dimostra la saggezza del poeta, specialmente quando questa scaturisce dalla pena: “Com’è soave l’amore / quando giovinezza / negli occhi / sognanti.” E qui bisogna dire che in questa composizione c’è la poetica di Borsotti, e la sua essenza è posta come titolo della composizione: Poesia / è infinita tristezza.

La lirica “Dolorosa attesa” ha già nel titolo la pregnanza del dolore e merita una lettura attenta e una riflessione particolare anche per capire l’animus del poeta: in essa sottili arcani premono da sterminati silenzi, tristi sensazioni d’innovate angosce s’infittiscono, ci sono dolorose memorie d’ignoti fili attorcigliati, stagioni senza vittorie, amori senza incantesimi e canti senza musica; e l’amore è dolorosa attesa. E se si vuole un solo esempio dello scorrere della poesia di Borsotti si legga la lirica che comincia con le parole Quando sorpreso guardo, dove non soltanto ci sono ancora angosce, stavolta d’amore, ma struttura dei versi e musicalità, intrise d’un profondo senso di pena, costituiscono il binario della lirica, che si conclude con l’epifonema “Toglie e dà memoria / il mare”; oppure quella che comincia con le parole Quando sono solo, triste, che vibra di grazia interiore, con reminiscenze classiche: reminiscenze che si trovano più avanti nei nomi di Saffo, Attide e Acheronte, come pure in certi brani latini di Plinio e Orazio.

Naturalmente tutti questi epifonemi non avrebbero tanta importanza, ovvero la loro sarebbe solo un’importanza esteriore e prosastica, se non fossero impastati d’autentica poesia: “Agli incanti futuri / smemora il cuore, chiuso / alle vibranti / estive carezze.” (“Controcanto”).

E qui ci piace notare che forse la parte migliore, per scorrevolezza dei versi e musicalità, è proprio quella finale, dove le liriche prendono titolo dal primo verso; e se da un lato esse si legano l’una all’altra come un racconto che continua, dall’altra sono l’emblema dello stile di Borsotti, anche se più viva è in esse la presenza di maestri come Quasimodo e Montale.

Per concludere, la poesia di Renato Borsotti è un distillato di pensosità e tristezza che dai recessi del cuore e della mente si sublima in dolorosi sentimenti e sa librarsi in un intreccio di lirici voli.

Carmelo Ciccia

[“Il Piave”, Conegliano, marzo 1998]


Vincenzo Bòsari, Prelùdio, Tipografia Ditta Domenico Menini, Spilimbergo, 1921, pagg. 204, £ 5. (1)

ANTICHE POESIE DI VINCENZO BÒSARI

È un vero reperto archeologico il voluminoso libro di poesie Prelùdio, opera prima di Vincenzo Bòsari (1901-1990) che la Menini di Spilimbergo stampò nel lontano 1924 e ora lo Studio Bibliografico Iavarone di Napoli ha inserito nel suo catalogo. Il compianto poeta e narratore (che qui fa derivare dalla Grecia il suo ceppo e il suo cognome) fu autore di parecchi libri, tradotto specialmente all’Est e presente in numerose antologie scolastiche, attivo per molti anni fra il pordenonese e il trevigiano, ma anche in Iugoslavia.

Leggendo questo Prelùdio, scritto fra il 1919 e il 1922 e sottotitolato Le canzoni del sangue, ci sembra di tornare in pieno Ottocento: per contenuto, forma, stile, ideali. Gl’ideali di Bòsari sono la rettitudine, un patriottismo fortemente mazziniano, l’amore e la gloria. Oltre a quelle patriottiche, la maggior parte delle poesie riguardano la bellezza femminile, l’amore, il paesaggio e la ricerca del lauro poetico. Sono riecheggiati autori quali Foscolo, Leopardi, Manzoni, Giusti, Carducci, D’Annunzio. Molte sono le poesie erotiche in cui vibra un’ardente sensualità.

Ovviamente metrica e rima sono quelle dei poeti classici e perciò frequentemente s’incontrano sonetti, odi saffiche e anacreontiche, ma anche versi liberi.

A parte certa retorica e ingenuità giovanile, il sentimento, la passione, la ricercatezza, l’eleganza e la musicalità conferiscono a molte di queste antiche poesie (come “La neve”, “Ad una rondine” e “La lontananza” poi ricalcata da Modugno nell’omonima canzone) una bellezza intramontabile e una levità che fa ancora sognare.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 7.X.1998]


Vincenzo Bòsari, Prelùdio, Tipografia Ditta Domenico Menini, Spilimbergo, 1921, pagg. 204, £ 5. (2)

LE POESIE NEOCLASSICHE DI VINCENZO BÒSARI

È un vero reperto archeologico il voluminoso libro di poesie (più di 200 pagg.) intitolato Prelùdio, opera prima di Vincenzo Bòsari (Pinzano al Tagliamento 1901- Pordenone 1990), che la “Premiata Tipografia Ditta Domenico Menini” di Spilimbergo stampò nel lontano 1924 col prezzo di £ 5 a copia e che l’autore poi non incluse mai nelle sue note bibliografiche, quasi a volerlo ripudiare, non tanto per il contenuto, ed in particolare per i sentimenti espressi, quanto per la forma, così lontana dai nuovi modelli poetici, basati sul linguaggio quotidiano (anziché aulico e paludato come il suo) e sul verso libero, cioè sull’assenza di metrica e rima, anche se egli poi disprezzò sempre la poesia fatta di elucubrazioni e di non-sensi. Perciò può dirsi fortunato chi possiede questo libro o perlomeno l’ha visto e letto.

Il poeta e narratore friulano (che in questo libro ipotizza la derivazione del suo ceppo famigliare dalla Grecia, e precisamente dal casato Botzaris) fu autore di parecchi libri, noto per il suo acceso antibellicismo e presente in numerose antologie scolastiche. Qui meritano di essere ricordati anche: Poesie per un anno (Paravia, Torino 1955), Prima che venga notte / Messaggio agli uomini di buona volontà (poesie, La tipografica, Pordenone, 2^ ediz. 1971, 1^ ediz. 1957), Guerra civile (romanzo, Club autori-editori, Pordenone, 1972), Garofani rossi (poesie, ibidem, 1973), La faggeta (racconti, ibidem, 1973), Il feroce Bombangon e l’intrepido Tantentin (favola allegorica, ibidem, 1974), Il dott. Livaski (romanzo, ibidem, 1977), Ponte rosso (romanzo, Grillo, Udine, 1981). Inoltre ha lasciato opere inedite.

Per la sua attività, fra i molti riconoscimenti nel 1968 il Bòsari ebbe dal Presidente della Repubblica il diploma di 1^ classe e la medaglia d’oro dei benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte.

Leggendo questo Prelùdio, scritto fra il 1919 e il 1922 e sottotitolato Le Canzoni del Sangue, ci sembra di tornare al neoclassicismo: per contenuto, forma, stile, ideali. Gl’ideali di Bòsari sono la rettitudine, un patriottismo fortemente mazziniano, l’amore e la gloria. Oltre a quelle patriottiche, la maggior parte delle poesie riguardano la bellezza femminile, l’amore, il paesaggio e la ricerca del lauro poetico. Sono riecheggiati autori quali Dante, Chiabrera, Metastasio, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Giusti, Carducci, Pascoli, D’Annunzio; ed è sulla scia delle opere prime di Carducci e D’Annunzio che si colloca particolarmente questo libro anche per il titolo, che sembra riprendere rispettivamente Iuvenilia e Primo vere. Molte sono anche le poesie erotiche in cui vibra un’ardente sensualità.

L’opera è distinta in due parti: “1. Dal Sebeto al Tagliamento” e “2. Sotto la sferza”. La prima parte si riferisce al periodo intercorso da quando l’autore (a causa dell’invasione austriaca del Friuli conseguente alla sconfitta di Caporetto) era profugo a Napoli, presso cui sfocia il fiume Sebeto, ospitato da una gentile signora, alla quale poi egli rimase — come le scrisse da Pinzano in una dedica del 27/9/1924 — “Eternamente Grato della Più Generosa Ospitalità e dei Materni Consigli”. La seconda parte invece si riferisce al periodo militare compiuto quale soldato di sanità, durante il quale egli doveva stare sotto la sferza dei superiori, che fra l’altro lo punirono gravemente per mancanza di disciplina; ma poi, per sfuggire a tale disciplina, egli si arruolò fra i carabinieri, non disdegnando di prestare servizio in un corpo “reale” nonostante che fosse fieramente repubblicano.

Nel libro c’è anzitutto la gratitudine per la signora Felicita Angela De Grandi che lo ospitò. I classicheggianti versi del sonetto “Alla Sig.ra F. A. D. G.” parlano di lei come di una madre: “quando tornato al mio natio terreno, / dove infuriò con bellico furore, con spavalda ferocia l’oppressore, / allo sdegno ed al pianto aprirò il freno, / mi sovverrà l’imagin tua sovente, / dolce ricordo, e placherà le vive / ire, fuggenti al gonfio cor fremente.”

E nel libro, oltre che quelli della scuola del suo paese e del collegio in Lombardia, c’è più volte il ricordo della scuola frequentata a Napoli, della città partenopea dal poeta detta “garrula sirena”, dei suoi coloriti vicoli, della sua calda gente ed in particolare d’una “Annita bruna”, del suo pittoresco paesaggio con le riviere e col golfo dominato dal Vesuvio; e c’è anche qualche curioso particolare, come l’inserimento in una classe in cui a causa delle vicende belliche il poeta era il più anziano. Ovviamente sono numerosi anche i riferimenti e le apostrofi al Friuli, alla Carnia, all’Istria: gente, paesaggi, monumenti, storia, tradizioni, Solo leggendo queste pagine e venendo a conoscenza delle vicissitudini personali dell’autore, si possono capire a pieno la cordiale simpatia che poi egli sempre nutrì per i meridionali e il suo attaccamento all’unità d’Italia e alla lingua nazionale.

Ovviamente metrica e rima sono quelle dei poeti classici e perciò frequentemente s’incontrano sonetti, odi saffiche e anacreontiche, ma anche versi liberi pieni di musicalità. Importante è per lui la giusta accentazione delle parole, a cominciare dal suo cognome Bòsari (e non Bosari) e dal titolo dello stesso libro che è Prelùdio (e non Preludio), per continuare con Pròlogo, dèa, ecc.

Eppure, nonostante che essa sia stata dal Bòsari sconfessata perché considerata un peccato di gioventù, questa sua prima produzione in versi ha una notevole validità, specialmente in un tempo in cui la forma espressiva della poesia scivola sempre più nella banalità, riducendosi più che altro a prosa frequentemente interrotta da un andare a capo privo di motivazione. Certamente si nota che il poeta, pur in possesso d’una consistente formazione letteraria e poetica, deve ancora perfezionarsi: ci sono certi errori o sviste come Hai per “Ahi”, quà, un’esercito, abraccio, camice per “camicie” (ripetuto), boa d’Asburgo per “boia d’Asburgo” [1] , ridendi per “ridenti” (ripetuto e poi fatto rimare con stupendi). Si notano anche la devozione per Mazzini e Garibaldi, espressioni rituali come “sacro Piave”, “santa guerra”, “tricolore”, “Adriaco mare” e polemiche antisabaude e anticlericali.

Potrebbero essere ancora attuali certe valutazioni contro il “secol pornografico - che aborre la morale [...] il lussurioso secolo”, “infingardo secolo - che a Pluto s’inchinò”, “secol mercator”, come pure certe raccomandazioni moralistiche: “Chieda alle donne mercenarie, chieda / il corpo vinto e i lussuriosi amplessi / chi i piè del vizio nel sentiero à messi, / al vizio in preda.”

Ma — a parte la retorica e l’ingenuità giovanile — il sentimento, la passione, la ricercatezza, l’eleganza e la musicalità conferiscono a molte di queste antiche poesie, anche quando assumono l’andamento dello stornello, una bellezza intramontabile e una levità che fa ancora sognare. È il caso di Le pecorelle (“D’argento è il mare, nella notte bruna, / specchio infinito, luminoso, vivo, / sotto la luna. / Lassù, nel cielo, tra raggianti stelle, / vanno pascendo biancheggianti grègge / di pecorelle.”), Notte di Marzo (“Bella è la notte: è tutto un folgorare / vivo di stelle sotto il cel sereno. / Laggiù, nel bosco, splende un casolare, / canta una bimba: - Vieni sul mio seno. / Vieni e non farmi tanto sospirare: / sereno è il celo e la stagion clemente... - / Mi punge come un dardo quel cantare, / e canto anch’io: ma canto inutilmente.”), delle 18 strofe Ad una rondine (“Bruna e gaia rondinella, / tutta bella, / che garrisci sopra il pesco, / ed al sol primaverile / il gentile / canto mandi al Maggio fresco, / ...”) e del sonetto La lontananza, di cui c’è un’eco nell’omonima canzone di Modugno-Bonaccorti (“La lontananza, amica, è come il vento / che maggiormente fa avvampar gl’incendi: / quanto più lungi son, tanto più sento / arder la fiamma che nel cor m’accendi. / ...”).

E sarebbe il caso che gli studiosi tenessero particolarmente conto di questo Prelùdio, magari riservandogli una specifica e dettagliata analisi, non solo per le preziose informazioni autobiografiche che vi si riscontrano, ma soprattutto perché leggendolo ci si accorge che la poesia classica ha ancora un suo fascino e che anzi nei secoli passati c’era forse più poesia di quanta possa incontrarsene nel dilagare di tanta pseudo-poesia contemporanea. Inoltre, considerata la rarità delle copie oggi esistenti, sarebbe auspicabile una cernita con scelta delle migliori composizioni e una ristampa dell’opera.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, genn.-marzo 2000]


Luigino Bravin, Srebrenica non è lontana, Piazza, Silea, 2018, pagg. 192, € 14,00.

Luigino Bravin, alpinista e già docente di matematica, in precedenza ha pubblicato diversi libri di narrativa, accreditandosi come buon narratore; ma è con questo drammatico romanzo che raggiunge l’acme del pathos. Già il titolo, per coloro che non sono digiuni di storia del Novecento, dovrebbe di per sé stesso essere indizio di crudeltà, drammaticità e sofferenze indicibili all’epoca della guerra in Bosnia del 1995: e il cimitero dell’immagine di copertina ne è l’emblema.

Questo romanzo prende le mosse da un siffatto contesto di violenze, stupri e devastazioni, perpetrati contro i musulmani da un’inferocita orda di serbi, i quali pur dicendosi cristiani sembrano figli di Satana. La giovane mamma Zara è stuprata da un soldato coadiuvato da due subalterni e come molte altre donne stuprate a Srebrenica s’impicca. La sorella Miryana da un nascondiglio assiste impotente allo stupro e s’imprime nella memoria le fattezze dello stupratore, che ha una cicatrice su uno zigomo. Dal momento della morte della sorella, il marito della quale è morto in guerra, Miryana si dedica all’orfanella rimasta, per prima cosa facendola registrare come figlia sua: ma per ottenere ciò deve concedersi alle voglie dell’impiegato dell’anagrafe. Quindi la sua vita trascorre nell’educare e mantenere la bambina, facendola crescere al meglio possibile, prima in Germania, dove va a fare la cameriera ora d’un ristorante ora d’una gelateria, e poi in Italia (nel Veneto) come gelataia. Intanto ha conosciuto un uomo che la illude, facendole credere d’essere libero e ben intenzionato verso di lei, e con lui intraprende una relazione amorosa, ma dopo la scoperta dell’inganno si trasferisce in altra città, dove si lega ad un omosessuale, fortemente affezionandosi a lui, il quale morendo prematuramente lascia tutti i suoi beni a lei. E alla fine lei, avendo covato per tutta la vita il desiderio di vendetta per quanto successo alla sorella stuprata e impiccatasi, dopo diciassette anni, con sorprendente astuzia, spietata determinazione e cinica (oltreché orripilante) ferocia, riesce ad attuare la vendetta stessa nei confronti di quel turpe individuo avente la cicatrice su uno zigomo.

La trama è ben costruita e la successione degli eventi è basata su connessioni logiche ben definite. La psicologia dei personaggi è curata, così come la descrizione degli ambienti e paesaggi. L’autore segue la protagonista dai venti ai trentasette anni; e la coppia Miryana-Mario (l’omosessuale), mai sposatasi, è l’esempio lampante d’un’impensabile comprensione, devozione e dedizione reciproca. L’autore stesso partecipa intensamente alle vicende narrate, coinvolgendo in ciò i lettori, ma lascia loro la libertà di giudicare le decisioni e i comportamenti dei personaggi, offrendo una narrazione tanto avvincente che il libro si legge volentieri, specialmente quando assume il carattere d’un giallo poliziesco e fa sorgere nei lettori la curiosità di sapere se si scoprirà chi ha compiuto l’omicidio.

Certamente i lettori di formazione cattolica non approveranno certi avvenimenti, certe decisioni e certi comportamenti in contrasto con la dottrina cristiana: ma ciò non toglie che questi non possano essere avvenuti e quindi descritti in un romanzo che vuol essere vero o verosimile. Semmai riserve vanno formulate per l’eccessiva crudezza d’un realismo estremo, a causa del quale la lettura è disturbata da espressioni triviali e da particolari tecnici e linguistici degli atti sessuali. È vero che lo scopo di ciò sarebbe quello di sottolineare la bassezza, volgarità e brutalità di qualche personaggio, ma in un’opera seria certe cose starebbero meglio se adombrate con un velo di reticenza, anche perché con ciò l’autore sembra indulgere all’attuale tendenza di ricerca ad ogni costo del pruriginoso e osceno, rischiando di perdere di vista la serietà dell’assunto.

L’espressione linguistica è chiara, scorrevole e corretta: in contrario si notano soltanto qualche imperfezione nell’uso della punteggiatura e qualche plurale invece del singolare in quello dei verbi.

Infine la forma grafico-editoriale appare eccellente per l’impaginazione, la titolazione, la carta, i caratteri, l’inchiostrazione, ecc.: e questo, pur con le riserve di cui sopra, rende più godibile la lettura.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2020]


Luigino Bravin, Pietre, muri, panorami, storia e storie / Un viaggio nel bacino del Piave, Piazza, Silea, 2022, pp. 123, € 14.

Anche questo nuovo libro di Luigino Bravin, alpinista e già docente di matematica affermatosi come valido narratore, si legge volentieri grazie all’eccellente forma grafico-editoriale: copertina, carta, impaginazione, caratteri, inchiostrazione e immagini costituiscono un insieme di motivi d’attrazione che invogliano alla lettura. In particolare le immagini sono nitide e solenni; e, siccome spesso raffigurano cime di montagne, non soltanto creano pause nella lettura e ne favoriscono la fruizione, ma anche stimolano il lettore ad elevare il suo sguardo verso l’alto e puntare al cielo.

Ed in effetti questo libro, iniziando dalle pietre d’un muro di Susegana, conduce il lettore — e si può dire lo guida per mano — in una lunga e piacevole escursione fra monti, valli, fiumi, laghi, ghiacciai e nevai, rifugi, osterie, casoni e casere, pasti improvvisati dove capita. Come recita il titolo, il lavoro vorrebbe essere una rilevazione geologica di muri e pietre, non trascurando storia, storie e panorami; ma accanto a ciò c’è la natura, il suo formarsi ed evolversi, includendo nell’osservazione e descrizione la rude vita di montanari e alpinisti: il tutto incentrato sulla valle del Piave e sulle Dolomiti. Il che ovviamente induce a parlare della prima guerra mondiale e di grandi opere a ciò realizzate: trincee, gallerie e strade militari, come quella scavata con eccezionale ardimento sotto il passo di S. Boldo.

Oscillando fra saggistica e narrativa, l’autore mette in campo le sue competenze geografiche, geologiche e petrografiche, presentando anche questioni orografiche e orogenetiche, spiegando la formazione e composizione di terreni, rocce, pietre e muri, nonché dicendoci da quali gigantesche frane sono derivati certi laghi (Alleghe, Santa Croce, ecc.), perché s’è formata la sella del Fadalto e perché il Piave ha deviato il suo corso, non scendendo più per Vittorio Veneto, come certe pietre siano arrivate in certi posti e perché il pavimento di certi centri abitati sia fatto con una determinata pietra, ad esempio il porfido. Contemporaneamente egli inserisce memorie personali che sfociano in coloriti racconti contenenti anche sapidi episodi e nelle cui pagine opportunamente è adoperato il carattere corsivo. E non mancano pennellate d’arte quando descrive qualche chiesetta solitaria, la sua architettura e i suoi affreschi, il panorama che si gode da lassù, che a volte dà il senso dell’Infinito leopardiano (di cui cita alcuni versi, anche se indebitamente allineati a mo’ d’epigrafe); come non mancano altri momenti d’emozione, come quelli vissuti nella gipsoteca di Possagno.

Ovviamente, senza ignorarli, egli accenna a personaggi storici che hanno onorato certi paesi e certe valli: l’ex ministro Tremonti, i pittori Tiziano Vecellio e Paris Bordone, i papi Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, l’alpinista esploratore Vittorino Cazzetta, a cui è intitolato il museo di Selva di Cadore da lui fondato, lo scultore Antonio Canova, il poeta Andrea Zanzotto, la beata Giuliana e la leggendaria Bianca di Collato.

Parlando del cippo commemorativo dell’Isola dei Morti l’autore ricorda le migliaia di Caduti periti o raccolti in quella zona, che hanno durevolmente impregnato di sangue le pietre con cui poi sono stati costruiti muri ed edifici. E non trascura accenni alla lotta partigiana della seconda guerra mondiale, in una deplorazione degli orrori di tutte le guerre per crudeltà, lutti e danni. E mentre si commuove per questo, ricorda ancora con raccapriccio i disastri del Vajont del 1963 e dell’alluvione del 1966, da lui personalmente subita.

L’esposizione, quindi, assume l’aspetto d’una sintesi storico-geografica, quando accenna ai castelli di Conegliano, Susegana e Collalto, richiamando le vicende della dinastia dei Collalto, qui per secoli dominante, e il tono d’un monito, quando tratta dei cambiamenti climatici in corso e delle disastrose conseguenze che fra non molti anni si verificheranno se non si prendono immediatamente seri e indispensabili provvedimenti. Al riguardo egli riferisce d’aver visto alcuni anni fa dei ghiacciai estendersi molto più a valle, mentre ora essi sono arretrati di parecchio e fra qualche decina d’anni potranno essere totalmente scomparsi, con conseguenze irreparabili per fiumi, laghi, agricoltura e alimentazione.

La forma linguistico-espressiva, piana e scorrevole pur con qualche proposizione nominale e qualche termine tecnico-scientifico, talora è vivacizzata da battute in dialetto, anche se prive di traduzione. È vero che ci sono qua e là alcune sviste di punteggiatura e d’altro genere e che nelle parole non appartenenti alla lingua italiana manca la necessaria differenziazione tipografica: ma queste cose potrebbero benissimo essere corrette mediante un foglio d’errata-corrige, per favorire l’adozione del libro nelle scuole come opera di narrativa e così contribuire ad inculcare nei giovani l’amore per la montagna e il rispetto dell’ambiente.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2023]

ARNALDO BRUNELLO TREVIGIANO E FRANCESISTA

di Carmelo Ciccia

Arnaldo Brunello è un trevigiano d. o. c. che all’amore per la sua città ne unisce un altro per la lingua e letteratura francese, disciplina di cui è stato docente per molti anni, prima di diventare preside. Fra le sue pubblicazioni spicca certamente il libro “TREVISE aspects et images”, da lui scritto in collaborazione con Romana Maresio (Grafiche Zoppelli, Dosson di Treviso); e ciò per vari motivi: perché è scritto da un trevigiano innamorato della sua città, perché è in francese, perché è ricco di molte e splendide illustrazioni che ne fanno anche un libro d’arte e perché è formato da quasi 300 grandi pagine, configurandosi come un’opera ineludibile per chi voglia conoscere la storia e la vita di Treviso.

Perciò questo libro — che editorialmente si presenta in modo elegante, curato e insomma molto ben riuscito — non è una guida turistica per stranieri (anche se può diventarlo), ma una vera e propria monografia fondata su precise documentazioni e resa piacevole anche da interessi rivolti a piccole cose, come il simpatico dialetto di Treviso, sempre cantante e armonioso (“son dialecte toujours chantant et armonieux”). L’espressione in francese si giustifica non solo per la professione dell’autore, ma anche per il fatto che Treviso è gemellata con Orléans, città francese per la quale questo testo si è rivelato prezioso.

Il lavoro dimostra un’ottima conoscenza di tanti particolari storici, geografici, artistici, economici, di costume, ed è scritto con animo fortemente poetico: vedi certe descrizioni paesaggistiche del fiume Sile, il quale “a Cagnan s’accompagna” (Dante, Par., IX. 50) proprio in questa “cité des eaux” (città d’acque) le cui riviere sono costeggiate da “maisons aux façades et aux balcons fleuris” (case dalle facciate e dai balconi fioriti) e da “petits jardins potagers” (orticelli), o di tradizioni come quella del “pan e vin”, il caratteristico falò dell’Epifania. E per questo egli auspica la salvezza delle tradizioni locali per una patria comune fondata sulle grandi tradizioni popolari.

Notevoli poi sono i riferimenti a Dante, Tomaso da Modena e Benedetto XI, pontefice trevigiano. Ma quello che si nota di più è il grande amore per Treviso, “la Bruges italienne”, che traspare da ogni pagina insieme all’amore per la cultura.

Il libro tratta, oltre che della storia e dei costumi di Treviso, delle origini del suo dialetto, della gastronomia locale, del circondario, dei movimenti letterari e artistici, di commercio e industria, dell’operosità dei trevigiani nel mondo. In chiusura ci sono, oltre alla bibliografia, un indice dei nomi e un importante glossario. che consente la lettura dell’opera anche a chi ha poca conoscenza della lingua francese.

Lo stile è chiaro, scorrevole e grazioso: e la graziosità è una caratteristica che ben s’intona con la grazia d’una città come Treviso. A ciò si presta l’armoniosità della lingua francese; e un altro merito d’Arnaldo Brunello è di aver riproposto il valore di questa lingua in un’epoca in cui è venuta la mania dell’inglese, che, pur rivelandosi importante per la scienza e la tecnologia, non è portatore di quel grado di civiltà e di cultura che il francese ha espresso per secoli in Europa e in tutto il mondo.

Infine di Arnaldo Brunello vanno perlomeno ricordati alcuni suoi saggi di cultura francese, come — ad esempio — quelli su “Montaigne”, “Marguerite de Valois”, “Il caso Dreyfus”, “Il matrimonio di Caterina dei Medici”, solo per citarne pochissimi; come pure va sottolineata la sua ultradecennale attività di presidente del comitato trevigiano della Società Nazionale “Dante Alighieri”, per la quale ha profuso — si può dire — tutte le sue energie.

Ed è per questa poliedrica attività che giustamente la comunità di Treviso gli ha conferito il “Totila d’oro”, premio riservato ai trevigiani illustri e benemeriti.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.IX.2000; Atti della Dante Alighieri a Treviso a cura d’Arnaldo Brunello, vol. IV, Grafiche Zoppelli, Treviso, 2003, pagg. 158-166]


Arnaldo Brunello, Exercices d’un Italien amoureux du français, Antiga, Cornuda (TV), 2001, pagg. 216, s. p.

Dopo una vita spesa come insegnante di francese e poi preside d’istituto superiore, nonché di studioso ed autore di numerose pubblicazioni e traduzioni, Arnaldo Brunello, presidente della “Dante Alighieri” di Treviso, ha pubblicato questo nuovo libro in francese che dalla prima parola del titolo Exercices d’un Italien amoureux du français potrebbe far pensare ad un testo scolastico, ma in realtà questi exercices altro non sono che “Esercitazioni d’un Italiano innamorato del francese”. Il libro è dunque una testimonianza del lungo amore dell’autore per l’affascinante lingua e civiltà francese e nell’insieme una sintesi d’arte e di vita.

L’opera si divide in sette “capitoli”, che andrebbero meglio chiamati “parti” e riguardano rispettivamente l’arte, la famiglia, la donna, la natura, la società, vari argomenti (fede, libertà, pace, quotidianità) e i “tentativi di poesia?”; ma la definizione di “capitoli” non è del tutto impropria, se si considera che l’autore definisce queste sue composizioni — ben 200 in francese e 22 in italiano — “piccoli racconti in versi”.

Ai racconti si addice meglio la prosa, ma in questi d’Arnaldo Brunello, in genere piuttosto estesi, c’è sempre una ricerca poetica, consistente nella scelta dei vocaboli, in rime e assonanze (anche a mezzo), in una musicalità più o meno affiorante. Tuttavia l’autore riesce meglio come poeta nelle composizioni brevi, praticamente in quelle in cui meno presente è la razionalità, cioè quando contrappone all’autunno della sua vita i ricordi dell’infanzia lontana, i fiabeschi paesaggi natii, le bellezze della sua Treviso.

In questa raccolta, anche se ve ne sono alcune risalenti a parecchi anni fa, le composizioni più numerose sono quelle scritte in età avanzata, quando ognuno si rivolge al suo passato, specialmente — come dice l’autore — ai momenti privilegiati della giovinezza, per ammirarli come in uno specchio, meditare e imparare a morire con dignità e senza rimpianto. Perciò da una parte emergono episodi di scanzonata giovinezza, ricca di avventure e di passione erotica; dall’altra il peso dell’età fa sentire i suoi effetti deprimenti con scene di foglie ingiallite, visite ai cimiteri e paura dell’imminente fine, che però l’autore sa superare con il sincero anelito religioso, gli affetti familiari, lo studio e l’animazione culturale.

Così ai momenti lieti si alternano momenti tristi e comunque di costante riflessione. Se da una parte l’autore si rivede volentieri prima come chierichetto e poi come appassionato amante che sa esaltare la bellezza femminile e la propria virilità, dall’altra l’età avanzata lo porta a fare dei ragionamenti e a prendere posizione contro certi malesseri della società contemporanea: egoismo, razzismo, esibizionismo libidinoso, oscenità nella moda e nella pubblicità, aborto, droga, condizione dei minori, scuola degradata, arroganza dei figli-bambolotti, politicizzazione esagerata della vita pratica.

L’autore deplora le follie sanguinarie delle brigate rosse, la fecondazione artificiale di bambini in provetta, i pericoli di certe biotecnologie, la prostituzione stradale, il libertinaggio, la criminalità e gli spettacoli pornografici. Egli auspica che sia la cultura a dominare l’esistenza umana: contesta chi crede che Satana non esista, paventa un’apocalisse nucleare, invoca la salvezza della Chiesa e della scuola con l’educazione cristiana; e nel campo della politica, pur esprimendo le sue preferenze, non può non deplorare lo sfascio delle istituzioni dovuto all’ingovernabilità dell’Italia, che a significativa conclusione del volume raffigura come la dantesca “nave senza nocchiero in gran tempesta”.

Ma per fortuna, oltre ai tranquillanti assunti in certe sere, l’autore ha a sua disposizione la tranquillità della città in cui gli è stato dato di nascere e vivere. Egli, com’è rimasto incantato davanti alle opere di famosi artisti e ai monumenti ammirati nei suoi viaggi turistico-culturali in Francia, in Sicilia e in Grecia, così rimane incantato davanti allo spettacolo quotidianamente offerto da Treviso, “chère ville poétique”, coi suoi corsi d’acqua silenziosi, coi suoi vecchi mulini, coi suoi balconi fioriti; e, rinnovando l’entusiasmo espresso nel suo lontano e fortunato libro Trévise aspects et images, delicatamente scrive: “C’est Trévise, ma bonne cité, vétue de pourpre, / toujours surprenante par ses saveurs miraculeuses, / avec ses tours, ses cheminées, ses places flamboyantes.”.

Naturalmente ciò che si nota anzitutto è la capacità d’Arnaldo Brunello di trattare la lingua francese e di forgiarla con assoluta padronanza, fino ad ottenerne espressioni e sfumature particolari e in modo tale da dimostrare che effettivamente il francese è per lui quasi un’altra lingua materna. Ma è la delicatezza di tratto e di tono che caratterizza il libro: specialmente quando egli esprime sensazioni dolorose o evidenzia sgraditi aspetti della società contemporanea, ch’egli vorrebbe più seria, più umana e più giusta, la saggezza impregna notevolmente questi “piccoli racconti in versi” e li rende più apprezzabili.

Carmelo Ciccia

[“Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2001; Atti della Dante Alighieri a Treviso a cura d’Arnaldo Brunello, vol. IV, Grafiche Zoppelli , Treviso, 2003, pagg. 158-166]


Carmelo Bucolo, Il viaggista. Suggestioni mediterranee, Battivelli, Conegliano, 1999, pagg.78, £ 15.000.

Probabilmente il titolo potrà fare storcere il naso a qualche purista che non ammetta l’uso della parola “viaggista”; la quale, però, potrà essere giustificata nel senso di “addetto al viaggio”.

Carmelo Bucolo, docente di tecniche turistiche ed alberghiere in un istituto tecnico per il turismo, ha cercato di fondere in questo libretto autobiografia e saggistica, narrativa e poesia. Da una parte c’è l’urgenza di raccontare un’esperienza di viaggio nuova ed originale, carica d’una forte passione erotica, dall’altra l’opportunità di mettere a fuoco alcune tecniche di viaggio, partendo dall’osservazione del paesaggio (quello incantevole della Costa Azzurra) per approdare ad una serie di riflessioni storiche e geografiche che investono anche la valutazione d’opinioni e luoghi comuni riguardanti in particolare la Sicilia (terra natale dell’autore), come pure certi orientamenti politici a sfondo leghista del Veneto (terra in cui l’autore insegna e risiede).

Ne nasce uno spaccato caleidoscopico, che a volte sembra accostarsi a certa narrativa del mistero, dell’esotico, del giallo. Non per nulla la conclusione pone degli enigmi, il cui intreccio e la cui soluzione poi si rivelano la chiave del modo stesso di viaggiare.

Indubbiamente il Bucolo, che ha anche pubblicato un libro di versi, scrive con passione: ha una vena facile, capace d’interessare il lettore, di non stancarlo, di condurlo appassionatamente fino all’ultima pagina. L’enigmatica protagonista e il prorompente erotismo sono degli appetitosi ingredienti: però certe pagine erotiche non sempre sono giustificabili per la natura del libretto, trasformando quello che doveva essere un tranquillo diario di vacanza in una gratuita pornografia. Tuttavia, come scrittore, egli ha ancora bisogno di formarsi: la fantasia è accesa, ma la forma si presenta fragile, non mancandovi alcune debolezze, sviste ed errori veri e propri (punteggiatura, grammatica, sintassi, lessico).

Saranno le buone letture e accurate esercitazioni a dargli in successive prove la sicurezza espressiva.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, sett. 2006]


Giovanni Buffo, Colorati sogni, Tipse, Vittorio Veneto, 2002, pagg. 70, s. p. (1)

PREFAZIONE

“Colorati sogni

son segreti

di un mondo aperto

ai ciechi.”

In questa breve lirica, che è insieme quadretto e massima, c’è forse l’essenza della personalità e della poesia di Giovanni Buffo: come i ciechi vivono del loro mondo interiore, sognando e riuscendo perfino ad avere sogni colorati, così egli stesso, che la natura ha destinato ad una sedia a rotelle, riesce ad avere un ricco mondo interiore, a volte colorato, e a vivere d’esso, fra delusioni e speranze.

Sicuramente impressionano la fermezza spirituale e la profondità del sentire di questo giovane, che ha trovato nell’amore degli altri e nella poesia la forza per andare avanti, con dignità e serenità; e impressiona anche la capacità poetica che ha acquisito grazie alle letture e a buoni maestri. Già è esplicita questa sua manifestazione d’intenti: “Come un fantasma / etereo d’anima / me ne vado / a cogliere / ... / battiti di cuore / e di poesia”.

Questa prima raccolta di liriche, dunque, svolge anche il ruolo d’una confessione, una confessione che tuttavia non tende mai ad ottenere pietismo, ma comunica ai lettori osservazioni, stati d’animo, massime. Certo la sua non vuole essere una poesia gnomica: ma ogni vero poeta non può non esprimere per sé stesso e per gli altri motivi di riflessione, che a volte investono i fondamenti dell’esistenza stessa. Perciò l’aspetto didascalico si concentra in versi finali, brevi o brevissimi come lampi: “l’infinito fermarsi / d’un attimo d’eternità”, “Quintessenza d’infinito / il cielo”, “Sorprendere il mare / nei suoi respiri”. A volte l’epifonema si riduce ad un verso e diventa eco o risonanza, che conferisce musicalità alla composizione: “Un desiderio di purezza”, “Silente catarsi”, “Nella sera”, “Il segno di un’onda sul cuore”.

La riflessione del poeta riguarda il silenzio, il tempo, il vento, la bellezza, l’amicizia, la religione: e a volte diventa meditazione, speculazione, un “navigare con i pensieri”, che esprime il rovello di chi vuole affrontare la vita con piena consapevolezza e non con superficialità. Il silenzio può essere quello d’una siesta, ma in ogni caso regna sovrano in chi ne percepisce il valore, e in esso “l’uomo in solitario sentire / sé stesso ritrova”: e come il Leopardi spaventato dall’infinito silenzio desiderò naufragare in questo mare, Giovanni Buffo riecheggiandolo scrive: “Dal frastuono del mondo, / di naufragare cerco / nel silenzio / della primitiva natura”: un silenzio invocato come un fratello, perché con la liberazione sa suscitare una grande “silente catarsi”. E al tema dell’annullamento il poeta ritorna quando scrive che perfino la pioggia “annulla e porta via / la nostra povera nullità”.

Accanto al silenzio un posto considerevole in questa raccolta occupa il tempo, il quale è visto ora come “cavallo impalpabile”, violento e distruttore, ora come ciò “in cui / il presente e il divenire / si fondono / in un breve pulsare / di vita”, ora come immoto ed eterno; ed in mezzo alla nebbia “nell’aria smagata / il poeta è tutt’uno / con il Tempo”.

Al tempo s’affianca il vento, che a volte è come fresca brezza che culla e carezza, a volte è impetuoso, travolgente e transitorio, inserendosi bene con le sue qualità nella metafora della vita. E “Vento e stagioni” s’intitolano una sezione della raccolta e una delle più belle composizioni: il fascino di questa composizione deriva dalla sua struttura, che ci ricorda certe liriche di Garcìa Lorca non solo per la presenza del vocabolo ispano-americano gaucho, ma anche per l’andamento da implorazione andalusa, piena di cantabile musicalità Essa è imperniata su una serie d’anafore costituite da “Vento” e “ascolta” e si conclude col grido d’innocenza “guarda, o vento!”. In essa si noti anche la studiata architettura, peraltro presente in altre composizioni: il numero dei versi per strofa è in crescendo, da 2 a 5.

Ognuno ha il suo fardello da portare, e lui in particolare, a volte in una landa desolante o in mezzo alla nebbia autunnale; però il poeta sa anche scherzare in rima, guardare all’esterno e apprezzare quanto la natura offre di bello: cielo, stelle, paesaggio, colori, profumi. Un verde prato si configura come un’oasi di felicità, specie di campi elisi, e un rivo può celare un prezioso aldilà da scoprire: “tutto sta inscritto nell’istante vivo / da cogliere prezioso / al di là del tuo rivo”.

Nella raccolta ci sono bei quadretti paesistici, scene di caccia (anche se in queste domina il bramito del cervo ucciso), elogio e ricerca dell’amicizia, naturali aneliti e speranze d’amore, religiosità: quest’ultima è anche ricordo di tradizionali festività come il Natale, ma soprattutto profonda convinzione e pratica, ricerca di purezza, àncora di salvezza in chi come un cero si consuma e purifica. Perciò su tutto domina la serenità, che è rassegnazione e speranza di pace: “Vedi, s’apre sul tuo cammino / un varco, pur labile segno di nascosto / sentiero / ... / d’improvviso, da chiaro verde / di prato / s’alzeranno le bianche colombe / con negli occhi il sorriso del sereno”. E ciò rappresenta una grande lezione per tutti.

Per quanto riguarda la forma, queste liriche s’avvalgono d’una tecnica matura ed esperta: ogni cosa è al posto giusto. Sono presenti varie figure retoriche come anafore, metafore, iperbati, ellissi, che unite a rime, assonanze, metrica, ritmo e musicalità danno l’impressione di notevole capacità stilistica. Dal punto di vista strettamente grammaticale, apprezzabili sono poi — in un tempo di lassismo linguistico come il nostro — la correttezza grammaticale e la proprietà lessicale. A volte le parole sembrano sussurrate e s’insinuano dolcemente nel lettore, molcendone l’anima, come se per modestia il poeta volesse entrare in punta di piedi nel nostro mondo e dire sommessamente la sua, senza essere invadente; a volte esse sono isolate nel verso, per creare un opportuno risalto; a volte il verso stesso ha una diversa collocazione rispetto agli altri, quasi a richiamare l’attenzione del lettore. Allora si nota che la poesia sta nelle sospensioni, in ciò ch’è detto e in ciò che è sottinteso: e quei silenzi fanno scattare e agire positivamente il filtro della memoria e della riflessione.

In conclusione, quella di Giovanni Buffo è una poesia che sa elevarsi fino a diventare palpito d’infinito, grazie ad una straordinaria ricchezza interiore, al profondo sentire e alla particolare tecnica, che fanno di quest’autore un poeta autentico.

Carmelo Ciccia

[Giovanni Buffo, Colorati sogni, Tipse, Vittorio Veneto, 2002, pagg. 70, s.p.]




Giovanni Buffo, Colorati sogni, Tipse, Vittorio Veneto, 2002, pagg. 70, s. p. (2)

“COLORATI SOGNI” DI GIOVANNI BUFFO“

Giovanni Buffo è un giovane poeta friulano, disabile motorio, che ha trovato nella poesia lo scopo della sua esistenza. La prima raccolta Colorati sogni (Tipse, Vittorio Veneto, 2002, pagg. 70, s. p.) svolge anche il ruolo d’una confessione.

La riflessione del poeta riguarda il silenzio, il tempo, il vento, la bellezza, l’amicizia, la religione: e a volte diventa meditazione, speculazione, un “navigare con i pensieri”, che esprime il rovello di chi vuole affrontare la vita con piena consapevolezza e non con superficialità. Il silenzio può essere quello d’una siesta, ma in ogni caso regna sovrano in chi ne percepisce il valore, e in esso “l’uomo in solitario sentire / sé stesso ritrova”: e come il Leopardi spaventato dall’infinito silenzio desiderò naufragare in questo mare, Giovanni Buffo riecheggiandolo scrive: “Dal frastuono del mondo, / di naufragare cerco / nel silenzio / della primitiva natura”: un silenzio invocato come un fratello, perché con la liberazione sa suscitare una grande “silente catarsi”. E al tema dell’annullamento il poeta ritorna quando scrive che perfino la pioggia “annulla e porta via / la nostra povera nullità”.

Accanto al silenzio un posto considerevole occupa il tempo, il quale è visto ora come “cavallo impalpabile”, violento e distruttore, ora come ciò “in cui / il presente e il divenire / si fondono / in un breve pulsare / di vita”, ora come immoto ed eterno; ed in mezzo alla nebbia “nell’aria smagata / il poeta è tutt’uno / con il Tempo”.

Al tempo s’affianca il vento, che a volte è come fresca brezza che culla e carezza, a volte è impetuoso, travolgente e transitorio, inserendosi bene con le sue qualità nella metafora della vita.

Il poeta sa anche scherzare in rima, guardare all’esterno e apprezzare quanto la natura offre di bello: cielo, stelle, paesaggio, colori, profumi. Un verde prato si configura come un’oasi di felicità, specie di campi elisi, e un rivo può celare un prezioso aldilà da scoprire: “tutto sta inscritto nell’istante vivo / da cogliere prezioso / al di là del tuo rivo”.

Nella raccolta ci sono bei quadretti paesistici, scene di caccia, elogio e ricerca dell’amicizia, naturali aneliti e speranze d’amore, religiosità: quest’ultima è anche ricordo di tradizionali festività come il Natale, ma soprattutto profonda convinzione e pratica, ricerca di purezza, àncora di salvezza in chi come un cero si consuma e purifica. Perciò su “tutto domina la serenità, che è rassegnazione e speranza di pace.

Per quanto riguarda la forma, queste liriche s’avvalgono d’una tecnica matura ed esperta: ogni cosa è al posto giusto. Sono presenti varie figure retoriche come anafore, metafore, iperbati, ellissi, che unite a rime, assonanze, metrica, ritmo e musicalità danno l’impressione di notevole capacità stilistica. A volte le parole sembrano sussurrate e s’insinuano dolcemente nel lettore, molcendone l’anima, come se per modestia il poeta volesse entrare in punta di piedi nel nostro mondo e dire sommessamente la sua, senza essere invadente; a volte esse sono isolate nel verso, per creare un opportuno risalto; a volte il verso stesso ha una diversa collocazione rispetto agli altri, quasi a richiamare l’attenzione del lettore. Allora si nota che la poesia sta nelle sospensioni, in ciò ch’è detto e in ciò che è sottinteso.

In conclusione, quella di Giovanni Buffo è una poesia che sa elevarsi fino a diventare palpito d’infinito, grazie ad una straordinaria ricchezza interiore, al profondo sentire e alla particolare tecnica.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona, lug.-dic. 2002]

Giovanni Buffo, Sillabario del nuovo giorno, Lorenzo, Torino, 2004, pagg. 64, € 10.

PREFAZIONE

Questa nuova raccolta di liriche conferma la vocazione poetica di Giovanni Buffo fortemente motivata e ormai collaudata. Già dalle prime composizioni risaltano le caratteristiche principali, che sono l’interesse per l’osservazione della natura anche nei suoi elementi apparentemente insignificanti (ma che per il poeta assumono grande significato) e la ricerca d’effetti grafo-fonici quali l’andare a capo o a metà del verso secondo i casi e il ricercare assonanze e rime a mezzo, in un quadro generale di serenità.

Così ci scorrono davanti aironi, passeri, rondini, cicale, lucertole, come pure piante e fiori, in un contesto di voli, guizzi, cinguettii e colori, che esprimono la felicità della natura e del vivere in essa, non solo di quegli esseri ma anche dello stesso poeta. E ogni aspetto della natura ha il suo fascino dovuto alla bontà della creazione: le varie stagioni, fredde o calde che siano, e le varie fasi del giorno e della notte, luminose o buie che siano. Il poeta sa cogliere la magia della pioggia, della neve e della nebbia, come quella del rifiorire della natura e dell’imperversare della calura estiva; anzi accetta con pacatezza le une come foriere delle altre, in un ciclo vitale stabilito da Dio. Per lui l’autunno sa spegnersi senza infondere malinconia, data la certezza di nuovi colori e di nuova vita che esso prepara. Perciò egli sente la solennità della campagna in tutti i suoi momenti, compresa la vita domestica fatta dei semplici gesti delle contadine, ringrazia Dio quando assaggia la prima ciliegia dell’anno, maturata “per addolcir la vita”, e avverte il mistero della vita protesa verso l’infinito, “freccia scoccata da Invisibile Mano”.

In questo mondo poetico le scene paesaggistiche spesso assumono le connotazioni di tenui acquerelli: è il caso del binomio sera-luna in un canto quasi leopardiano-dannunziano, ma vivificato dall’attesa cristiana dell’angelo custode; del fiume Livenza che si risveglia placido e vitale; della caduta della neve, in cui sapientemente s’insinuano fascino, mistero, dubbio, sospensione; di pioggia-neve-nebbia che danno salutari effetti fisici e spirituali, facendo sognare mentre si cammina; dell’alba che sorprende e stupisce per l’inizio d’un nuovo giorno, con echi quasimodiani per le fronde dei salici, e costituisce un “sillabario del nuovo giorno” per la condotta della propria vita. Ma c’è anche la scena estiva con giochi di luci e di suoni, apportatrice d’una calma antica che poi è serenità.

Il tramonto è tratteggiato con colori, sensazioni, ansie. Nella sua “fame di natura” il poeta, ammirando l’orizzonte della sera estiva, evoca il mito della sua lontana fanciullezza; e nella sera invernale coglie il mistero di certe “lame bianche in riflessi metallici”: mistero affascinante, perché “più non ci è dato sapere / nei soliti giri astrali / nei brevi sogni dell’ora / dove ci porterà il domani” e perché esiste il fato e “a noi non rimane / che il vivo attendere, / il vigilare”.

In questa raccolta non mancano inoltre delicate liriche rivolte agli affetti e all’amicizia, della quale il poeta sottolinea la sacralità quand’essa è vera.

Quello che Giovanni Buffo delinea in questo Sillabario del nuovo giorno è dunque un sogno di vita, di salute, d’amore, con dolci risonanze prodotte dai riverberi della sua anima. Nella raccolta ci sono sì i misteri dell’impenetrabile, ma senza pregnanza filosofica; anzi l’affabulazione trasporta il lettore in un mondo di magia e di serenità, gratificandolo con musicalità, ritmo, anafore, giochi di rime e assonanze, e creando una benefica atmosfera d’incanto e di stupore, grazie anche ai sommessi echi di nostri grandi autori, introdotti delicatamente per non appesantire e stancare.

Questa raccolta comprende quaranta composizioni, le quali sono sufficienti a costituire da una parte un ventaglio d’esperienze e d’emozioni e dall’altra un valido profilo attitudinale del poeta. Certamente in essa si palesano spunti che ci fanno lungamente riflettere, quand’egli accenna al suo particolare stato esistenziale; ma questo tema è appena sfiorato, nella pudica consapevolezza di non voler arrecare turbamento al lettore: il quale anche per questa squisita sensibilità, oltre all’apprezzamento, gli rivolge un sentito e grato pensiero.

Carmelo Ciccia

[Giovanni Buffo, Sillabario del nuovo giorno, Lorenzo, Torino, 2004, pagg. 64, euro 10]


Giovanni Buffo, Colorati sogni, Tipse, Vittorio Veneto, 2002, pagg. 70, s. p.; e Sillabario del nuovo giorno, Lorenzo, Torino, 2004, pagg. 64, € 10.

LA POESIA DI GIOVANNI BUFFO

La poesia di Giovanni Buffo appartiene alle più alte creazioni dello spirito. Già l’incipit della lirica “Sillabario del nuovo giorno”, che dà il titolo all’omonima raccolta, è di quelli che non possono passare inosservati: “Avvenga che la nuova alba / si tinga di velluto dorato, ampia distesa: / ricopra a raggi di pulviscolo d’oro / la terra, l’erba e tutta la natura in cerchio.” Qui il sintagma “avvenga che” non è concessivo, come nell’uso antico (ad esempio, in Dante, Purg. III 1), ma ottativo, ad esprimere il desiderio più grande dell’autore: quello d’un’immersione nella natura e d’una piena comunione con essa.

Il poeta coglie nel paesaggio non soltanto l’aspetto esteriore, quale paradigma di bellezza, ma anche il prodotto della sapienza del Creatore, che ha posto l’uomo fra le creature, non come centro dell’universo, ma come piccolo elemento d’esso: fragile, vulnerabile, effimero. Egli sa accettare la volontà di Dio e cerca d’inculcarla negli altri; perciò la sua poesia, permeata anche d’amore per il prossimo, assume il valore d’un elevato messaggio, che non è soltanto tecnico-estetico, ma anche di coinvolgimento, in quanto che tende a fare riscoprire al lettore il vero senso dell’esistenza umana. Ecco perché egli auspica che un’alba così maestosa, bella ed istruttiva nello stesso tempo, possa costituire il “sillabario d’un nuovo giorno” per la condotta della propria vita. E come ogni sillabario i testi di questo poeta andrebbero tenuti sul comodino, perché all’occorrenza possano diventare dei vademecum.

Certo la sua non vuole essere deliberatamente una poesia gnomica: ma ogni vero poeta non può non esprimere — per sé stesso e per gli altri — motivi di riflessione, che a volte investono i fondamenti dell’esistenza stessa. Perciò l’aspetto didascalico si concentra in versi finali, brevi o brevissimi come lampi: “l’infinito fermarsi / d’un attimo d’eternità”, “Quintessenza d’infinito / il cielo”, “Sorprendere il mare / nei suoi respiri”. La riflessione del poeta riguarda il silenzio, il tempo, il vento, la bellezza, l’amicizia, la religione: e a volte diventa meditazione, speculazione, un “navigare con i pensieri”, che esprime il rovello di chi vuole affrontare la vita con piena consapevolezza e non con superficialità.

Quello che il poeta delinea è un sogno di vita, di salute, d’amore, con dolci risonanze prodotte dai riverberi della sua anima. Nella sua poesia, che per la sua valenza si fa leggere e rileggere sempre con maggior piacere, ci sono sì i misteri dell’impenetrabile, ma senza pregnanza filosofica; anzi l’affabulazione trasporta il lettore in un mondo di magia e di serenità, gratificandolo con musicalità, ritmo, anafore, giochi di rime e assonanze, e creando una benefica atmosfera d’incanto e di stupore, grazie anche ai sommessi echi di grandi autori (Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Quasimodo, Rilke, ecc.), introdotti delicatamente per non appesantire e stancare. E qualche espressione ermetica invita il lettore ad interagire nel significato da dare.

Giovanni Buffo, nato a Sacile (PN) nel 1967 e ivi residente, si è formato da autodidatta alla dura scuola della sofferenza. Finora ha pubblicato due corpose raccolte di liriche, che hanno riscosso notevole successo: Colorati sogni (Tipse, Vittorio Veneto, 2002) e Sillabario del nuovo giorno (Lorenzo, Torino, 2004). È bibliotecario parrocchiale e cura una trasmissione di poesia per un’emittente radiofonica diocesana. Collabora ad alcune riviste e ha ottenuto diversi significativi riconoscimenti. Certamente è un poeta che merita un posto di rilievo nel panorama letterario del nostro secolo.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 19.XI.2005]


Titti Burigana, La zattera dei desideri, Lithostampa, Pasian di Prato, 2008, pagg. 144, € 10.

Dopo aver pubblicato con successo il libro Pensieri in libertà (2005), Titti (Maria Battistina) Burigana offre ai lettori questo nuovo libro dalla bella copertina (foto della sorella Lia), il cui titolo è quello d’uno dei racconti autobiografici qui raccolti, nel quale viene rievocata un’imprudenza occorsa a lei e alle sue sorelline su un’improvvisata zattera che per poco non le fece annegare nella conca d’un prato allagato. Quest’episodio basta a dirci il contenuto e l’impostazione dell’intero libro: memorie personali e familiari, paesaggi ora incantevoli ora “infernali” (nel senso dantesco), guerre, povertà, sacrifici, soddisfazioni, moniti.

La Burigana, appartenente ad una famiglia d’insegnanti e lei stessa maestra elementare ora in pensione che tiene una rubrica scolastica in una radio diocesana, rievoca la sua famiglia e l’intera sua vita: gioie, amarezze, difficoltà, speranze; dall’infanzia in un paesetto della provincia udinese al diploma in un istituto di Sacile, all’insegnamento in varie scuole, prima in paesi fra le montagne friulane (dove non c’erano corriere e il gabinetto mancava in casa, perché esso posto in un campo e usato in comune; e per andarci bisognava o fare il giro del paese o scavalcare una finestra posteriore della casa) e poi in paesi della provincia trevisana. E nel raccontare ha sempre qualcosa da insegnare, qualche avvertimento da dare alle nuove generazioni e all’intera società d’oggi: dai principi religiosi, morali e altruistici (solidarietà e condivisione) ricevuti dai genitori, alle nefandezze della guerra, alla severità della scuola d’una volta e alla consapevolezza d’aver compiuto al meglio il suo dovere.

La serie dei racconti comincia con l’arrivo di Titti “alle soglie della scuola media” (per dirlo col titolo d’un diffuso libro di preparazione a quegli esami): quella d’una volta era una scuola irta di difficoltà, a cominciare dai voti che andavano dallo zero al sette, massimo all'otto, perché — come sosteneva un docente di lei — il nove si dava ai filosofi e il dieci a Dio. C’era poi da parte degl’insegnanti la sottolineatura degli errori con la matita rossa (detrazione di mezzo punto) e blu (detrazione d’un punto) e il vezzo di rivolgersi agli alunni con appellativi offensivi (“galline spennacchiate nell’aia sporca e immonda”). E nelle scuole elementari le classi erano composte di 40-50 alunni ciascuna.

Nella rassegna dei ricordi affiorano ora vicende tristi (quali il dover andare a scuola in bicicletta su lunghe strade non asfaltate, sotto tutte le intemperie e senza adeguato vestiario, la commovente morte d’uno stimato alunno e la forma delle pagelle, nel cui frontespizio per i figli d’ignoti spiccava la discriminante sigla “N. N.”) ora vicende liete (quali le marachelle, le gite al mare e in montagna, le sabbiature che trasformavano la spiaggia in un sepolcreto, il cinema all’aperto coi film visti di straforo, la prima sigaretta, il juke-box, la scoperta del ballo e dell’amore). L’amore vissuto dall’autrice a diciott’anni è durato soltanto una stagione, ma è stato esaltante e più che sufficiente a segnare la sua vita con un ricordo indelebile per la sua unicità.

Ricordando i genitori, l’autrice ci presenta non soltanto i sani insegnamenti ed esempi ricevuti, ma anche i periodi delle due guerre mondiali, della Resistenza e della guerra civile. Ci sono gli orrori dei morti e feriti della ritirata di Caporetto abbandonati lungo i fossati e quelli dei fucilati o degl’impiccati dai tedeschi. Eppure di qualche tedesco l’autrice riesce a conservare un buon ricordo, pensando a quell’ufficiale installatosi col suo ufficio in casa Burigana, il quale aveva un gentile comportamento con la famiglia ospitante e delicati gesti per la piccola Titti e per le sue sorelle, tutte da lui definite “amiche”.

Non mancano una caleidoscopica descrizione della sagra paesana e scenette finali di buonumore, comprese certe battute degli scolari, dall’autrice raccolte e riportate. Ogni racconto si conclude con la data, a mo’ di diario; e quale intervallo fra un racconto e l’altro ci sono delle liriche (qualcuna anche delle sorelle Sara e Lia), che quasi commentano i racconti stessi, facendo sì che a volte il libro sembri scritto a più mani. E alla fine del lavoro l’autrice pone, oltre ai ringraziamenti (anche per il poeta Giovanni Buffo, il cui Sillabario del nuovo giorno è stato pubblicato da Lorenzo Editore di Torino nel 2004), anche i saluti e abbracci per i lettori, visti come amici e confidenti.

Quella della Burigana è una narrativa leggera, spesso vivace, allegra, ironica e briosa, che trova ampio respiro nell’attenzione alle persone e al paesaggio e che si legge volentieri anche per la sua scorrevolezza, avvincendo i lettori. Poche frasi in dialetto (opportunamente tradotte in italiano) bastano a dare un tocco di colore locale. Ma un discorso a parte meritano le liriche qui incluse, le quali — se riunite — costituirebbero una validissima silloge. In esse, oltre che quadretti paesaggistici con vari colori e profumi, c’è una studiata architettura che a volte produce una poesia visiva e che ad ogni modo si sostanzia in espedienti tecnici d’alto livello: intelligente strutturazione dei versi, ritmo e musicalità, anafore, rime (anche interne), epifonemi. Insomma si tratta d’una poesia ben congegnata, ricca d’afflato lirico e di pensieri profondi. A dimostrazione di ciò, basta qualche citazione: “Impaziente e urgente / l’affannoso cercare: / quel ‘quid’ mai raggiunto / non si lascia trovare.” (pag. 134).

Il libro contiene anche varie foto d’epoca in bianconero, che ci riportano indietro negli anni e si dimostrano opportune per la visitazione o rivisitazione di paesaggi, persone, costumi.

Per quanto riguarda la forma, a parte l’enfasi delle maiuscole indebite e la presenza di qualche refuso o svista, per il resto essa è molto curata nella punteggiatura e nel periodare. Notevole in positivo è il fatto che l’autrice giustamente scrive le parole latine e quelle straniere (salvo computer) chiuse tra virgolette; e ciò in controtendenza rispetto al generale menefreghismo linguistico d’oggi, che sta imbastardendo la lingua italiana.

Alla resa dei conti il libro La zattera dei desideri di Titti Burigana si rivela utile alle scuole, alle biblioteche e a tutti quei lettori che vogliano accostarsi ad un’opera rilassante e istruttiva.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 3/2009]


Titti Burigana, Sara, Lithostampa, Pasian di Prato, 2010, pp. 140, s. p.

“Sara” di Titti Burigana a più mani

Rievocazione del mondo circostante: genitori, sorelle, scuola, paese, regione…

Titti Burigana appartiene ad una famiglia d’insegnanti-scrittori: ha pubblicato alcune opere e conduce una trasmissione radiofonica. Il libro “Sara” (Lithostampa, Pasian di Prato, 2010, pp. 140, s. p.), che in copertina reca una bella fotografia scattata dalla sorella Lia, vorrebb’essere un’esaltazione della sorella Sara, maestra, professoressa e preside morta a Roma nel 1997, ma in realtà sconfina nella rievocazione di tutto il mondo a lei circostante: genitori, sorelle, scuola, paese, regione… La descrizione parte da prima della seconda guerra mondiale e continua con la guerra stessa, sottolineando la difficoltà, la miseria, l’ignoranza, la ricostruzione, il benessere.

Nei primi anni di questa narrazione molti bambini patiscono la fame e sono talmente sfiniti che si mettono a dormire per non accorgersene ovvero si consolano sentendo il brontolio dello stomaco e fanno a gara a chi sente più brontolii, per questo vincendo qualcosa, ovvero sono costretti a rubare per assicurarsi il pane quotidiano.

E sono anni d’educazione molto severa: in classe ci sono sessanta alunni e se qualcuno parla in dialetto il genitore gli dà uno schiaffo, avvertendolo che così parlando in seguito stenterà a parlare in italiano. Infatti allora l’educazione prevedeva abitualmente bacchettate e bastonate, ceffoni, calci e pugni, mentre erano scarse lodi e carezze e assenti le moine, in un sistema che era considerato del tutto normale e che non produceva vizi e capricci come droghe, sballi e simili. E la volontà dei genitori era sacra e inviolabile: ad esempio, questi potevano proibire alle figlie d’andare a studiare in altra località per non farle viaggiare in corriera.

Tutto ciò ed altro è narrato in questo libro, sulla cui copertina l’autrice risulta essere Titti Burigana, ma alla fine lei confessa che il libro è stato scritto anche da sua sorella Lia; e, visto che vi sono anche brani della sorella Sara e d’altri autori, il libro si può considerare scritto a più mani. Perciò, fra le presentazioni fatte da Titti e le firme che ora ci sono e ora non ci sono, non è facile identificare i singoli autori dei brani: i quali, precedentemente scritti con funzione autonoma e ora inclusi in questo libro, non sempre sono ben amalgamati tra di loro. In definitiva si tratta di colloqui con la defunta, lettere, appunti, schizzi, testimonianze, memorie e pagine diaristiche con relative date. E alla fine si ricava l’impressione che il libro, alcuni brani del quale erano stati già pubblicati in un precedente libro della stessa autrice, abbia più un valore affettivo che uno letterario, anche se — oltre alle belle fotografie — esso si correda di composizioni in versi, che a volte sono prosastiche, mentre certe pagine di prosa sono poetiche.

Freschi ed interessanti risultano alcune pagine relative non soltanto alla defunta, ma anche ad altri personaggi ed episodi: la famiglia, la fame, il bombardamento aereo, il mercato nero, una tipica maestra zitella, le supplenze dei primi anni in sperdute località, il rapporto con gli alunni e i colleghi, l’arrivo della televisione, il terremoto… E a volte l’autrice inserisce delle massime che vivificano l’intento didascalico, come ad esempio: “Le parole danno un sapore alla vita, altre volte la uccidono.” (p. 39)

Per quanto riguarda la forma, premesso che non si spiegano le virgolette del titolo di copertina “Sara”, si nota che tali virgolette a volte sono aperte e non chiuse (pp. 33 e 79) e che è impreciso l’uso della virgola, la quale di solito manca prima della congiunzione ma, mentre è messa dopo d’essa. L’autrice, poi, usa enfaticamente l’iniziale maiuscola per i titoli personali, e così si ha tutta una serie di Direttore/Direttrice, Dottoressa, Insegnante, Maestra/o, Professore/Professoressa, Preside, Presidente, Suoceri, Suora, Zie… Nell’introduzione della sorella Lia la rivista “Talento” è detta “Talenti” e la recensione ivi apparsa e relativa ad un libro precedente è manipolata: le frasi non hanno la stessa successione che nella rivista, vi sono modifiche, v’è aggiunta qualche parola e ci sono anche un paio d’errori che i lettori potrebbero attribuire all’autore della recensione anziché all’autrice dell’introduzione. Mentre positiva appare la traduzione in italiano delle espressioni dialettali, le parole straniere non sempre sono messe tra virgolette o in corsivo, inutili appaiono le barrette all’inizio di certi versi, ci sono delle ellissi e nella scrittura a volte si va dal passato remoto al passato prossimo. Infine altre sviste sono: II° (p. 42), Bilione (p. 42), Ha, haa, haaah (p. 45), così tanta (p. 81) e San Odorico (p. 115 e altrove); mentre non è buon italiano pagnocca (p. 86).

Con tutto ciò il libro “Sara”, il cui periodare è complessivamente chiaro, scorrevole e a volte ironico e brioso, può riuscire gradevole e utile in ambito scolastico.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, ott.-nov. 2010]


Giorgina Busca Gernetti, Onda per onda, Edizioni del Leone, Spinea, 2007, pagg. 56, € 8.

“Onda per onda” di Giorgina Busca Gernetti

Il mare, sogno e rimpianto dell’infanzia lontana e favolosa

Il libretto Onda per onda (Edizioni del Leone, Spinea, 2007, pp. 56, € 8) della lombarda Giorgina Busca Gernetti, esplosa come poetessa nel 1998 dopo una vita dedicata all’insegnamento d’italiano e latino al liceo classico, contiene una scelta di liriche ispirate al mare e al suo ambiente, già pubblicate — oltre che in una rivista — in quattro più voluminose sillogi (tutte edite da Genesi, Torino), che qui praticamente si rispecchiano e sintetizzano: Asfodeli (1998), La luna e la memoria (2000), Ombra della sera (2002) e Parole d’ombraluce (2006).

La decisione di questa ripubblicazione è giustificata dalla stessa autrice con l’amore per il mare e per la poesia ad esso ispirata da parte del poeta Carlo Michelstaedter (Gorizia 1887-1910), del quale in apertura riporta alcuni emblematici versi inizianti proprio con le parole “Onda per onda” di questo titolo. E leggendo quest’opera (che in copertina reca una Tempesta di Claude Monet e nel contesto la prefazione di Paolo Ruffilli e la postfazione di Pierangelo Rocchi) si possono avere saggi dell’intera produzione dell’autrice, tenendo conto anche delle successive pubblicazioni: la silloge di liriche L’anima e il lago (Pomezia--notizie, Pomezia, 2010) e quella di racconti Sette storie al femminile (nel volume collettaneo Dedalus, Puntoacapo, Novi Ligure, 2011).

Nella poesia della Busca Gernetti il mare si configura anzitutto come rimpianto dell’infanzia, lontana e favolosa età in cui lei ha visto per la prima volta questo regno del sogno e del mito: “pochi anni felici / tra una guerra feroce / e la scoperta / amara della vita” (p. 22). Ma molte altre sensazioni e riflessioni accompagnano il girovagare dell’autrice: quando il mare è placato e calmo, immensità/infinità, geografia e storia, colori, odori, pace, rilassamento, acquietamento delle proprie ansie, vita; quand’è agitato e rabbioso, turbolenza, inquietudine, sofferenza, pericolo, senso del proprio limite, sconfitta, morte. E dopo la morte c’è il nulla: infatti a volte la luna amica getta un ponte d’argento sul mare fino all’orizzonte e all’autrice piacerebbe andare lontano “verso il Nulla, nel Nulla / assoluto, eterno, infinito…” (p. 20).

La sabbia scivola veloce dalle mani come la vita, anche se l’estate può dare l’illusione dell’eternità; e, se talora all’alba sul mare svaniscono i mostri notturni della coscienza, talaltra l’autrice avverte il tormento dell’esserci, una sofferenza riflessa nelle cose in cui s’imbatte: una conchiglia rimasta sulla sabbia, un pino contorto, un ippocampo agonizzante sotto il sole a picco. E, se i gabbiani dominatori del mare “ignorano l’angoscia / e volano appagati d’infinito” (p. 36), l’autrice incontra anche le diomedee, che a ricordo dell’eroe da cui prendono il nome gridano in modo straziante.

Naturalmente il mare è veicolo di civiltà e vuol dire anche coste, località e paesaggi. I tremuli paesaggi marini nella delineazione poetica della Busca Gernetti spesso assomigliano a certi quadretti di tenui acquerelli: e, se a volte le zone sono anonime, caratterizzate soltanto o da vecchie case corrose o da spiagge e abitazioni eleganti, a volte invece esse hanno precisi nomi, che sono Cinque Terre, Versilia, Argentario, Isola del Giglio (dove “forse si sfaldano le pene“), Isole Tremiti, Gargano, necropoli di Merinum, Riace, Reggio di Calabria, Messina, Tindari… Nel mare Jonio i pesci danzano, guizzando festanti, mentre i tormenti della poetessa s’acquietano, e lei si sente “una creatura marina” (p. 42), anche se sullo Stretto non riesce a percepire il miraggio della Fata Morgana, come se questa volesse celarglielo tra brume celtiche.

L’espressione linguistica della Busca Gernetti non soltanto è del tutto corretta, ma si può definire perfetta. L’autrice, rispettosa di tutte le norme grammaticali, è molto attenta alla punteggiatura e agli accenti, che ai fini d’un’esatta pronuncia troviamo segnati anche là dove non ce li saremmo aspettati. E, fra tante stramberie dilaganti nel panorama letterario, lei produce dei testi esemplari, confermando il suo ruolo d’insegnante tanto nel lavoro quanto nell’arte. Nelle sue composizioni c’è poi una sottesa musicalità, che spesso attinge all’endecasillabo; e non mancano espedienti diversi, come la posizione dei vocaboli, rime, assonanze e altro: ad esempio, lo scarto in “serena, / la sera”, dove sera è la riduzione di serena, e il chiasmo di “tra i fitti… / fra i timi”, in cui le iniziali t e f s’alternano (p. 37 ).

Soprattutto la sua forma espressiva riecheggia tanti scrittori, con cui l’autrice instaura comunanza artistica e personale intesa, e che — anche quando non siano espressamente nominati — vivificano le liriche con espressioni divenute familiari, dimostrando che la poesia vive ab aeterno: “domator di cavalli” (Omero/Monti, Omero/Pindemonte, Virgilio/Caro, Tasso, D’Annunzio); “il tremolar della marina” (Dante, Boiardo, Trìssino, Tasso, D’Annunzio); “lontanando” (Bembo, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio); “tamerici salmastre”, “ascolta, ascolta. / Odi se mai parole umane” e “falce dorata… falce d’oro” (D’Annunzio); “la gran quiete marina” (Cardarelli); “sono creatura” (Ungaretti); “ossi di seppia” (Montale); “Il vento di Tindari” (Quasimodo).

Inoltre, a causa della sua formazione l’autrice fa tanti rimandi alla mitologia: Odisseo/Ulisse, Enea, Giàsone e gli Argonauti, Diomede, Alcyòne e Ceìce, Èrebo, Aurora dalle dita di rosa, il cocchio dell’Aurora, Selène, Afrodite/Anadiomène, Scilla, Cariddi, il regno ventoso di Eolo… E a questo vento profondo la poetessa chiede di rapirla e abbandonarla all’armonia della natura, in modo da diventare un tutt’uno con essa.

Nel girovagare in cerca d’esperienze ed emozioni, data la sua cultura classica, la poetessa si trova più a suo agio in quelle regioni in cui s’è sviluppata la civiltà dell’Occidente. Perciò riceve un grande appagamento spirituale in Magna Grecia e in Sicilia, toccando con mano le reliquie di quella civiltà.

Quanto alla sua passione per la Sicilia, basti pensare che la lirica “Il vento di Tindari” nel precedente libro Ombra della sera (così intitolato da una statuetta ex voto del sec. III a. C. conservata al museo etrusco di Volterra, la cui denominazione è attribuita al D’Annunzio) apre la sezione Elegie sicane, il cui titolo riecheggia le Elegie romane del Goethe tradotte dal Pirandello, le Elegie romane del D’Annunzio e le Elegie renane dello stesso Pirandello. Questa sezione è introdotta da due versi della lirica “Terra” del Quasimodo (inclusa nella raccolta Ed è subito sera e riferita al mare) e comprende fra l’altro anche le liriche “Siracusa”, “Agrigento”, “Selinunte” e “Segesta”, dedicate a località sacre alla cultura classica di cui lei ricorda teatri greci, templi, colonne, telamoni e l’intera civiltà greco-sicula. C’è anche la lirica intitolata Pantocrátor, dedicata al Cristo del duomo di Monreale, ieratica figura presente pure in altre chiese, fra cui la cappella palatina di Palermo e il duomo di Cefalù. Nella lirica “Melanconia (in volo da Punta Raisi)” poi scrive: “Ero felice nel sole e nel vento / della terra sicana, tra le colonne doriche corrose / dal tempo, spezzate e riverse / in luoghi arcani cinti di silenzio, / di serena bellezza ancora pregni”; e la sua anima “rimpiange l’ineffabile gioia / di quegli attimi simili all’eterno”. Infine nella lirica “Lettera a un amico sicano”, che chiude la sezione stessa, scrive che la voce dell’amico lontano è “quasi raggio di quel sole / sicano, voce di forza e di luce”.

La Sicilia ritorna ancora nelle successive Sette storie al femminile, le quali, oltre al pregio della correttezza formale, rivelano la delicatezza d’una vera poetessa che sa scandagliare sentimenti e costruire vicende coinvolgenti: in “Via Pirandello”, narrando una strana avventura (pirandelliana di nome e di fatto), l’autrice ricorda questa ripida e tortuosa strada che dal mare porta al centro di Taormina e al suo teatro greco, in un panorama mozzafiato; e in “Miraggio a Segesta” sa ripescare il mito e abilmente trasformarlo in miraggio.

Per concludere, la scrittura creativa di Giorgina Busca Gernetti eccelle per il senso di precarietà ch’esprime, per l’assoluta correttezza formale e per gli elementi di cultura classica che la permeano, facendo sì che l’autrice possa essere considerata una delle voci più significative della nostra poesia e un punto di riferimento per altri scrittori. Il che è dimostrato anche dai molti primi premi e altri riconoscimenti da lei ricevuti nonché dalle motivazioni dei premi stessi e dagli apprezzamenti di vari critici che si leggono nei suoi libri.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, marzo-apr. 2012]


Salvatore Calleri, Parole per mio figlio, Comune di Furci Siculo, 2000, pagg. 80, s. p.

PAROLE D’UN PADRE PER UN FIGLIO PERDUTO

Una “Pietà” raffigurata sulla copertina opportunamente guida il lettore nella lettura di questo libro di versi di Salvatore Calleri intitolato Parole per mio figlio (Comune di Furci Siculo, 2000, pagg. 80, s. p.): il Cristo vi è ritratto nello sfacelo della morte, con quell’atteggiamento d’abbandono che si affida proprio alla pietà degli uomini, perché il sacrificio, divino e umano nel contempo, sia foriero di doni spirituali.

La morte d’un figlio è peggiore della propria: il figlio è stato prefigurato fin da prima della nascita, amorosamente seguito nell’esistenza, inteso come proiezione di sé nel futuro, cioè nell’immortalità. Il dolore per la morte d’un figlio è certamente più grande di quello per la morte d’un genitore: costui ha in qualche misura raggiunto una linea progettuale, mentre il figlio, quand’è vivo il genitore, ha tutto davanti a sé e quindi un’aspettativa di vita almeno superiore a quella del genitore stesso, dovendo per legge di natura sopravvivere a lui.

A distanza di vari anni l’immane tragedia della perdita d’un figlio, stroncato sulla strada nel fiore degli anni da un incidente automobilistico, è sempre presente nel cuore d’un padre: il dolore è troppo grande, anzi col tempo si riacutizza, e soltanto nella fede può trovare comprensione e rassegnazione. E se il padre così duramente colpito è un uomo di grande cultura, come Salvatore Calleri, allora il dolore si fa più pungente, perché più sensibile è l’animo delle persone colte, cioè di quelle che continuamente coltivano lo spirito, aprendo la mente ai misteri del cosmo.

Che cosa può scrivere di questa tragedia chi per una vita ha lavorato con la parola e sulla parola, se non parole? E così è nato questo libro che ha la prefazione d’Antonio Piromalli e la postfazione di Francesco Alberto Giunta, due altri grandi autori che, più che mallevadori d’arte, qui assumono il ruolo di testimoni e sostenitori morali.

Nell’intenzione dell’autore queste parole non vogliono neanche avere pretese artistiche, perché quello che conta è lo strazio ch’esprimono; ma è chiaro che se quest’espressione proviene da chi sa forgiare le parole stesse, allora dal dolore può nascere un’opera d’arte. E qui siamo in presenza d’un epicedio in cui, ripercorrendo l’itinerario esistenziale del defunto a volte col ricordo d’episodi di cronaca spicciola oltre che con quelli della cruda realtà, la sincerità e il trasporto affettivo stanno in primo piano e conferiscono al lavoro anche qualità artistiche, oltre che di dignitosa confessione.

Alle parole segue una parte intitolata Piccola “Suite” per Giuliano, che comprende una quindicina di liriche di vari periodi, le quali hanno per oggetto e canto sempre il figlio perduto, ma pur nella vivezza del dolore riescono a sublimarsi nella fede, che viene a configurarsi come un’àncora di salvezza, e perciò sembrano meglio riuscite. È il caso di “Un altro Natale / senza di te...”, “Come fiore purpureo / reciso...”, “E mi apparirai ancora...” e “Contemplazione della morte”.

Nella sua profonda sofferenza il Calleri sa cogliere e fissare immagini pittoresche come quelle di rosee albe e fiammanti tramonti, voli di gabbiani e mormorio d’onde sulle spiagge: ma tutto contribuisce alla malinconia del poeta, che solo nella speranza cristiana della propria e altrui resurrezione trova lenimento.

Il libro si conclude con un’”epistola-preghiera” a Giuliano, dallo stesso autore definita “insolita”, con una commemorazione giornalistica corredata della fotografia del giovane e con una nota bio-bibliografica dell’autore.

In tutti questi scritti è la grande fede che emerge, quella fede che ci fa ricordare che da ogni morte deve sbocciare una vita, altro scopo a cui dedicarci, come il Cristo stesso della “Pietà” raffigurata in copertina poco prima di morire aveva insegnato affidando alla madre Maria l’apostolo Giovanni come nuovo figlio su cui far convergere il suo amore materno.

Il libro è chiaro nel dettato e scorrevole nella forma, rinunciando ad elucubrazioni e sperimentalismi vari. E a lettura finita non si può non ringraziare l’autore per le opportune riflessioni che sa suscitare, esprimendogli anche la propria solidarietà con una calorosa stretta di mano.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.V.2001]


Salvatore Calleri, Giuseppe Mazzini e la Roma del popolo / La repubblica romana del 1849, Messinatype, Messina, pagg. 216, € 15,49.

MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849 IN UNO STUDIO DI SALVATORE CALLERI

Salvatore Calleri è uno studioso siculo-romano di grande serietà e competenza, il quale ha al suo attivo una lunga attività scrittoria, particolarmente nel campo della ricerca storica, in cui si è già distinto per un altro saggio sul Mazzini pubblicato in occasione del centenario dell’unità d’Italia.

Il suo recente volume Giuseppe Mazzini e la Roma del popolo / La repubblica romana del 1849 (Messinatype, Messina, pagg. 216, euro 15,49) può dividersi in due parti: la prima comprende una serie di saggi, suffragata da una ricca citazione di fonti, e la seconda raccoglie una serie di documenti d’epoca, spesso in ristampa anastatica che li rende più suggestivi e coinvolgenti.

I saggi riguardano la situazione italiana, e romana in particolare, all’indomani della Restaurazione, la nascita della repubblica romana, la sua costituzione, la sua breve durata e la sua caduta, la diaspora dei repubblicani, la stampa e il processo di laicizzazione, il problema religioso e la questione sociale nel Mazzini, le autonomie locali.

Con dovizia di particolari l’autore mette in evidenza la lunga aspirazione dei romani a liberarsi dal potere temporale dei papi nella convinzione che ciò avrebbe fatto bene al popolo e alla Chiesa, in quanto che il papa senza di quel potere avrebbe potuto dedicarsi meglio alle cose spirituali. Premesso che a voler ciò non erano soltanto intellettuali o benestanti, ma anche il popolo minuto in tutte le sue espressioni sociali, l’autore sottolinea il contributo d’idee e di sangue dato da molti italiani, anche d’altre regioni, alla realizzazione di tale progetto: è il caso di personaggi quali Garibaldi, Mameli, Dandolo, Manara, ecc. E di alcuni di loro, come per esempio del Mameli, l’autore traccia appassionati profili, che evidenziano la grandezza del sacrificio compiuto fino alla morte.

E per smentire quanti per denigrazione hanno cercato di sminuirne la portata affermando che quella romana fosse una rivoluzione aristocratica, voluta da intellettuali e imposta dall’alto, il Calleri riporta una testimonianza personale di Francesco Dall’Ongaro, lo scrittore e patriota veneto passato a difendere le libere istituzioni di Roma nel 1849, dopo aver difeso quelle di Venezia nel 1848. Questi fu incaricato di registrare i nominativi di quanti — dentro e fuori dei territori pontifici — dichiaravano di aderire e voler sostenere la repubblica romana. In quell’occasione il poeta veneto attestò che i sostenitori non solo erano numerosissimi, ma anche erano di tutte le condizioni ed in massima parte umili, fra cui molte donne: una cosa — questa presenza di tante donne nei registri — sicuramente rappresentativa della popolarità della repubblica romana.

A ciò fa da contrasto la scomposta reazione del governo pontificio: infatti, mentre il Mazzini alla fine dell’esperienza della repubblica romana si dichiarava orgoglioso per il fatto che durante la repubblica non si erano mai verificate condanne a morte, col ritorno del governo pontificio furono eseguite parecchie torture e condanne a morte. Lo storico inglese M. Smith, in un brano riportato dal Calleri, riferisce: “Fu ripristinata quasi subito l’inquisizione, e così pure la tortura, le bastonature in pubblico e la ghigliottina; le esecuzioni capitali si fecero frequenti. I conservatori moderati, lasciati in pace dalla repubblica nonostante il loro appoggio alla restaurazione papale, vennero esiliati. Gli ebrei, che i repubblicani avevano liberato, vennero di nuovo confinati nel ghetto, e in qualche caso vennero puniti i preti che avevano continuato ad esercitare il loro ministero sotto la repubblica.”

Perciò ora non si può non restare sconcertati dalla recente inopinata beatificazione del pontefice Pio IX, la cui salma il popolo durante i suoi funerali voleva invece gettare nel Tevere.

Nel libro del Calleri risalta per la sua dirittura morale Giuseppe Mazzini, il quale, sebbene non ortodosso dal punto di vista cattolico, era fortemente religioso, uno spirito mistico, pensoso e pervaso del vero senso del sacro, tanto da assumere come suo motto “Dio e Popolo”. Il suo liberalismo fece sì che il Mazzini dovesse imporsi per fare garantire il libero esercizio delle funzioni religiose, dato che fra i suoi seguaci c’erano tanti anticlericali e mangiapreti, come lo stesso Garibaldi. A costoro dava fastidio la tolleranza religiosa del Mazzini, il quale non fu affatto anticlericale. Ecco perché dalle pagine del Calleri il Mazzini appare come una grande figura morale, di cui viene esaltato il lungo apostolato patriottico e di cui vengono riportate diverse lettere.

Interessanti risultano poi le pagine dedicate alla costituzione romana, frutto in massima parte del pensiero mazziniano, che praticamente fece da base alla nostra attuale costituzione; e opportunamente l’autore fa dei confronti, per rilevare i principi comuni fra le due carte. Inoltre a chiusura del volume egli riporta un altro suo saggio mazziniano, precedente a questo.

Il Calleri con una prosa avvincente riesce a condurre il lettore di capitolo in capitolo e a proiettarlo nel vivo d’un tormentato periodo storico per fargliene capire meglio lo svolgimento in tutte le sue fasi. Anche dal punto di vista editoriale questo corposo libro, pubblicato col patrocinio della “Mazzini Society” e con prefazione di Giuliana Limiti, si presenta bene, nonostante che le citazioni in nota non siano stampate secondo la prassi tipografica. E per tutto ciò esso è apprezzabile e consigliabile particolarmente alle scuole e alle biblioteche, dove non dovrebbe mancare.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-giu. 2002)


Salvatore Calleri, Naxos e Tauroménion, C. R. E. S., Catania, 2003, pagg. 310, s. p.

Da Naxos a Giardini Naxos, da Tauroménion a Taormina, c’è in questa “monografia storico-critica con guida anche dei dintorni” la storia e la geografia di due splendide località della costa orientale siciliana note in tutto il mondo. Si va dalla fondazione delle due città da parte dei greci (e qui bisogna sottolineare che Naxos fu la prima colonia greca di Sicilia e d’Italia) fino ai nostri giorni, con un itinerario davvero suggestivo, che passa attraverso l’età antica, quella media, quella moderna e quella contemporanea.

Il Calleri, che con le sue varie pubblicazioni ha già dato prova di vastità di preparazione e serietà di metodo, non si limita a fornire una serie di dati e notizie che difficilmente altrove si troverebbero, ma li seleziona e interpreta o reinterpreta in modo da apportare dei contributi originali e ad ogni modo nuovi. In ciò egli non è stato mosso da intenti campanilistici, dato che è nato in provincia di Siracusa e vive a Roma (anche se nella descrizione di luoghi e fatti dimostra una perfetta conoscenza), ma da grande passione per lo studio e la ricerca, da sempre coltivati. La sua opera va dalla storia antica (greca e romana) all’archeologia, dalla storia dell’arte alla numismatica: al riguardo si vedano la lunga e dettagliata dissertazione sul teatro antico, ricca d’elementi tecnici e d’ipotesi varie, come pure si veda la rassegna di chiese e monumenti, per la cui analisi segue (anche se non sempre) il critico Stefano Bottari. Ma non manca l’attualità: e al riguardo si vedano le pagine relative alla festa di S. Pancrazio, non limitate alla registrazione dell’evento, ma arricchite da ricer­che sulla storicità e la figura del santo, nonché sulla nascita del cristianesimo nella zona; come pure si vedano le pagine relative alla vessata questione dell’apertura del casinò a Taormina, alle vicissitudini del suo festival, al suo piano regolatore e al problema dei parcheggi. Perciò all’occorrenza l’autore si dimostra anche meridionalista e ambientalista, fornendo indicazioni di politica urbanistica, agricola, turistica, economica e paesaggistica, le quali potrebbero essere molto utili a politici e amministratori.

E nell’opera non manca la poesia, quando l’autore, mettendo da parte l’aridità dei dati, si diffonde a descrivere il paesaggio o a parlare di feste, usi, costumi e tradizioni, enogastronomia e pasticceria, anche di località vicine (che ci sfilano davanti coi loro nomi fascinosi), costituendo un convincente invito a visitare quest’angolo di paradiso, perché effettivamente qui c’è la parte più suggestiva della Sicilia. Allora fa capolino la vocazione poetica del Calleri, che nella fattispecie sa modulare il suo linguaggio, imprimendogli valenze estetiche.

Dunque il libro, che certamente rappresenta un notevole passo avanti rispetto alla precedente bibliografia sull’argomento, è nel contempo un lavoro di scienza dell’antichità, utile a studiosi, studenti e persone colte, e un manuale divulgativo, utile ai numerosi turisti, anche se molto lontano dall’essere “consumato” superficialmente dal turismo di massa. Nuova è, ad esempio, la visione unitaria della storia di Naxos e Taormina (essendo la seconda succeduta alla prima), pur nella distinzione delle due attuali comunità.

Dal punto di vista grafico-editoriale il libro, che è corredato d’una serie di fotografie, mappe e disegni (anche di monete), si presenta in una forma elegante e accattivante. È vero che possono disturbare la lettura alcuni refusi e sviste di vario genere (fra cui quegli strani trattini d’unione insinuatisi nelle pagine, e particolarmente nelle note e nella bibliografia) e che per una migliore fruizione del testo sarebbe stato opportuno che le espressioni greche e latine fossero state sempre tradotte in italiano, magari in nota, data la limitata comprensione di tali lingue ai nostri giorni: ma è anche vero che questi e altri difetti formali, peraltro possibili in qualsiasi pubblicazione, non possono sminuire il valore sostanziale dell’opera, a cui contribuisce la correttezza e chiarezza del dettato, perché essa sicuramente s’attesta su un livello di qualità molto elevato, degna com’è d’essere non solo apprezzata ma anche propagandata.

Perciò un sincero elogio va rivolto anche al CRES di Catania, che ha deciso di pubblicare questa ricerca e il cui responsabile editoriale, Giancosimo Rizzo, nella breve ma incisiva presentazione giustamente esprime soddisfazione per l’inserimento d’essa nella collana.

Carmelo Ciccia

[“Nuovo frontespizio”, Rimini, giu. 2004]


Salvatore Calleri, La zampata del Gattopardo / I luoghi dell’anima / Solitudine e ricerca interiore in Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Istituto di Pubblicismo Scialpi, Roma, 2010, pagg. 250, € 16.

“La zampata del Gattopardo” di Salvatore Calleri

La produzione letteraria e la vita interiore di Tomasi di Lampedusa

Salvatore Calleri è uno scrittore di lungo corso, che ha dedicato la sua vita alla ricerca, allo studio e alla riflessione, scrivendo in uno stile chiaro e accessibile a tutti. Fra le sue precedenti pubblicazioni ci sono: Giuseppe Mazzini e il centenario dell'Unità d'Italia (1962), Savoca segreta (1972), Il Manzoni ed i silenzi della parola (1974), La Divina Commedia di don Procopio Ballaccheri (1986), Messina moderna (1991), Giuseppe Mazzini e la Roma del popolo: la Repubblica Romana del 1849 (2000), Parole per mio figlio (2000), Naxos e Tauromenion (dall'antico al moderno): monografia storico-critica con guida anche dei dintorni (2003), Antonino Caponnetto: eroe contromano in difesa della legalità (2003), In memoria di Giuseppe Fava: confessioni e ricordi (senza data), Letteratura meridionale dalla Sardegna alla Lucania (senza data), Lampedusa e la letteratura meridionale (senza data).

Come si vede, i suoi interessi spaziano dalla letteratura alla storia, dal patriottismo all’impegno sociale. Qui però va messa in rilievo l’edizione in volume della Divina commedia di don Procopio Ballaccheri, i cui canti (dal I al XXII dell’Inferno) erano stati scritti in un dialetto siciliano storpiato dal commediografo belpassese Nino Martoglio e pubblicati singolarmente nella rivista “D’Artagnan”, che il Calleri ha raccolto, ordinato e sottilmente commentato, in particolare facendo vedere le analogie e le differenze rispetto alla grande opera di Dante, in un testo che meriterebbe più larga diffusione fra i dantisti siciliani o semplicemente fra i siciliani.

Ora il Calleri ha pubblicato un poderoso volume che ha tre titoli: La zampata del Gattopardo / I luoghi dell’anima / Solitudine e ricerca interiore in Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Istituto di Pubblicismo Scialpi, Roma, 2010, pp. 250, € 16); ma è il terzo il più rispondente e adatto. In questo volume, che viene qui esaminato, ci s’accorge d’acchito della grande preparazione e competenza dell’autore, il quale fra l’altro vi dispiega una messe d’informazioni non facilmente reperibili.

Per quanto riguarda il contenuto, nella parte prima, intitolata VITA […], l’autore traccia la biografia del Tomasi, desumendola dall’autobiografia I luoghi della mia prima infanzia. In questo contesto, dello scrittore egli passa in rassegna l’infanzia, la fanciullezza, l’adolescenza, la formazione, gli studi, le amicizie e gl’incontri culturali, soffermandosi su particolari come la partecipazione alle due guerre mondiali, il matrimonio, la perfetta intesa con la moglie e la presidenza della Croce Rossa siciliana, sottolineando la funzione poetica dei ricordi connessi alle tre ville possedute, tanto amate e rimpiante.

Nella parte seconda, intitolata LE OPERE “IL GATTOPARDO, l’autore tratta non soltanto del romanzo, da lui giudicato esistenziale, ma anche dei Racconti del Tomasi, delineando le caratteristiche dei personaggi, delle vicende e dell’ambientazione. Notevoli sono le pagine relative alla sicilianità, al senso del dolore, della morte, della solitudine, del tempo e dell’eternità, al carattere narrativo-autobiografico-saggistico del romanzo stesso, di cui egli rileva anche l’ironia e la laicità; e nella parte relativa al plebiscito e alla questione meridionale il Calleri afferma con vigore che il Tomasi non fu un antirisorgimentale, perché si limitò a mettere in evidenza l’incompiuta attuazione del Risorgimento nell’Isola e a mostrarsi pessimista circa la volontà di riscatto dei siciliani, stante la loro proverbiale inerzia.

Nella parte terza, intitolata LETTERATURA E CINEMA, l’autore fa alcune digressioni e tratta, oltre che del Gattopardo, d’opere letterarie di vari autori trasposte in film, nonché di teatro, opera lirica e balletto, soffermandosi ampiamente su registi, attori, sceneggiatori, scenografi e musicisti; si dilunga sulle vicende editoriali e sulla fortuna critica del Gattopardo, riferendo il negativo giudizio del Vittorini e rivelandosi a sua volta critico dei critici e all’occasione critico cinematografico e teatrale; e infine presenta un profilo del figlio adottivo Gioacchino Lanza Tomasi, con cui è in amichevoli rapporti, parlando anche del parco letterario e del premio intitolati allo scrittore e concludendo col sottolineare l’esemplarità della vita dello scrittore.

Il Calleri individua le ascendenze letterarie del Tomasi in scrittori stranieri quali Sthendal, Proust, Musil, Mann, oltre che naturalmente nei siciliani Verga, De Roberto e Pirandello; anzi a volte confronta degli episodi. Egli fa accurate analisi dei personaggi tomasiani, non soltanto principali, ma anche secondari, rilevandone acutamente caratteri fisici e morali, virtù e vizi, sentimenti e passioni. E nella sua trattazione s’appoggia continuamente ad altri studiosi, di cui cita ampi brani, facendo sì che il suo lavoro diventi un intarsio di citazioni.

Notevole è anche l’analisi del paesaggio, che per il Calleri partecipa al dramma, diventando evocativo, significativo ed esplicativo. Al riguardo l’autore ricorda che il Tomasi conosceva e citò i mercati storici di Palermo: Vuccirìa, Capo e Ballarò. E poeticamente afferma: «La Sicilia di Tomasi è una “provincia” dell’anima, un “luogo del sentimento”, è il palcoscenico naturale sul quale accadono le rivelazioni.» (p. 84)

Importante è poi la sua lettura meridionalistica del Gattopardo, che in un referendum del 1985 risultò il romanzo “più amato” dai lettori dopo La coscienza di Zeno dello Svevo: l’autore difende il Tomasi, affermando che costui ha semplicemente delineato una Sicilia tradita nelle sue aspettative, sulla scia del Verga, del Pirandello e d’altri scrittori meridionali. E, citando i meridionalisti Franchetti, Sonnino e Salvemini, conclude: «Il quadro fin qui delineato è un chiaro segno che l’Unità non fu la panacea atta a risolvere tutti i mali che affliggevano la nostra società sia in Sicilia, o meglio nel Meridione, sia nel resto d’Italia.» (p. 132)

Parlando dell’elegia della morte presente nel Gattopardo e nel racconto Lighea, su cui si dilunga, l’autore (per suggerimento del Lanza Tomasi) fornisce la fonte dell’immagine della morte stessa vista come stella attraente, riconducibile ad una composizione del poeta russo Atanasio Fet, dal Tomasi letto e ammirato.

Il lavoro del Calleri, che per il suo assunto dovrebbe esser tenuto presente nella ricorrenza del 150° dell’Unità d’Italia, è integrato da alcune fotografie, dalla bibliografia e dall’albero genealogico della famiglia Tomasi.

Per quanto riguarda la forma, la copertina è elegante, la carta buona e i caratteri nitidi. Invece le lunghe e numerose citazioni di parole altrui, a volte snodantisi per parecchi capoversi, non sono stampate con diversa impostazione tipografica e con diverso carattere, ma tra lontane virgolette, spesso confondendosi con le parole del Calleri. I termini stranieri e i titoli di libri, di riviste, di quadri e di film sono messi ora fra virgolette, ora in corsivo e ora senza nessuna caratterizzazione. I titoli nobiliari sono scritti non sempre con lo stesso tipo d’iniziale (che nella fattispecie sarebbe stata meglio minuscola). Ci sono delle ripetizioni (come l’espressione latina “iter” che è ripetuta diecine volte, magari due o tre nella stessa pagina). Non sempre le virgolette sono aperte e chiuse nei posti di spettanza; non sempre in una singola citazione le virgolette d’apertura e quelle di chiusura sono dello stesso tipo; e ci sono incisi virgolettati inclusi in brani a loro volta fra virgolette e virgolette riaperte subito dopo quelle chiuse. Il cognome degli scrittori viene indicato non sempre allo stesso modo (ad esempio ora “Lampedusa” ora “il Lampedusa” ora “Tomasi” e ora “il Tomasi”, come pure ora “Russo” e ora “il Russo”). Le due parole greche di p. 154 hanno una consonante sbagliata, la quale nella prima ne cambia il significato. La nutrita bibliografia non è messa in ordine alfabetico degli autori o perlomeno cronologico di pubblicazione e le indicazioni bibliografiche, anche quelle in nota, non sono formulate secondo la prassi tipografica. Infine ci sono alcuni refusi tipografici e altre sviste, anche di punteggiatura.

Purtuttavia queste imperfezioni formali incidono poco sull’alta qualità del lavoro, che si configura come uno dei più riusciti nel suo settore ed in particolare sullo scrittore preso in esame, così dettagliatamente analizzato.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, marzo 2011]


Emanuele Capitanio, Vita e percezioni di §, anonimo ignoto, Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2008, pagg. 110, € 10.

PREFAZIONE

Se si volesse qualificare con un aggettivo il romanzo Vita e percezioni di §, anonimo ignoto dell’esordiente autore Emanuele Capitanio, si potrebbe scegliere fra psicanalitico, fantascientifico e surreale, o meglio si potrebbero usare tutt’e tre insieme questi aggettivi. Già il titolo stesso contiene la parola percezioni, che attiene al mondo della psicanalisi, anche se qui le percezioni a volte sono materializzate. Ma l’originalità del lavoro del Capitanio consiste non nell’esile trama, che a volte ci riporta al clima dell’Arcadia, bensì nello stile, che si potrebbe accostare al barocco o meglio all’estetismo dannunziano. Infatti c’è una ricerca minuziosa della forma, tanto che la narrazione per pagine e pagine si dipana sul nulla, come una ragnatela di elucubrazioni continuamente rigenerantisi: il che potrebbe all’inizio stancare il lettore che non avesse la pazienza di procedere fino alla fine, dove - come in ogni giallo che si rispetti - si trova la soluzione dell’intrigo.

L’autore stesso è consapevole di questo rischio; e in un immaginario processo la Pubblica Accusa contesta che “Questo libro non si riferisce a nulla di concreto, e perciò è da considerarsi puro esercizio formalistico”: e poi essa usa espressioni come “completa soggettività… eccesso di autoreferenzialità… autismo egocentrico... astrattismo…”. Ma la Pubblica Difesa afferma che il lettore anzitutto “deve incontrare una sensibilità che si ponga in sintonia con la propria, che, senza volergli insegnare nulla né arrivare a conclusioni, solleciti il moto delle meningi, alimenti il volo del sogno, rigonfi il petto d’ebbrezza” (pag. 44).

La narrazione, che oscilla fra l’onirismo e il mentalismo, mette alla ribalta un anonimo e ignoto protagonista (psicopatico?) dallo strano pseudonimo §, il quale, raccontando in prima persona, cerca di rintracciare nella sua memoria l’oggetto d’un ricordo di cui ha labili tracce e di farlo ri-vivere nel presente. Per ottenere questo scopo egli si reca non soltanto da un dottore, ma anche in una “mnemoteca”, dove a guisa di biblioteca si conservano i ricordi e le cui ricerche sono fatte sulla base d’appositi moduli simili a quelli delle biblioteche. In questo episodio e in tutto il resto della narrazione c’è una cura dettagliata nel descrivere luoghi, oggetti e personaggi di quel mondo fittizio. Vari sono i tentativi e le peripezie del protagonista, che di quell’oggetto (una fanciulla) possiede soltanto un frammento di nome: Livia; e alla fine, grazie all’aiuto d’un misterioso Imòbano (il ricordo stesso), il nome della fanciulla si completa in una parola latina molto significativa per tutta la narrazione. E intanto l’autore dimostra un notevole senso dell’umorismo quando eleva un “Panegirico per il Sommo Imòbano”, rivelandosi anche buon artefice di versi (pag. 57).

Qualcuno dirà che quest’opera può essere considerata una favola: e per certi aspetti essa sicuramente lo è; ma la conclusione è malinconica o perlomeno deludente per chi vi avesse cercato una favola con una conclusione del tipo “E vissero felici e contenti”. Tuttavia non si può ignorare che l’opera è piena di paesaggi pittoreschi e di situazioni da favola, a cominciare dalla figura della fanciulla così delineata, che a tratti assume le movenze della Lia-Matelda di Dante (Purg. XXVII 97-105 e XXVIII 40-69), il quale a sua volta s’era rifatto alla Proserpina d’Ovidio (Metamorfoseon V 385-401 e Fasti IV 425-442).

Oltre allo strano nome § del protagonista, vari sono i simboli grafici introdotti nella narrazione: la quale è fondata su una simbologia generale, che spesso occorre interpretare e decifrare. Quindi si richiede al lettore una compartecipazione alla definizione del sistema narrativo, della vicenda e del suo protagonista. Sicuramente dietro questo romanzo c’è Freud, ma nelle scene assurde e paradossali s’intravede la presenza anche di Pirandello e di Kafka: senza dimenticare l’oscurità e il simbolismo di vari brani della Divina Commedia.

Abbiamo parlato di stili del passato, ma complessivamente l’espressione linguistica, pur nella sua ricercatezza e cesellatura, s’innesta nel tempo odierno grazie al riferimento a tecnologie e terminologie d’oggi. E nonostante tutto il lettore attento, superato l’imbarazzo iniziale, gradisce farsi accarezzare dal sentimento e da una forma altamente estetica e a volte musicale. Stupisce infatti la capacità dell’autore di lavorare sulla lingua, attingendo anche a termini obsoleti, ma che abbiano una funzione evocatrice. A volte certe parole sono inventate o composte dall’autore stesso, ma non si può contestare che esse non si trovano nel vocabolario, perché in realtà esse servono a questo tipo di narrazione così come egli le ha forgiate e come appaiono.

Alla fine il lettore in sintonia con la sensibilità dell’autore, che la richiede lui stesso, non può non elogiare Emanuele Capitanio per aver prodotto un’opera originale e quindi al di fuori degli schemi usuali, la cui lettura, certamente non facile, può dare delle soddisfazioni a chi sa intenderla. L’animo delicato e sensibile del Capitanio si scopre chiaramente nell’atmosfera eterea, diafana e celestiale in cui, fra conscio e inconscio, si muovono il protagonista e la fanciulla del suo ricordo (ad un certo punto diventata di carta). Essi trovano la loro massima intesa nel silenzio: “La purezza del Silenzio detergeva le nostre menti ed i nostri corpi, avvicinandoci nell’intimità pudica di un abbraccio limpido e caloroso” (pag. 88).

E il valore del silenzio potrebb’essere l’involontario insegnamento d’un autore che si è prefisso di non dare insegnamenti.

Conegliano, 20.IX.2008

Carmelo Ciccia

[Emanuele Capitanio, Vita e percezioni di §, anonimo ignoto, Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2008, pagg. 110, € 10]


Enzo Capitanio, Germogli in un vaso di terra, Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2020

PREFAZIONE

La grave pandemia del 2020 ha recato lutti, dispiaceri e notevoli fastidi, fra cui il coprifuoco che ha costretto milioni di persone a restare confinate in casa per alcuni mesi. Eppure in tale contesto è potuto nascere qualcosa di piacevole, come questa dozzina di racconti d’Enzo Capitanio, che certamente aiutano a risollevare l’animo e a meglio sperare per il futuro.

L’autore è molto impegnato nel campo della cultura: è biblista, drammaturgo, attore, membro di diverse associazioni culturali, fra le quali il Gruppo “Amici di Dante” di Conegliano, di cui è vicepresidente. Ora egli si presenta al pubblico come narratore esordiente con questi Germogli in un vaso di terra che fin dal titolo promettono qualcosa di benaugurante: una rinascita, una migliore vita, altre opportunità.

Il primo pregio di questo libro è la correttezza linguistico-espressiva, sempre associata a chiarezza e scorrevolezza e adeguata a personaggi, ambienti e congiunture; ma nel contempo si nota la sbrigliata fantasia dell’autore che sa creare e gestire diecine di personaggi e circostanze, queste ultime a volte intricate, ma che alla fine si risolvono magnificamente con qualche gradita sorpresa. E quanto alla sbrigliata fantasia dell’autore essa sembra una dote di famiglia: alcuni anni fa il figlio Emanuele Capitanio pubblicò in questa stessa collana un romanzo, nella prefazione definito psicanalitico, fantascientifico e surreale.

In questa raccolta d’Enzo Capitanio sono vari i generi della narrativa, che vanno dall’avventuroso al “giallo” con o senza orrido, dal realistico al fantascientifico, dal drammatico all’umoristico e addirittura al “rosa”: e spesso le pagine sono pervase di sottile ironia. Anche l’ambientazione delle vicende è varia e va da diverse località dell’Italia e del mondo a Venezia, città natia dell’autore. Infine anche la condizione dei personaggi è varia, generando una molteplicità d’interessi e di casi che vivacizzano la narrazione e mai fanno stancare il lettore, dato che contribuiscono positivamente alla complessiva validità dell’opera: e intanto emerge la buona cultura e informazione dell’autore, che attinge ora alla sua fantasia, ora a rinomate fonti letterarie, ora a fatti di cronaca, mentre non mancano riferimenti storici, artistici e musicali che connotano l’humus da cui scaturiscono e sbocciano questi Germogli.

Come si vede, in questo libro ce n’è abbastanza per essere coinvolti e divertirsi, ma anche per riflettere, tanto che ad un certo punto ci sembra un peccato che non ci sia altro da leggere. Ed è per ciò che Enzo Capitanio, pur al suo esordio narrativo, si rivela un robusto scrittore, degno d’entrare a testa alta nei circuiti letterari.

Carmelo Ciccia

[Enzo Capitanio, Germogli in un vaso di terra, Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2020]


Enzo Capitanio, Germogli in un vaso di terra, Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2020, pp. 178, € 10.

In eccellente veste tipografica è uscito recentemente il primo libro di narrativa di Enzo Capitanio, un autore eclettico che è anche commediografo, attore e biblista: si tratta della raccolta Germogli in un vaso di terra. Soltanto per dare qualche indicazione ed esprimere qualche impressione, ecco qui di seguito, alcuni dettagli dei singoli racconti.

• In “I topi” un trio di ragazzacci tiranneggia un ragazzino perbene, non soltanto estorcendogli continuamente denaro e merende, ma addirittura pretendendo per i propri capricci la presentazione d’una sua cugina, la quale, però — specialista d’arti marziali — poi mette a posto il trio stesso, e specialmente il suo capo, in una stupefacente sorpresa finale.

• In “L’avvicendamento” i freddi calcoli bellici inducono un gruppo di militari a sacrificare la coppia dei bravi vecchietti ospitanti: e ciò per migliorare le sorti della guerra.

• “I selvaggi” è il più lungo racconto della raccolta e ha anche una postfazione e dei riferimenti bibliografici, rivelandosi poi una specie di saggio: esso si può collegare a quella letteratura nord-americana che ha esaltato il Lontano Occidente degli Stati Uniti d’America, fra praterie, fattorie e stazioni di posta, facendone un agognato regno di favola.

• “Il treno” al ricordo della strage di Bologna del 1980 innesta una vicenda di sapore arcano, svolta in una nebulosa atmosfera d’allusioni e rimandi che restano nel vago, pur avendo delle strane coincidenze.

• “B. B. C. 2020” (acronimo di Bruno, Buffalmacco e Calandrino), che potrebbe anche essere trasformato e recitato in farsa (nonostante un drammatico incidente), non soltanto ricalca qualche ben nota novella boccacciana, ma in certi passaggi la supera per vivezza d’immagini, scorrevolezza di dialogo e sapidità di battute.

• “L'astronauta” sembra riecheggiare ambienti e temi salgariani, ma all’esplorazione della giungla ora subentra quella dei pianeti, con paurosi mostri e non minori rischi. Qui l’autore mette in campo la sua libera fantasia per percorrere mondi fantascientifici, permeati però di vibranti sentimenti d’amore.

• In “Reietti”, a parte la lunghezza e il consueto “giallo”, ci sono il surreale e l’esoterico che rendono più avvincente la narrazione, giungendo ad esemplificare coi discussi casi di Antoine de Saint-Exupéry ed Ettore Majorana, sull’ultimo dei quali scrisse un memorabile saggio Leonardo Sciascia; e non mancano vari spunti di riflessione, soprattutto sul disprezzo e l’emarginazione dei “diversi” o reietti.

• “L’icona” ci riporta alla temperie dantesca, presentandoci un Dante savio, accorto e largamente stimato. A parte il riferimento all’epidemia imperversante e al patrocinio della vista da parte di S. Lucia raffigurata nell’icona, apprezzabile è anche il colpo di scena con la scoperta del vero impostore.

• “La fotografia” ricostruisce a ritroso una vicenda complessa partendo da un semplice disegno con didascalia (cfr. disegno di copertina) che un amico aveva pubblicato su una rete di comunicazione sociale.

• Con “La locanda” siamo nel campo dell’horror, che potrebbe dispiacere ad alcuni, ma nel complesso il racconto è apprezzabile per la costruzione della trama e la particolare ambientazione nel mondo basco.

• In “I rapinatori” due maldestri delinquenti, di cui uno è stretto osservante delle disposizioni sulla pandemia e succubo dell’altro, finiscono col cadere nel ridicolo di fronte all’astuzia della vecchietta da rapinare e poi le buscano anche di santa ragione, dopo avere sciorinato una serie di spassose battute, pur nella scurrilità e sgradevolezza di certe espressioni e situazioni.

• “La sposa”, col suo scivolone finale, sembra il racconto più bello e certamente si legge con molto piacere, anche per le allusioni artistiche e musicali, oltre che per la trama nuova e accattivante che culmina in un’originale retribuzione secondo il criterio del pan per focaccia. Opportuna e simpatica è infine la rima (riferita alla sposa) scampata/sposata, sull’onda di bagnata/fortunata.

Il testo è corretto, scorrevole e chiaro, tale da rendere il lavoro accessibile a tutti, non soltanto per il variegato e attraente contenuto, ma anche per l’espressione linguistico- espressiva.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2022]

Enzo Capitanio, Voli di liberi uccelli, De Bastiani, Godega di Sant’Urbano, 2022, pp. 234, € 10.

Dopo Germogli in un vaso di terra, con la nuova raccolta di racconti Voli di liberi uccelli Enzo Capitanio si conferma un robusto narratore, che alla ricchezza e varietà dei temi unisce la padronanza della lingua e la proprietà dello stile. Perciò ci si chiede come e dove egli trovi un ventaglio così ampio e differenziato di vicende, personaggi e luoghi se non nella profondità degli studi, nello spirito d’osservazione e nella fantasia sbrigliata. Per giunta spesso l’andamento della narrazione è quello del “giallo”, che fa sorgere e sviluppare nei lettori un desiderio di voler sapere come la faccenda va a finire e quindi li stimola a proseguire nella lettura, avvincendoli. E a volte c’è la sorpresa finale, con qualche colpo di scena.

A quest’ultimo riguardo sono esemplari in particolare i racconti “Il Salto”, “Il migliore”, “Il cavaliere” e “La reclusa”. Fra l’altro “Il cavaliere” si trasforma in saggio storico-religioso quando l’autore, biblista acattolico in aperto dissenso con la Chiesa Cattolica, attraverso il protagonista parla della persecuzione dei Templari (che anche Dante deplorò in Purg. XX 91-93) e aggiunge delle note d’approfondimento che esulano dalla narrativa; e “La reclusa” per la sua lunghezza potrebbe considerarsi un romanzo vero e proprio con colpo di scena finale, che assume le movenze della recita teatrale, dal momento che la trama — a quanto dichiarato nel libro — è tratta da un dramma giallo dell’autore stesso, noto anche come drammaturgo, attore e regista. Non per nulla la locuzione “colpo di scena” attinge alla tecnica di rappresentazione in teatro, con imprevisto e repentino cambio d’apparato, azione e narrazione, che stupisce lo spettatore.

Un racconto fra fantascientifico e surreale, che spicca per la sua originalità e che per la scelta dell’anno centenario sembra evocare il romanzo 1984 di George Orwell, uscito nel 1949, è quello intitolato “2084”, in cui tutto ciò che oggi è considerato anomalo, aberrante e condannato dalla coscienza comune, nel 2084 paradossalmente diventa normale e lecito, con particolare riferimento a certe strane relazioni, unioni e predilezioni, chiamate matrimoni e fatte passare per tali: qui l’ironia diventa sarcasmo di fronte a situazioni che degradano i valori della vita e la convivenza sociale. E leggendo il racconto finale “Gli ospiti” non si può non restare meravigliati dalla capacità inventiva, logica e dialogica del Capitanio, che chiude la raccolta in modo scoppiettante, fra enigmi poi risolti e rivelazioni.

Così nel libro ci sono: adùlteri americani vendicativi e assassini, un fantasma di castello veneto con lo sfondo della vita cavalleresca del Medioevo, pistoleri americani duellanti, gemelle lombarde interscambiabili, un eroe giapponese che si fa esplodere per amor di patria, un cavaliere templare francese sfuggito all’Inquisizione, una graziosa reclusa ucraina (ma l’Ucraina dei nostri giorni non c’entra) e un ex commissario della polizia italiana, due zelanti funzionari statali del futuro che vanno in cerca di connubi un tempo normalissimi e ora invece anormali, per sanzionarli, una nobildonna spagnola e la sua cameriera prigioniere in un vascello di pirati inglesi, nove celebri personaggi fra letterari e fumettistici convocati da una misteriosa Voce in un mondo fittizio; e quindi i generi vanno dall’orrido al fantastico, dall’avventuroso al sentimentale, dal drammatico all’epico, dal poliziesco al distopico, dal virtuale all’utopico.

Nella narrazione, poi, non mancano affermazioni didascaliche utili specialmente ai giovani, e cioè che la cultura è la cosa più preziosa per gli uomini (p. 109), che bisogna difendere la lingua italiana, rifiutando l’anglomania dilagante (p. 147) e che quando ci si addentra nel metafisico, magari per discutere della forza creatrice del pensiero, anche i discorsi di menti elette possono arenarsi (p. 208). E pure Dante è citato più volte.

Anche se in questo libro sono del tutto personali nei dialoghi l’uso del corsivo e quello della punteggiatura e in altri casi quello di parole e frasi interamente in caratteri maiuscoli a stampatello e quello dell’apostrofo come virgolette, la forma linguistico-espressiva è chiara, scorrevole e pressoché del tutto corretta: le poche sviste (ma quale scrittore non ne commette?) potranno essere corrette direttamente dai lettori.

La lettura è favorita anche dalla dimensione dei caratteri, dalla carta bianca, dalla buona inchiostrazione e dai frequenti asterischi divisori fra una parte e l’altra, che caratterizzano positivamente l’edizione, a cui contribuiscono anche la prefazione d’Antonio Menegon e i disegni di Michele Zaggia.

Insomma questo è un libro che non si vorrebbe mai finire di leggere e per il quale, a lettura finita, non si può non esclamare: “Peccato che sia finito!”.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2023]

Il mondo al contrario per matrimonio e famiglia

di Carmelo Ciccia

Nel 2022 Enzo Capitanio — drammaturgo e narratore, attore e regista teatrale — ha pubblicato la raccolta di racconti Voli di liberi uccelli (De Bastiani, Godega di Sant’Urbano, 2022, pp. 234, € 10,00), in cui spicca per la sua originalità il racconto intitolato “2084”: un racconto fra fantascientifico e surreale che per la scelta dell’anno centenario sembra evocare il romanzo 1984 di George Orwell, uscito nel 1949. In questo racconto tutto ciò che oggi è considerato anomalo o addirittura aberrante e condannato dalla coscienza comune nel 2084 paradossalmente diventa normale, lecito e addirittura obbligatorio, con particolare riferimento a certe strane relazioni, unioni e predilezioni, chiamate matrimoni e fatte passare per tali mediante registrazione ufficiale all’anagrafe: “matrimoni” non soltanto fra persone omosessuali, ma anche di coppie incestuose (genitori-figli, fratelli-sorelle, nonni-nipoti ), fra persone e animali domestici (cani, gatti…) e fra persone e oggetti o accessori vari (piante, grattugie, mutandine…), per concludere coi matrimoni di gruppo fra tre-quattro persone. E, ad imitazione delle giornate dell’orgoglio omosessuale, ogni categoria ha la sua giornata dell’orgoglio con sfilate e cartelli: giornata dell’orgoglio incestuoso, giornata dell’orgoglio animale, giornata dell’orgoglio accessoriale, giornata per il matrimonio di gruppo.

Secondo questo racconto, nel 2084 la normalità di questi “matrimoni” e d’altre situazioni oggi ritenute anormali o irregolari (convivenza more uxorio, maternità surrogata, figli di coppie omosessuali con due padri o due madri…) è tale che chi pratica ancora gli usi e le norme tradizionali d’una volta è inquisito/a e sorvegliato/a da appositi ispettori che girano per le case, cercando d’obbligare tutti a vivere in un mondo al contrario.

È evidente che qui l’ironia dell’autore si trasforma in sarcasmo di fronte a certi casi che degradano la dignità, i valori della vita e la convivenza sociale. E “2084: il mondo al contrario” avrebbe potuto essere il titolo completo e più esplicito di questo racconto.

A sua volta nel 2023 Roberto Vannacci — generale dell’Esercito Italiano e ora parlamentare europeo — ha pubblicato il libro Il mondo al contrario (Amazon, Milano, 2023, pp. 373, € 21,85), che da subito ha suscitato tanto clamore e presto ha raggiunto la seconda edizione. Premesso che per normalità egli intende il costume o modo di sentire e agire della maggioranza delle persone, con l’inversione della parola contrario nel titolo l’autore vuol denunciare un complesso di situazioni d’anormalità, dal vigente andazzo fatte passare per normalità. In questo contesto egli tratta d’omosessualità e omofobia e tocca altri problemi delicati, come le società multietniche che si vanno costituendo, le pressioni dei gruppi di potere (politici ed economici) che vogliono guidare il mondo, la difesa dell’ambiente fatta a base di sceneggiate ed insozzamento di muri, fontane e monumenti, poi comportanti notevoli spese per ripulirli; e, deplorando l’idolatria di certi animali oggi di moda (praticamente i cani sostituiscono quasi sempre i bambini non voluti o non potuti avere), sottolinea il necessario ripristino della priorità degl’interessi, delle relazioni e delle attenzioni dell’uomo per l’uomo, pur nel rispetto per tutti gli esseri viventi. E fra le cose “al contrario” egli vede anche certe famiglie d’oggi: per lui la famiglia normale è quella tradizionale, prima cellula costitutiva della società, basata sui vincoli di sangue fra genitori e figli, così voluta dalla natura; mentre famiglie diversamente assemblate non sono né naturali né normali.

Di recente, poi, l’autore è stato uno dei primi — fra politici, intellettuali, autorità e gente comune — a condannare energicamente, perché esempio di mondo al contrario, il fatto che in una scuola di Treviso due alunni immigrati di religione diversa dalla cristiana, per non essere turbati nella loro sensibilità, sono stati esonerati dallo studio della Divina Commedia, fondamento della nostra lingua, cultura e identità.

Ora i suddetti libri di questi due autori offrono l’occasione per fare alcune riflessioni, particolarmente sul matrimonio, l’unione civile e la famiglia. L’errore di fondo della questione sta tutto nello scambiare per matrimonio l’unione civile prevista dalla nostra legislazione, anche se ora le coppie di persone dello stesso sesso possono ricevere una benedizione ecclesiastica. Quindi in questi casi erroneamente ed abusivamente si parla di nozze, celebrazioni e sposi/e, perché si vuole dimenticare che il matrimonio etimologicamente presuppone un’unione fra un uomo e una donna, quest’ultima destinata — se l’età e la salute lo consentono — a diventare madre, oltre che a dare e ricevere mutua assistenza. Ora si pretende che due persone dello stesso sesso costituenti una coppia in unione civile possano essere entrambe dichiarate contemporaneamente padri o madri d’uno/a stesso/a figlio/a, in famiglie assurdamente aventi o due padri o due madri di bambini fatti passare per loro figli. Il che è una cosa innaturale, e quindi anormale, avendo la natura disposto che sono un solo padre e una sola madre a procreare un figlio; e pretendere che lo/a stesso/a figlio/a sia registrato all’anagrafe con due padri o due madri appartiene al “mondo alla rovescia” deplorato. Così è assurdo anche chiamare marito una donna compagna d’un’altra donna e moglie un uomo compagno d’un altro uomo, nonché chiamare marito il compagno d’un altro uomo e moglie la compagna d’un’altra donna. E mentre qualche politico propone la privatizzazione del matrimonio, togliendolo dalle dipendenze e regolamentazioni delle autorità e degli uffici pubblici, è strano il fatto che alle coppie di militari dello stesso sesso che s’accompagnano in unione civile si concede l’onore dell’arco trionfale sotto spade sguainate, come se fosse un matrimonio.

Insomma questi due libri ci ricordano che non si devono confondere due diverse istituzioni come il matrimonio e l’unione civile. In pratica due persone dello stesso sesso che vogliono unirsi civilmente per accompagnarsi e per acquistare diritti e doveri nei confronti di sé stessi e degli altri dovrebbero recarsi al municipio ed espletare la pratica burocratica con dichiarazione, atto amministrativo, firme e timbri, ma senza squilli di trombe o parate varie.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2024]

P. S. Qui si ricorda che il cantante, paroliere e musicista Italo Juli (Catanzaro 1922 – Roma 2000) nella sua canzone “Un mondo alla rovescia” fra l’altro parlava del sole che sorgeva a mezzanotte, del gallo che covava le uova, della gallina che faceva chicchirichì, dell’orologio che girava all’incontrario, dei giorni che andavano a rovescio in calendario, dei figli comprati al supermercato surgelati in provetta: e alla fine si chiedeva ansioso fino a quando. (Italo Juli Jonico, Il fiore rosso del poeta, Gesualdi, Roma, 2002, p. 40)


Giorgia Capozzi, La genesi di Spasimo di Federico De Roberto, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2009, pagg. 64, s. p.

La mottese Giorgia Capozzi in questo suo lavoro intitolato La genesi di Spasimo di Federico De Roberto (Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2009, pp. 64, s. p.) rivela eccellenti doti di ricercatrice, nonostante la giovanissima età di 21 anni quando l’ha scritto: e ciò, grazie alla notevole preparazione e alla capacità d’esprimersi in un elevato registro linguistico, certamente idoneo all’assunto. L’autrice ha preso in esame il romanzo Spasimo del De Roberto e l’ha sviscerato per coglierne tendenze, collegamenti, risultati, non senza ricordare che il Pirandello lo giudicò negativamente. Premesso che questa è una delle opere minori del De Roberto, oggi pressoché dimenticata, l’autrice espone il contenuto e si sofferma su alcuni personaggi, in particolare sul protagonista Zakunin, che per una lettera alfabetica non si chiama Bakunin come il filosofo russo, fondatore dell’anarchismo moderno basato su natura e libertà, del quale peraltro egli mostra di seguire covincimenti e comportamenti.

L’intento dell’autrice è quindi quello di valutare quest’opera nella temperie del momento: lo scrittore da una parte è legato al naturalismo-verismo, data l’amicizia particolare col Verga, dall’altra vorrebbe evadere da esso, come aveva fatto nel celebre romanzo I viceré, seguendo lo psicologismo lanciato da Paul Bourget; ma alla fine — come sottolinea l’autrice stessa — rientra nel naturalismo-verismo, quanto meno col mettere in evidenza l’ineluttabilità delle conseguenze degli eventi e delle azioni.

E a tal riguardo, considerato che l’opera vorrebbe essere un romanzo poliziesco (genere strano per il verismo) e che in realtà si risolve — come dice l’autrice — in un “giallo psicologico” o “metaromanzo” in cui domina l’analisi psicologica, con notazioni “d’isterismo mascolino”, di tendenze fameliche e d’“ingordigia cannibalistica” (oggi si potrebbe definire del tipo di quella teorizzata da Gino Raya), allora sarebbe stato opportuno che la Capozzi si fosse soffermata sui rapporti del De Roberto col Bourget, il cui cognome è appena accennato a p. 25 insieme con quello del Dostojesvski per citazione del Pirandello, mentre in realtà il Bourget — in una delle quattro visite a Palermo incontrato dallo stesso De Roberto, che ebbe con lui una non trascurabile corrispondenza — lo influenzò tanto da fargli ricevere l’appellativo di “novello Bourget”.

Importante capitolo è poi quello che riguarda il passaggio dal romanzo Spasimo al dramma La tormenta: l’autrice, dopo aver rilevato la “multileggibilità” del romanzo e il suo andamento dialogico, mette in chiaro l’affannosa compilazione del dramma da parte del De Roberto e le sue richieste di suggerimenti e aiuti non soltanto ad altri scrittori, ma anche a congiunti, in una limatura che certamente logorò lo scrittore (il quale però mantenne il ruolo di narratore nelle didascalie, spesso infarcite d’una aggettivazione triadica).

In sostanza per l’autrice il romanzo Spasimo è più riuscito del dramma La tormenta, a cui lo scrittore si dedicò a lungo, senza peraltro poter avere quelle soddisfazioni ch’egli sperava di conseguire, tanto che il dramma non fu mai rappresentato. E là dove la Capozzi parla di vicinanza del De Roberto allo Shakespeare nella scelta del titolo La tormenta, affine allo scespiriano La tempesta, sarebbe stato opportuno ricordare che il Bourget nel suo fortunato romanzo André Cornelis aveva fatto una specie di riscrittura dell’Amleto; e quindi tale vicinanza potrebbe essergli stata filtrata dal Bourget stesso.

Nel volumetto l’autrice, rendendo più interessante il suo dettato, fa largo uso di citazioni in corsivo, che vitalizzano il lavoro; e a conclusione riporta certe massime che dimostrano la suddetta ineluttabilità: “Siamo al mondo per piangere: è il nostro destino.” e “La vita è sacra. È un prodigio, è l’opera divina” (p. 62).

Dal punto di vista grafico-editoriale il testo — egregiamente presentato da Giancosimo Rizzo, responsabile dell’edizione — è elegante e ben impaginato, anche se vi sono alcuni refusi e sviste: certi corsivi mancano, ad esempio nei titoli Spasimo e La tormenta e in parole straniere o latine; qualche virgola è fuori posto e qualche accento è grave anziché acuto; c’è qualche ossimoro come “di buon grado e controvoglia” (p. 11); Teatro risulta Teatr (p. 13), Mondadori risulta ora Mndadori (13) ora Mondatori (p. 45), Tringale risulta Trincale (p. 60): ma è soprattutto l’abbondante uso del trattino d’unione (-) al posto della corretta lineetta di divisione (—), con cui si dovrebbero aprire e chiudere gl’incisi, che dà qualche disturbo alla lettura, come nel caso di crudele-sottrarre anziché crudele — sottrarre (p. 44).

Tuttavia, complessivamente questo lavoro d’esordio della Capozzi si può giudicare valido sia per contenuto che per forma e merita un giusto apprezzamento. Infatti la preparazione, le interpretazioni, i commenti, le inferenze, l’abilità espressiva e l’affabulazione capace d’interessare i lettori fanno sì che l’autrice si qualifichi come una degli studiosi più seri e promettenti del nostro tempo. Ed è molto probabile che lei in futuro segua la carriera accademica, alla quale dimostra d’essere naturalmente portata.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, mag.-giu. 2010]


Bruno Carmeni, Judo per noi / Judo per ciechi sportivi / Judo da colorare, Print House, Cortina d’Ampezzo, 1997.

PUBBLICAZIONI DI BRUNO CARMENI

Sono innumerevoli i meriti atletici, didattici e sociali, nonché i titoli e le cariche del maestro-arbitro di judo Bruno Carmeni, che si può definire cosmopolita in quanto nato in Libano, diplomato in Giappone e operante a Conegliano. Fra l’altro ha partecipato alla prima Olimpiade di judo a Tokio, ha vinto la medaglia d’argento ai campionati europei di Ginevra e numerose altre medaglie. Con 21 presenze in nazionale e 7 campionati d’Europa, è stato 44 volte finalista ai campionati nazionali e 7 volte campione d’Italia.

Dopo Il judo come mezzo di educazione fisica moderna, sono ora uscite (tutte per i tipi della Print House di Cortina) altre sue pubblicazioni pedagogico-sportive, e qualcuna è stata anche tradotta in inglese.

Judo per noi è un’opera non solo di divulgazione del judo, ma principalmente di pedagogia ed educazione in generale. Partendo da un pensiero di Socrate, essa fra l’altro tratta dell’origine e delle funzioni del gioco, della differenza fra educazione fisica e sport, della filosofia dell’educazione, dell’attività motoria come base dello sviluppo e di questioni caratteriali e comportamentali. Judo per ciechi sportivi, dopo una classificazione delle patologie e minorazioni visive, tratta delle attività sportive compatibili, ed in particolare del judo, dimostrandone i benefici fisici, morali e sociali e fornendo gli opportuni suggerimenti tecnici. Infine Judo da colorare è un simpatico libro-quaderno che istruisce i piccoli divertendoli.

Questi libri abbondano di schemi, grafici e tabelle; e oltre che per le note pedagogiche, sono utili anche per quelle storiche, filosofiche, mediche e ambientali.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 7.I.1999]


Giuseppe Carrieri, Aria d’ottobre, Convivio letterario, Milano, 1957, pagg. 96, £ 700.

IL POETA CALABRESE GIUSEPPE CARRIERI

Il poeta calabrese Giuseppe Carrieri (San Pietro in Guarano 1886 - 1968) di professione faceva l’avvocato, ma la sua passione fu la poesia, con occasionale pratica anche del giornalismo. I suoi esordi poetici risalgono al futurismo, quando ai primi del ‘900 s’unì al Marinetti e produsse sillogi (Tepori e fiamme: odi barbare e Fantasime) che cantavano sì il progresso e la tecnologia, ma con accenti quasi romantici, espressi anche in Perdute liriche; e, quando altri futuristi esaltarono la guerra come “unica igiene del mondo”, egli cantò la vittoria con parole pacate che, pur nell’entusiasmo, non avevano il parossismo da altri manifestato e si limitavano a qualche stranezza di punteggiatura: “Vittoria ! / A mezzo la notte di pioggia / I torrenziale; / ! al pallido lume del fanale, / ritto sul bivio che foggia / due ali verso la tenebra, / l’uomo si ferma ad ascoltare / la voce del cuore suo. / — uomo che sceso dal mare / delle grandi vertigini / vuoi al di là della vita navigare, / e che fai protendere alla nave dei sogni tuoi / il rostro verso le fiamme / della lotta e della temerità […] ”.

In effetti il Carrieri s’era trovato futurista per aver collaborato alla rivista “Poesia” del Marinetti stesso, ma non prediligeva gli eccessi. Perciò fu un futurista sui generis; e dopo un silenzio d’una quarantina d’anni ritornò alla poesia con voce rinnovata, in atteggiamenti che ci ricordano il Decadentismo ed il Crepuscolarismo per la soffusa malinconia e la profondità dei sentimenti. Appartengono a questo secondo periodo le sillogi Sonetti del Rosario, Le canzoni del novilunio, Evanescenze, Aria d'ottobre e Già il dominio dell'erta.

L’importanza della sua personalità emerge dal fatto che egli fu tradotto all’estero, ottenne vari premi prestigiosi (fra cui il “Matese”, il “Penna d’oro del Convivio letterario”, il “Città di Cosenza” e il “Città di Palermo”), fu presidente dell’Accademia Cosentina, oltre che della biblioteca civica, e la piazza principale del suo paese natale è a lui intitolata.

Quando alle Terme Luigiane di Guardia Piemontese la sera del 14-9-1958 “con affettuoso cuore” (come risulta nella personale dedica tracciata in prima pagina) egli volle donare ad un giovane scrittorello d’allora, qual ero io, il suo libro Aria d’ottobre, subito m’accorsi che si trattava d’un signore cortese e distinto; e poi, quando lessi il libro, lo ritenni di particolare valore. Però col trasferimento dalla Sicilia al Veneto, avvenuto l’anno successivo, purtroppo tale libro scomparve dalla mia vista e dai miei interessi. Soltanto oltre mezzo secolo dopo fortunatamente esso m’è ritornato fra le mani: e l’ho riletto più volte con vivo compiacimento, soffermandomici a lungo.

Aria d’ottobre di Giuseppe Carrieri (Convivio letterario, Milano, 1957, pp. 96, £ 700) è uno di quei libri che fin dalla prima lirica avvincono il lettore e lo trasportano in un’atmosfera di sogno, favorita dal mese incline alla fine dell’anno e alla malinconia: “Aria d’ottobre, opaca di canzone, / dove la vita è cenere a stagione.” (p. 17). Si nota subito che il linguaggio è forbito, quasi aulico, eppure tenue e ovattato, con vocaboli efficacemente posizionati, rime improvvise anche interne, allitterazioni ed onomatopee, in un tessuto dolcemente melodico e spesso in sonanti endecasillabi. Ogni tanto s’incontrano lineette, quasi a costituire pause di riflessione: parole frequenti sono “sogno” e “malinconia”, ma non mancano attese, pallori, tremori, “torpori semispenti, / — respiri della vita tratta a stenti” (p. 17).

A volte la sua poesia diventa epifonema: “Quando nel nulla il velo si dilegua / germoglia la tua vera eternità” (p. 39). E se qualcuno pensa che tutto ciò sia Romanticismo, il poeta risponde: “Romanticismo? E sia! / Non è forse romantica la via, / popolata di sogni, / che, a luci spente e sulla pietra amara, / o cuore, ritrovi con te stesso a tutte l’ore?” (p. 41). Su questa stessa scia, in “Aprile d’altri tempi” il poeta scrive: “Anima, tu le hai le tue viole / sepolte dalle fole, / ma nel sopito cuore di velluto / hanno come di vita acre un sentore, un solo scialbo odore.” (p. 44).

Anche se ottobre ritorna ancora nelle ultime pagine con il suo ultimo afflato, nel libro non c’è soltanto questo mese con le sue caratteristiche stagionali: c’è un alternarsi di stagioni e di mesi, di sole e di luna, di fiori e di frutti, di luci e di colori, mentre lo stato d’animo è sovente quello d’una pacata tristezza. Si susseguono sere e vespri, tramonti e arcobaleni, nebbie e chiarori, vigne e vendemmia, fontane ed erba nuova. Ci sono pure feste come Pasqua e Natale. Anche maggio, pur con le sue rose, porta malinconia; e in novembre il cielo è livido e piovorno.

In settembre c’è un “pallore di rose / velate dal giorno che muore” (p. 55). Il poeta insiste su qualcosa che fu: “fumido il tempo che fu […] la dolce canzone che fu […] la febbre di un sogno che fu […] un tempo / che non è più […] il tempo che fu” (pp. 55-58). E all’inizio di “Tempo di vespro” il poeta intona un musicale canto di gioia, in cui “Queste giornate pigre settembrine” gli sembrano “ricami fiorentini d’ombra e sole” e “giornate, quasi brianzole” (p. 66).

In questa silloge ci sono aneliti d’eterno e d’infinito, che s’esprimono con lo smarrimento dell’anima di fronte all’“Incantesimo” della natura: “La campagna in rigoglio è come assorta, / d’infra un gioco di mussole, e di trine, / nel fascino fecondo d’erba e sole” (p. 86). E ci sono anche liriche d’impegno civile: un ricordo dei caduti della seconda guerra mondiale evocati dalla campana di Rovereto; un inno alla bandiera italiana, che “È il vessillo segnacolo di Patria, / passione che le ascese in luce fonde: / quella che d’un sol nome i cuori ammalia. / La luce che di vita ha il nome: «ITALIA»!” (p. 90); e in chiusura un omaggio alla gente della sua terra: “Gente paziente della mia Calabria, // dove la fede è grano non mietuto, / dove la sera semina speranze, / per il novello giorno, / pur sulle amaritudini dei picchi” (p. 91).

In sostanza quella di Giuseppe Carrieri sembra una poesia d’altri tempi, quasi carezzevole eco proveniente da un lontano e gradito passato, talora timida e soffusa in sordina, ma sempre attuale e valida, che si colloca in eccellente posizione nel panorama del Novecento.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2012]


Alfio Cartalemi, Michelangelo Virgillito e il suo amore per Paternò (saggio), Associazione Gazzetta rossazzurra, Paternò, 2024, pagg. 168.

Prefazione

Il comm. Michelangelo Virgillito (Paternò 1.1.1901 – Milano 27.8.1977), imprenditore finanziario e benefattore da qualcuno definito “il commendatore più pio d’Italia”, durante tutta la sua vita compì molte ed importanti opere di pietà, devozione e carità in varie località: Milano (città in cui risiedeva), Sanremo (IM), Passo del Gavia (BS), Oggiono (LC), Loano (SV), Serra Sant’Abbondio (PU), San Giorgio Morgeto (RC), Linguaglossa (CT) e molte altre: ma la beneficenza più consistente la elargì a favore di Paternò (CT), luogo natio.

Egli è morto da quasi mezzo secolo, dopo aver lasciato tutti i suoi beni ai poveri di Paternò, anche se poi quasi metà del suo patrimonio fu attribuito per transazione ai reclamanti nipoti; ma a distanza di tanto tempo il Comune di Paternò non gli ha eretto un monumento (che potrebbe sorgere ai Quattro Canti, in piazza S. Francesco di Paola, nel piazzale del santuario della Consolazione o altrove) e nemmeno gli ha intitolato una piazza o via (che potrebbe essere l’attuale via Provvidenza Virgillito Bonaccorsi, madre di Michelangelo, variando la denominazione), anche se in passato gli è stata intitolata una scuola materna. Una vera vergogna, questa ingratitudine! Eppure egli a Paternò aveva costruito o restaurato parecchie chiese, principalmente il predetto santuario della Consolazione, aveva finito di costruire e arredare l’ospedale cittadino, aveva costruito sedi di varie opere sociali, aveva acquistato un pozzo d’acqua potabile per dissetare i suoi concittadini e soprattutto aveva istituito una Fondazione per soccorrere in perpetuo i poveri di Paternò, avendo nel cuore e nella mente fino all’ultimo momento della sua vita la sua città natale.

E se poi egli decise di farsi seppellire nell’eremo benedettino di Fonte Avellana (PU) — quello ricordato anche da Dante in Par. XXI 106-111 — e lasciò vuoto il posto da lui stesso fatto predisporre quale sua sepoltura nello stesso santuario della Consolazione, ciò avvenne a causa di certe delusioni avute da Paternò.

Ora questo libro d’Alfio Cartalemi, che rivede e raccoglie una serie di suoi articoli pubblicati per oltre un anno nella paternese “Gazzetta rossazzurra”, in qualche modo rende giustizia a questo straordinario personaggio, sopperendo alla biasimevole negligenza delle diverse amministrazioni comunali che si sono succedute in questo lungo lasso di tempo, e di fatto viene a sostituire quel monumento che col bronzo o il marmo non gli è stato mai eretto.

Ad onor del vero la prima idea di scrivere un libro sul comm. Virgillito era venuta nel 2008 a Pippo Lo Faro, che aveva compilato un fascicolo di notizie, poi rimasto inedito in conseguenza della sua morte; ma è significativo anche quanto scritto sul benefattore in giornali o libri da Enzo Castorina, Barbaro Conti, Nino Lombardo e altri.

Circa l’origine dell’immensa ricchezza del Virgillito una voce ricorrente vuole che i due ricchissimi ebrei milanesi (marito e moglie) presso cui l’imprenditore alloggiava, prima della prevista e temuta deportazione verso i fatali campi di concentramento dove poi trovarono la morte, non avendo eredi, abbiano ceduto a lui, al quale s’erano molto affezionati, tutti i propri beni, mobili e immobili. Quindi tutte le beneficenze da lui stesso poi fatte sarebbero in suffragio della loro anima, oltre che ovviamente della propria. Ma a questo proposito nessuno ha portato delle prove documentarie.

Sulla base d’una dettagliata documentazione, invece, il Cartalemi scandaglia la vita del Virgillito e dimostra che la sua fortuna lui se l’è fatta da sé, partendo dal nulla, si potrebbe dire secondo il detto virgiliano Audentes fortuna iuvat (“La fortuna aiuta chi osa”, cioè gli audaci: Eneide, X 284): e ciò egli fa soffermandosi su compravendite, fortunate iniziative e operazioni borsistiche, specialmente quelle più ardite; non tralasciando questioni giudiziarie, citando avvocati, segretari e altri collaboratori e riportando anche delle opinioni.

In questo lavoro s’apprezza subito la meticolosità delle ricerche eseguite dall’autore e stupisce il fatto che egli, a distanza di tanto tempo, sia riuscito a rintracciare e citare giornali e riviste di quell’epoca, anche a carattere nazionale, spesso riportandone ampi stralci. Stupisce anche la precisione con cui discute di persone, luoghi e date: segno dell’abbondanza del materiale raccolto e catalogato con passione, costanza e tenacia. E fra gli amici del Virgillito un posto di rilievo riserva al dr. Enzo Castorina, noto impiegato comunale, giornalista e narratore.

Parlando di politici ed ecclesiastici, egli accenna ai rapporti del Virgillito con l’ing. Rosario La Russa, con gli avvocati Nino La Russa, braccio destro di lui per vari anni, Gaetano Pulvirenti, Barbaro Lo Giudice e Nino Lombardo, nonché a quelli con il prevosto Antonino Costa, l’arcivescovo Guido Luigi Bentivoglio, la Santa Sede e l’ordine domenicano: e a quest’ultimo riguardo, pur mettendo in luce l’esemplare apostolato del priore Enrico Berger, non manca di sottolineare le tensioni intervenute in seguito al chiacchierato comportamento d’alcuni frati e la sostituzione dei domenicani con gli orionini nella gestione del santuario della Consolazione.

Quanto al personale intervento politico del comm. Virgillito nella campagna elettorale paternese del 1956, a cui fu invitato dalla D. C. locale che lo fece venire da Milano per sostenere il candidato Barbaro Lo Giudice — intervento qui opportunamente ricordato dal Cartalemi — esso era dovuto al timore da parte del Virgillito stesso che una dispersione di voti dei cattolici potesse favorire i comunisti, i quali in quel periodo mostravano una forte grinta anche a Paternò: basta ricordare che sulla facciata della chiesa del Rosario una mattina erano apparse due scope incrociate a ics, segno d’una decisa volontà di far pulizia di tutto ciò che aveva a che fare coi preti. Il Virgillito, dunque, temeva che una loro affermazione potesse nuocere sia ai valori in cui egli fervidamente credeva sia alle opere da lui stesso edificate o sostenute. In pratica egli paventava che le opere da lui realizzate a beneficio della religione e del popolo venissero sovietizzate. Ecco perché egli a mezzanotte meno dieci del 25.5.1956 (cioè dieci minuti prima della scadenza della campagna elettorale), dopo un comizio tenuto dal suo omonimo cugino avv, Michelangelo Virgillito, apparve sul balcone soprastante l’altarino di S. Barbara sito in piazza Indipendenza e concluse il suo brevissimo intervento davanti ad una folla straripante con queste parole: “Io ho amici in tutte le liste e perciò vi dico: votate per chi volete. Io voto per la Democrazia Cristiana”. Però l’indomani (vigilia della festa della Consolazione), in un volantino fatto circolare dal preside Giuseppe Musarra, candidato nella lista civica dell’avv. Gaetano Pulvirenti, tali parole furono riportate con una interpolazione: “Io ho amici in tutte le liste e perciò vi dico: votate per chi volete. Io a Milano voto per la Democrazia Cristiana”. Il senso di quest’integrazione era giusto, ma l’accenno a Milano non fu fatto dal Virgillito.

Più volte l’autore, poi, mette in risalto la grande pietà e devozione del comm. Virgillito, senza ignorare alcune critiche dallo stesso ricevute, particolarmente in occasione del suo dono alla statua della Madonna d’una preziosa corona aurea, pesante quasi dieci chilogrammi e del valore nel 1961 di mezzo miliardo di lire, utilizzando il quale invece si sarebbe potuto alleviare la povertà di molti bisognosi: e per giunta quella corona così costosa poi non fu più posta sulla statua, essendo stata depositata nel forziere d’una banca per paura di qualche furto. E al riguardo il Cartalemi riporta una “stanza” al vetriolo d’Indro Montanelli apparsa nella milanese rivista “La Domenica del Corriere” del 31.12.1961, in cui il notissimo giornalista e scrittore dimostrava d’ignorare le beneficenze fatte dal nostro benefattore; ma subito dopo fa seguire una lettera di risposta dell’ing. Rosario La Russa, allora sindaco di Paternò, il quale demoliva una per una le insinuazioni del Montanelli, fornendo un lungo e dettagliato elenco di tutte le opere caritative eseguite dal commendatore.

Parimenti l’autore demolisce e respinge con fermezza tutte le accuse lanciate dal programma televisivo “Report” di RAI 3 in data 8.10.2023 contro il comm. Virgillito e la famiglia La Russa.

Relativamente alla Fondazione voluta dal Virgillito, l’autore si dilunga sulla vertenza insorta fra i rappresentanti dei legatari del testamento e i nipoti del Virgillito stesso, in ciò dando largo spazio ad avvocati, notai e giudici, di cui trascrive atti e altri documenti con la specifica terminologia tecnico-giuridica. Il commendatore i suoi nipoti li aveva sempre trattati bene e più volte li aveva lautamente beneficati; ma alla fine volle lasciare tutti i suoi beni ai poveri di Paternò. Quindi l’autore accenna al ruolo svolto dagli avvocati Vincenzo La Russa e Francesco Mazzei in difesa del Comune di Paternò, ma soprattutto mette in risalto quello svolto dall’insegnante Nino Tomasello, suo fraterno amico e sua privilegiata fonte di notizie, il quale molto s’impegnò nella difesa degl’interessi dell’istituto assistenziale di cui allora era presidente e in generale in quella di tutti i poveri di Paternò.

Ed è a questo suo amico che il Cartalemi dedica quest’opera per esaltarne non soltanto la zelante e riuscita attività di mediatore in questa complessa vicenda, ma più in generale anche l’impegno di sindacalista e studioso attento alla vita e alla storia di Paternò, per la cui conoscenza il Tomasello stesso, improvvisamente scomparso nel 2022, ha lasciato fondamentali volumi tesi a favorire la nascita di quella che lui definì “banca della memoria”. Fra l’altro l’autore rivendica al Tomasello il merito d’essere stato propiziatore del totale lascito ereditario a favore dei poveri di Paternò, ritenendo che le centinaia di telegrammi spediti nel 1974 dalla popolazione di Paternò al commendatore dietro suggerimento dello stesso Tomasello per l’acquisto e dono della sorgente d’acqua abbiano pochi giorni dopo determinato la decisione testamentaria a favore dei poveri della stessa città.

Da quanto sopra esposto si desume l’importanza di quest’articolato e paziente lavoro del Cartalemi, per il quale egli stesso può essere considerato un cittadino benemerito, dato che ha tratteggiato — insieme con la biografia del Virgillito e le connesse vicende di domenicani e orionini — la storia d’una feconda e per certi aspetti felice e favolosa stagione della città di Paternò.

Infine molto interessanti risultano le numerose fotografie d’epoca inserite, anche se a volte ripetute, ma è un peccato che esse non abbiano didascalie; come è un peccato che il libro alla fine non contenga un indice dei nomi e una bibliografia (anche se accennata nel corso della trattazione).

Conegliano, 16.2.2024.

Carmelo Ciccia

[pref. a Michelangelo Virgillito e il suo amore per Paternò (saggio), Associazione Gazzetta rossazzurra, Paternò, 2024]


Pino Caruso, Il silenzio dell'ultima notte, Flaccovio, Palermo, 2009, pagg. 148, €. 14.

Recensione alla silloge poetica di Pino Caruso

Profondità di pensiero ed introspezione sul filo della notte e del silenzio

Càpita che gli attori comici — con le loro battute e scene tendenti all'ilarità, all'ambiguità e addirittura alla volgarità — dimostrino superficialità e materialismo, con assenza d'introspezione e di problematiche. Ma non sempre è così: il siciliano Pino Caruso, ben noto al pubblico teatrale, cinematografico e televisivo di tutt'Italia, nel libro di liriche Il silenzio dell'ultima notte (Flaccovio, Palermo, 2009, pp. 148, €. 14) fin dal titolo rivela una profonda interiorità e pensosità. Egli ha già pubblicato altri libri, fra cui L'uomo comune che nel 2005 vinse il premio “Palma d'oro” al festival dell'umorismo di Bordighera (IM).

Premesso che egli dichiara di scrivere “per il piacere / puro / di parlare anche / al mio futuro” (p. 30), l'autore nel libro in esame raccoglie una serie d'osservazioni e riflessioni relative alla natura (particolarmente al mare) e alla propria solitudine in un contesto esistenziale del quale stenta a capire meccanismi e finalità. La silloge si snoda sul filo della notte e del silenzio, parole — queste ultime — che partendo dalla copertina ritornano frequentemente all'interno, perché la notte col suo silenzio suscita vari pensieri, particolarmente quelli inerenti all'ultima notte, cioè alla fine della propria parabola, quando i pensieri stessi “scenderanno / nel mare / per dormire / con i pesci nel fondale” (p. 12). Perciò alcune liriche sono scritte in treni, alberghi e spiagge, specialmente di notte (la quale porta consiglio), quando chi come l'autore è più portato alla riflessione, magari osservando mare, cielo, nuvole e luna.

In queste elucubrazioni più volte viene chiamato in causa Dio, al quale l'autore rimprovera d'“aver lasciato / a sé / tutta la conoscenza” (p. 19), di nascondersi se c'è fingendo di mostrarsi (p. 20), magari preferendo l'uomo che crede in lui per precauzione (p. 21): quel Dio che potrebb'essere il pittore inesistente d'un disegno mal riuscito (p. 78) e che ad ogni modo egli prega di chiamarlo “con delicatezza / senza strappi / dalle radici / che lui stesso ha voluto / che lui stesso ha inventato” (p. 125), allorché i suoi sogni si spezzeranno e non potranno essere portati via.

L'autore si chiede che sarà dopo la sua morte e s'immagina in qualche situazione o forma fantastica. Tuttavia egli spera nella poesia e ne proclama la perenne validità, scrivendo: “L'unico pensiero possibile / che travalica la sostanza / del tempo è la poesia / che riscatta gli impedimenti / della maligna sorte / e la mattanza della morte” (p. 78).

Molte liriche contengono immagini colte al volo, aneliti e fremiti, come quello del lumino nella bottega per la morte d'una zia. Talora s'incontrano scenari cittadini, vie e piazze di Palermo, Mondello, Catania, Roma, Parigi, Salisburgo: e in quest'ultima città egli sente echeggiare le melodie mozartiane ed aleggiare lo spirito del grande musicista. E a volte le passeggiate per il mondo avvengono tramite il calcolatore elettronico, dato che in effetti l'autore configura lo svolgimento del libro come un andare per il mondo alla ricerca di sé stesso, di Dio, del perché della vita e della morte, dell'aldilà.

È vero che in alcune liriche, per l'oscurità del dettato, non appare chiaro l'intento divulgativo; ma in genere il giudizio che si può dare del libro è positivo. La tecnica compositiva è buona: ci sono frequenti rime e assonanze e il taglio dei versi favorisce la riflessione. Inoltre la parte finale, intitolata Dissolvenze / Poesie di gioventù, presenta liriche che per titoli hanno dei numeri romani e si risolvono in quadretti impressionistici, ricordi nostalgici, pillole di saggezza. E la silloge si chiude con un'immagine di grand'effetto: “”Muore nell'orto un verso di cicala / alle lontane linee il giorno esala / la luce” (p. 139).

Dal punto di vista grafico-editoriale il libro è decoroso e non contiene refusi. Si notano imprecisioni soltanto in una locuzione latina (p. 59) e nella citazione dell'ultimo verso del Paradiso di Dante; mentre “Ti crede” riferito a Dio avrebbe dovuto essere “crede in Te” (p. 21) e quello ch'è detto “sottofondo” dello schermo del computer avrebbe dovuto esser detto “sfondo” (p. 84). Inoltre i termini stranieri non hanno la necessaria differenziazione tipografica.

Con tutto ciò questa silloge si colloca degnamente nella produzione poetica del nostro tempo.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, febbr.-marzo 2014]


Maria Rita Ceccon, Blu, Stampa in proprio, Falzé di Piave, 2000, pagg. 40, s. p.

LE POESIE DI MARIA RITA CECCON

Fresco e agile, è appena uscito il primo libretto di liriche di Maria Rita Ceccon dal brevissimo titolo Blu (stampa in proprio, Falzé di Piave, 2000, pagg. 40). Sebbene sia al suo esordio, l’autrice dimostra di avere una notevole dimestichezza con la poesia, di cui sa usare appropriati registri. S’intuisce il pudore con cui ogni nuovo autore si presenta al pubblico, ma in questa raccolta umiltà e sicurezza si abbinano felicemente.

La poetessa canta le piccole cose, come il minuzzolo di pane o la cipolla o i vicoli dimessi, e si esalta per il meraviglioso alternarsi e variare delle stagioni, ma ciò non comporta oleografiche descrizioni, bensì riflette i suoi stati d’animo: in ogni particolare di tempo e luogo c’è una risonanza della sua anima, ci sono sentimenti, ricordi, attese e speranze, lievi malinconie.

In “Follina, ore dodici” lei unisce osservazione ad esaltazione: “Follina, / chiare, liquide le tue membra / nella cuna d’argilla e pietra / Si nota che la Ceccon non ha grandi problemi: pur con qualche rimpianto, ama la vita così com’è e l’accetta con serenità, cogliendo sempre il lato positivo.

Certamente in questo libretto ci sono echi pascoliani e dannunziani, ma l’impianto è personale. Semplicità, correttezza (salvo qualche refuso), delicati sentimenti, sottesa musicalità e buona tecnica espressiva rendono apprezzabile il lavoro di questa poetessa e pittrice.

timidamente distendi. / In un trastullo di archi / le celi, le riveli, le maturi: / inquieta onda sola, all’ignoto, / gorgogliando va...”. Così il rifarsi a ricorrenze religiose, come il Natale e la Pasqua, nasce da radicate convinzioni e ideali.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 11.IV.2000]


Mimmo Chisari, Ducezio e i Siculi, Boemi, Catania, 2009, pp. 88, s. p.

“Ducezio e i Siculi” di Mimmo Chisari

La Sicilia: nel mito, nella storia e in recenti scoperte archeologiche

Il libro del paternese Mimmo Chisari Ducezio e i Siculi (Boemi, Catania, 2009, pp. 88, s. p.) nella sua modestia grafico-editoriale contiene un lavoro di ricerca serio e corposo che fa luce non soltanto su un lungo periodo della storia della Sicilia Antica, ma anche sulle recenti scoperte archeologiche nei dintorni di Paternò (CT). Rifacendosi principalmente allo storiografo Diodoro Siculo (sec. I a. C.), l’autore delinea la vicenda militare e politica del condottiero Ducezio (sec. V a C.), che, con una serie di vittoriose imprese, guidò i Siculi alla riscossa e resistenza contro i Greci invasori.

Premesso che il vero nome personale di questo personaggio è ignoto, dato che il termine “Ducezio” è collegabile al latino dux = “condottiero”, l’autore ritiene improprio il titolo di re con cui solitamente lo si qualifica. Insieme con la vicenda di Ducezio, propulsore della “migliore autocoscienza dei Siculi”, l’autore delinea la storia dei Siculi stessi, a partire dalla loro presunta provenienza dal Lazio, quando essi si stabilirono in Sicilia (da loro così denominata), dove già abitavano i Sicani, provenienti dalla Liguria, ma di presunta origine iberica.

In questa storia, prevalentemente fatta di guerre, nomi e date, non mancano notizie relative ai costumi, all’arte, alla lingua e alla religione. A proposito di quest’ultima l’autore nota che essa era fondata sul culto della Madre Terra e sul vulcanesimo, il quale metteva in contatto con le divinità residenti in grotte sotterranee simili a uteri, ricordando che Eschilo fu il primo scrittore ad introdurre divinità indigene nella mitologia greca. Il Chisari discute circa l’ubicazione di varie città antiche (Morgantina, Palica, Ibla, Inessa, Etna, ecc.) e anche circa quella di celebri santuari; ad esempio, egli pone il santuario della dea iblea nella zona delle Salinelle di Paternò, in considerazione della presenza di numerosi condotti vulcanici in quella località, mentre altri lo hanno posto sull’acropoli della stessa Paternò, dove pure c’era un vulcanetto eruttivo e dov’è stata scoperta l’ara dedicata alla Venere Vincitrice Iblense: senza dimenticare che la chiesa matrice (1) di Paternò in precedenza potrebbe essere stata un tempio della dea Madre Terra e quindi d’Ibla e di Venere.

L’autore qui torna sulla divinizzazione della donna, di cui s’era già occupato in altro studio, e ne attribuisce i motivi al fatto che in quella società erano le donne che lavoravano la terra; e quindi si aveva la successione donne-lavoranti, donne-dominanti, donne-dee. Egli passa poi ad esaminare i miti siculi dei gemelli Palici, del dio Adrano coi suoi cani cirnechi e della Kore Persefone. Al riguardo è molto interessante quanto l’autore riferisce a proposito delle porte dell’Ade, dal gesuita Giovanni Andrea Massa nel sec. XVIII collocate alle falde dell’Etna, sopra Belpasso (CT), e sorvegliate da cani rabbiosi e aggressivi contro i peccatori.

In sostanza il Chisari delinea una grande civiltà, quasi rimpiangendo la fine dell’ethnos siculo sotto la pressione della colonizzazione greca: e al riguardo fornisce documenti della lingua sicula, ancorché non ancora con certezza interpretata, augurandosi alla fine che l’epos dei Siculi possa essere meglio approfondito, per una storia siciliana ancora più ampia.

Là dove storia e mito facilmente s’intrecciavano, sorse poi il mito dello stesso Ducezio, di cui diverse località si contendono i natali e a cui sono state attribuite diverse opere.

Il testo del Chisari è chiaro, scorrevole e fondamentalmente corretto; e la narrazione — probabilmente finalizzata alle scuole — è avvincente e si correda d’utili fotografie (di siti archeologici, statue, armature, tombe, del Simeto e delle Salinelle), d’incisioni di Mario Girolamo Ruffino e d’una mappa della Sicilia Antica, anche se fra i centri siculi non risulta localizzata con asterisco Ibla Maggiore.

Le fonti su cui si basa il lavoro sono molte e attendibili; e di conseguenza ricca, articolata e imponente è la bibliografia fornita, anche se le relative indicazioni non rispettano la prassi tipografica. Altre imperfezioni formali consistono nella mancanza degli accenti in alcune parole greche, in quella del carattere corsivo in molte parole greche e latine e in quella del numero delle pagine di riferimento per certe citazioni di libri; nell’errata trascrizione d’espressioni francesi; in sporadiche ripetizioni, virgole fuori posto e altri refusi.

Tutto sommato, però, questo lavoro di Mimmo Chisari è rilevante e sicuramente apprezzabile fra quelli del suo settore.

Carmelo Ciccia

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1) La forma corretta del termine è matrice, e non madrice come nel giornale “La gazzetta rossazzurra di Sicilia” (Paternò, 12.12.2009) scrive Fabrizio Rizzo, il quale — pur collocando il tempio della dea Madre Terra (e in successione d’altre divinità e della Madonna) sull’acropoli di Paternò — dichiara erronea la forma matrice. Cfr. C. Ciccia, Ibla e Paternò: alla scoperta dell’etimologia del nome della nostra città, “La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 15.I.2000, e Note linguistiche: matrice o madrice?, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 12.VII.2001.

[“L’alba”, Belpasso, marzo 2010]


Mimmo Chisari, Mulini ad acqua nella valle del Simeto, Prova d’autore, Catania, 2011, pp. 76, € 10.

Libri & Impressioni

IL PURGATORIO DI VINCENZO DELL’UTRI E I MULINI DI MIMMO CHISARI

…Mimmo Chisari, docente di liceo a Paternò e membro d’accademie e d’altre associazioni, oltre ad alcuni libri aveva già pubblicato degli articoli sul fiume Simeto, sulle acque e sui mulini, che ora ha sviluppato ed organizzato nel libro Mulini ad acqua nella valle del Simeto (Prova d’autore, Catania, 2011, pp. 76, € 10).

Fin dalle prime pagine ci s’accorge dell’originalità di questo lavoro, che per svariati motivi potrebbe anche diventare un valido sussidio scolastico. In esso l’autore, che ai mulini ad acqua della valle del Simeto dedica soltanto una ventina di pagine centrali, in realtà tratta d’altri argomenti contigui: l’acqua come bene primario, l’acquedotto romano di questa valle, le terme romane, i ponti romani, il Simeto negli antichi testi, i mulini ad acqua della restante Sicilia, il funzionamento dei mulini ad acqua, il Mediterraneo come mare di civiltà. Il lavoro, quindi, persegue interessi storiografici, archeologici, linguistici ed ecologici, fornendo notizie e commenti e riportando anche credenze e usi locali.

Lo scopo è quello di recuperare e salvaguardare opifici e manufatti d’un passato più o meno remoto, i quali sono stati alla base della pregressa civiltà, severa e fondata sulla fatica. E, dopo aver posto in epigrafe varie massime, qua e là inserisce riflessioni ed insegnamenti etici sul rispetto delle acque e del territorio in genere, i quali a volte sconfinano nella poesia: “I fiumi, dunque, sono mito e memoria, appartengono ai verdi paradisi dell’infanzia, quando la poesia dipinge il soave” (p. 23).

Grazie a questo lavoro il lettore può conoscere i tipi e ubicazioni dei mulini, le loro parti, i loro congegni, la loro nomenclatura dialettale, le loro regole; e può apprendere, ad esempio, che esisteva anche una località di nome Simeto e che i mulini spesso si trasformavano in covi d’eretici e di ribelli. E non mancano cenni d’arroganze, furbizie e imbrogli da parte di certi mugnai, simili a quel don Santo del lontano racconto “Santo, ricco e fortunato” di C. Ciccia del 1977 (ora in La brutta estate del ‘43 e antologia di storie paesane, C.R.E.S., Catania, 2004).

Qualche pagina finale della trattazione è di calda e suadente oratoria, atta a stimolare pensieri e azioni di bene. Fra l’altro l’autore scrive: “La Sicilia deve culturalmente riacquistare quella importanza strategica e quel ruolo di prestigio che ha avuto, nel passato, fino alla scoperta delle Americhe” (p. 58). E qui pone una citazione di Karl Schlögel su cui riflettere.

Oltre alla specifica rassegna precedentemente aggiunta al capitolo sul Simeto, conclude il lavoro un’appendice con una decina di pagine di bibliografia, da cui emerge l’imponente mole di letture (anche dell’antichità classica) che l’autore ha fatto prima d’accingersi a questa pubblicazione, la quale sicuramente denota preparazione, competenza e passione, e dal punto di vista grafico si presenta in bella veste editoriale, con stampa nitida ed impaginazione intelligente, contenendo anche fotografie di Roberto Fichera e Giuseppe Barbagiovanni.

Alcuni refusi e sviste sono: risente molto il problema (p. 14), su due fila (p. 17), suspensure (p. 18), un schiavo (p. 18), citatati (p. 19), Periagesi (p. 22), ymeto (p. 26), aliunt malunt (p. 27), l’acqua (p. 28), sicilia (p. 43, nota 21), Nel 1318 Gaetano Savasta (p. 45), sicilano (p. 46), Colleggiata (p. 46), dellla (p. 47), furono soppressi le case (p. 48), della sete (p. 51), Alcantera (p. 51). Inoltre il verbo serrare (= stringere, chiudere) è dialettalmente adoperato nel senso di segare (p. 55), le parole non italiane non sempre sono in corsivo e ci sono alcuni periodi privi di proposizione principale; e nella bibliografia poi alcuni nominativi non sono in ordine alfabetico, giornali e riviste non sono fra virgolette e i libri a volte mancano dell’editore o della località d’edizione.

In ogni caso, l’autore in quest’opera dimostra un lodevole amore per la natura, particolarmente per quella della sua terra.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2011]


VETRI APPANNATI

poesie di Giorgio Cipulat

“Riguardo il mondo / da questa trasparenza / che il fiato / appanna.” Questa dichiarazione apposta all’ini- zio del nuovo libro di liriche Vetri appannati del pievigino Giorgio Cipulat (I.B.A.P.E., Pieve di Soligo) ci dà l’idea del modo di porsi del poeta nei confronti della realtà esterna, la cui percezione è annebbiata dal suo stesso respiro e a volte dalla malinconia.

Le molte poesie senza titolo sembrano capitoletti d’una storia o d’una riflessione lunga e profonda, che investe la perenne problematica esistenziale. Spesso i versi sono librati fra terra e cielo e percorsi da una lene musicalità derivante dal ritmo e dalla metrica.

Eppure ci sono dei momenti in cui il poeta riesce ad osservare con vista limpida e scevra di malinconia: ed è quando ammira la grazia d’una città unica come Treviso. “Scorci trevigiani” sono otto liriche che costituiscono la sezione centrale e certamente la più affascinante della raccolta.

Qui il poeta descrive impressioni e sensazioni da altrettanti otto punti di vista: portico Soffioni, via Campana, le mura, i Buranelli, verdi conchiglie di giardini e ville, verdi acque, via Baracca, Treviso città d’acque e di storia. Questi versi nella loro concisione hanno i caratteri dei quadretti ad acquerello; tuttavia in essi il poeta non si è limitato alle solite pennellate coloristiche, ma ha saputo cogliere il pulsare della vita in un paesaggio immutabile, l’eterno trascorrere del tempo nel silente fluire delle acque, la lunga storia e i costumi d’una comunità, i segreti della provenienza e della destinazione d’ogni essere, compreso sé stesso.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 1.II.2000]


Giorgio Cipulat, Vetri appannati, I.B.A.P.E., Pieve di Soligo, 1999, pagg. 96, s. p.

POETI D’OGGI: CIPULAT, DEMARCHI, FALCONE

“Riguardo il mondo / da questa trasparenza / che il fiato // appanna". Questa dichiarazione apposta all’inizio dell’ennesimo libro di liriche “Vetri appannati” di Giorgio Cipulat (I.B.A.P.E., Pieve di Soligo, 1999, pagg. 96) ci dà l’idea del modo di porsi del poeta pievigino (concittadino del noto Andrea Zanzotto) nei confronti della realtà esterna e del contenuto del libro stesso. La percezione della realtà che giunge a lui – sempre stando a quello che lui stesso dichiara – è annebbiata o resa parziale dal suo respiro e quindi, di fatto, essa è soggettiva e personalizzata, per lui, come per ognuno di noi. Così è stato e sempre sarà. L’importante è convincersene, come lui se n’è convinto. Ma tale dichiarazione è anche l’esempio del modo di poetare del Cipulat. Le sue composizioni sono frequentemente senza titolo, quasi a costituire capitoletti d’un’unica storia raccontata o d’un’unica riflessione fatta: una riflessione lunga e profonda, che investe la perenne problematica dell’esistere, i suoi valori e i suoi disvalori, se ce ne fossero. In più esse sono brevi e concise, esponendo in pochissimi versi massime ed epifonemi, di cui si potrebbe raccogliere un vasto campionario e che, più che facili moralismi, appaiono come manifestazioni di quel buon senso che ognuno dovrebbe avere: insomma di quegli assiomi innati che Dante chiama “le prime notizie” (Purg. XVIII 56). Leggiamo – ad esempio – la lirica di pag. 50: “Quasi a un più intenso / azzurro volo / risalgo il colle // e spero. / Al dilagare violetto / dei serrati occhi / altro mondo penetro // e attendo.” Oppure quella di pag. 37: “Torbida d’avidità // s’insinua / l’impudica lettura della vita. / Lanceolate parole / precludono // patteggi d’amore.”

Ed è proprio in questa brevità che si concentrano sintesi, levità e musicalità. Spesso i versi del Cipulat sembrano librati fra terra e cielo e percorsi da una lene musicalità derivante dalle assonanze, dal ritmo e dalla metrica. Inoltre, la separazione e l’isolamento di certi vocaboli o versi e l’improvviso cambiamento di metro creano dei richiami visibili e delle pause di riflessione. Si legga ancora la lirica di pag. 18: “Stinge l’occaso. / Ad ali tremanti, / tra gl’impietosi lazzi della vita, / nel ricordo di luce insoddisfatta, / il rammarico, adunco, lacera ànsiti: / lembi abbozzati di felicità.”

In tutte le opere del Cipulat risalta il positivo effetto della metrica e in particolare dell’endecasillabo, oggi quasi scomparso, anche se è stato per secoli bandiera della poesia italiana. Sia ben chiaro che questo poeta, usando la metrica, non vuole essere un passatista: egli si serve anche d’essa per ottenere i voluti effetti tecnici. La sua tecnica è varia, andando dal vocabolo o costrutto aulico o inusuale di dantesca o dannunziana memoria a quella ermetica o non-senso di montaliana o zanzottiana memoria. La realtà è che lo stile del Cipulat è personale, anche se qua e là possono trasparire reminiscenze d’altri poeti.

E a proposito d’inusualità, premesso che nella poesia contemporanea non si può pretendere la chiarezza al 100 %, essendo spesso vario il suo intento, il quale può anche consistere in una studiata architettura, in un effetto fonico o visivo; premesso inoltre che in una valida poesia il linguaggio non dev’essere quello della quotidianità, perché chi crea ha bisogno di uscire da essa e rifugiarsi in un mondo nuovo e tutto suo, dotato d’una lingua da lui rivisitata o riplasmata: tuttavia ciò non autorizza il poeta a ricercare ed usare a tutto spiano parole che al lettore medio risultano incomprensibili in quanto raramente usate o obsolete o violentate o appartenenti ad un diverso registro espressivo. Infatti in questo caso la necessità di tenere a portata di mano dizionari, enciclopedie e calepini vecchi o nuovi da consultare continuamente può far venire la voglia di smettere la lettura e mandare alla malora un libro siffatto e il suo autore.

In realtà nella tecnica del Cipulat sono presenti sinestesie, onomatopee, ellissi, anafore, ipèrbati e forzature lessicali e grammaticali che non sempre rendono chiaro il dettato. Perciò certa sua poesia può riuscire difficile; ma fortunatamente non tutta è così; anzi, rispetto a precedenti raccolte, ora le difficoltà di comprensione sono poche.

In questo contesto va inserita una serie di composizioni “ad intreccio”, cioè due in una, del tipo A B A B ecc., in cui ogni verso appartiene ad alterne voci recitanti; e, mentre A è portatore d’un contenuto, B è portatore d’un altro contenuto: e nell’insieme la composizione consegue un effetto che potremo definire C, basato sulla musicalità o altro. Ora questo modo di procedere del Cipulat, già presente in altre composizioni e che tuttavia non è esclusivo della sua produzione, può essere definito “gioco tecnicistico”: esso è uno dei tanti suoi modi di fare poesia, cioè di creare qualcosa di personale, magari un quadretto: ad esempio, nella composizione “Mare=Parole” di pag. 31 la lunghezza e l’alternarsi dei versi, nonché il ripetersi più volte della lettera r, rendono bene l’idea visiva e uditiva dell’ondeggiare.

La tematica di questa raccolta di liriche è varia, puntando più che altro sull’osservazione e sull’espressione di sentimenti. A volte ci sono note autobiografiche, ma esse non sono l’esclusivo intento del libro. Al riguardo, infatti, è bene precisare che d’autobiografia ce n’è ben poca e ridotta a pochi versi, sebbene sporadicamente ritornante. Così si accenna all’illusione della gloria data dalla poesia, alla propria costituzione fisica e morale, agli effetti della guerra. Al poeta sono rimaste impresse certe omelie domenicali, in cui il prete ha facilmente alzato l’indice minaccioso, ma in cui egli ha trovato scarno il senso del divino. È – questo – uno dei temi ricorrenti della raccolta: segno d’una religiosità sofferta, che non s’accontenta del preconfezionato per acquietarsi, ma con autonoma ricerca e accettazione preferisce avere un senso personale del divino.

C’è anche qualche contraddizione: il poeta a pag. 69 dichiara di mangiare tranquillamente la carne d’animali, altrimenti non potrebbe mangiare nemmeno il pane pensando alla sofferenza della spiga; mentre a pag. 87 parla dei poveri tordi immolati nelle panie per succulenti spiedi.

Ma torniamo ai vetri appannati della finestra. Questa finestra, come in Pavese, a volte diventa simbolo dell'incomunicabilità e dell’impossibilità del poeta a conquistare la felicità esteriore: così la ricorrente primavera, col suo fascino, con le sue zàgare perennemente fluttuanti senza cicli stagionali sotto remoti assolati cieli, rappresenta l’impossibilità di raggiungere l’ebbrezza d’un vietato eden: “Zagare fluttuano / in ampie nuvole terrene / sotto remoti assolati cieli. / Come a precluse bellezze estreme / corre il desiderio / da iperborei climi.” (pag. 84).

Fin dalle prime pagine della raccolta l’appannamento è come una tendina che impedisce la piena fruizione della solarità e quindi con la sua opacità si configura come un velo di malinconia, di quella sana malinconia che pur non raggiunge mai i toni delle geremiadi bibliche o dello spleen francese, ma è amata da quasi tutti i grandi poeti e può apparire come la balaustrata di brezza dell’Ungaretti cui appoggiare la malinconia. Ed è proprio la malinconia una chiave di lettura di questi “Vetri appannati” di Giorgio Cipulat.

Eppure ci sono dei momenti in cui il poeta riesce ad osservare con vista limpida e scevra di malinconia: ed è quando osserva e descrive la grazia d’una città unica come Treviso. “Scorci trevigiani” sono otto liriche che – si può dire – costituiscono la sezione centrale e certamente la più affascinante della raccolta. Qui il poeta descrive impressioni e sensazioni da altrettanti otto punti di vista: portico Soffioni, via Campana, le mura, i Buranelli, verdi conchiglie di giardini e ville, verdi acque, via Baracca, Treviso città d’acque e di storia. Questi versi nella loro concisione hanno i caratteri dei quadretti ad acquerello, cosa a cui si presta benissimo Treviso, rendendo felici per secoli pittori e acquerellisti; tuttavia in essi il poeta non si è limitato alle solite pennellate coloristiche, ma ha saputo cogliere il pulsare della vita in un paesaggio apparentemente immutabile, l’eterno trascorrere del tempo nel silente fluire delle acque, la lunga storia e i costumi d’una comunità, i segreti della provenienza e della destinazione d’ogni essere, compreso sé stesso. Sarebbero da leggere tutte queste liriche, ma almeno quella conclusiva di pag. 61: “Treviso, // quale città / d’acque e di storia / già avesti il sommo canto / ed altro. // Io, invece, al verseggiare / confido così / solo quanto mi detta / il più lieve tuo respiro.”

Così, tra osservazioni, riflessioni, descrizioni, quadretti, massime e (sia pure misurate) note autobiografiche, si snoda questa corposa raccolta di “Vetri appannati” che spesso assume l’atmosfera d’una sognante aspettativa: un prodigio, una luce nuova, un’altra vita. Il poeta coglie il senso e la magia della vita, sgorgata quasi per un incanto; riconosce che s’è trovato a vivere per una misteriosa e meravigliosa avventura, protrattasi miracolosamente per giorni, mesi, anni: un’avventura, però, che prima o poi dovrà finire. Egli è grato per questa sua vita, come gli è stato donato di averla e di viverla: e allora per quando giungerà il momento della morte – questa morte che nessun uomo e a maggior ragione nessun poeta può mai ignorare – lascia l’ultima lirica, che è anche un testamento: “... e questa mia vita, / ritrovata nel sogno / oltre il sogno salvata, / quando giungerà all’ultimo verso, / perché altro non saprà che dire, / si lascerà morire. / ... e a testamento: // tutto // l’inesplorato lirico mio credo”. (pag. 88).

Perciò si può concludere affermando che Giorgio Cipulat, per il quale la poesia è come una seconda professione, è un autentico poeta serio, il quale in lunghi anni d’apprendistato ha fatto della poesia un’accurata ricerca stilistica, pervenendo a soluzioni sicuramente dignitose e apprezzabili, alle quali oggi nessuno potrebbe negare la sua attenzione.

Carmelo Ciccia

["Ricerche", Catania, lug.-dic. 2008]


Giancarlo Codato, Disamore, Compagnia del grecale, Milano, 1997, pagg. 6+38, £ 15.000.

Anzitutto ci colpisce favorevolmente l’eleganza di questo libretto, in cui il candore della carta, l’intensità dell’inchiostro e la dimensione dei caratteri rendono facilmente leggibile e fruibile il contenuto, mentre il disegno della rossa copertina (opera d’Antonio Piccinardi, come le altre illustrazioni del libretto) ci richiama quel mondo dell’agricoltura, della vite e del vino in cui Giancarlo Codato lavora. Ed è ammirevole che uno come lui, il quale non ha fatto studi umanistici, continui da anni a coltivare con tanto amore la poesia.

Il Codato, oltre alle numerose liriche sparse, ha pubblicato anni fa una riuscita raccolta dal titolo Nell’ora della sera (non “Nell’oro della sera” come ora erroneamente stampato nella nota biografica di retro-copertina), ispirata e dedicata a Cesare Pavese, di cui riprendeva contenuti e moduli. In questa nuova raccolta dal titolo Disamore continua l’ispirazione pavesiana, anche se col tempo sono maturati in lui nuovi interessi e nuove tematiche: segno che molto forte è stato il suo impatto col Pavese. È importante tener presente questo per evitare di dare d’acchito un giudizio negativo sul libretto a causa d’un andamento generale discorsivo e prosastico, dovuto a semplicità e paratassi.

La chiave di lettura di questa raccolta sta in quei due versi apposti a mo’ d’epigrafe in apertura (“Ogni uomo / va solo”), che non soltanto ci ricordano un analogo distico del Quasimodo, ma indirizzano il libretto in queste direzioni: da una parte solitudine, delusione, amarezza (contenuto) e dall’altra semplicità, stringatezza, sentenziosità (forma). Si scopre allora che nella vita del poeta ci sono stati sì giorni belli e “frizzanti”, ma anche occasioni mancate e illusioni/delusioni che hanno dato luogo a pungenti ma composti rimpianti, lontani ad ogni modo dalle geremiadi di certa produzione contemporanea.

Dice il poeta: “Passo le ore a raccogliere indizi / attraverso il vento lieve / e il bianco del mattino / che mi stringe dentro.” Dall’attenta osservazione della realtà e della vita è nata e si è consolidata in lui una saggezza antica, espressa in una sentenziosità che non ha nulla di cattedratico, ma rientra nel modo di riflettere d’ogni persona di buonsenso, la quale sa cogliere segni ed eventi senza superficialità. Ed è così che nascono epifonemi come “Momenti la vita / la morte lunghi anni” oppure “La vita è nell’aria / perduta dentro il giorno. / Vivi per raccogliere, / per capirne il segreto: / vai piangendo e gridando.”

Le liriche di questa raccolta non hanno titoli: così l’una si lega all’altra e l’intera raccolta si configura come un racconto. Questo è il racconto della vita di chi, pur avendo sofferto, non ha tante pretese, se è vero che per lui “Felicità è ricordare fanciulle, / piccoli scoiattoli, che insieme ballano / [...] / È uscir nel sole d’aprile / chiaro e basso / che tutto è incantato / sentire nell’aria vecchi giorni / il frizzante calore inondarti / la faccia a folate. / Ricordare quel poeta / sentir pungere il fresco / [...]”; oppure è felicità amare la propria donna nel calore d’un angolo, in una vita breve che unisce “come due foglie / abbandonate dall’autunno”.

Nella raccolta c’è una composizione degna di particolare attenzione: quella dedicata alla madre. Il poeta non fa la solita scontata lode, ma costruisce una figura ieratica, una personalità, un carattere, con riflessi anche sulla famiglia. C’è in questa composizione il vanto d’avere una madre “perfetta”: il poeta l’osserva nelle sue manie “care” e negli “occhi lucidi d’una leonessa” mentre essa scosta le tendine intenta a guardare l’infinito. La perfezione di questa donna sta anche “nella sua cultura di ieri: / di povertà e di guerra [...]. / Per amore o per gioco / votata ai figli suoi; come una madre austera.” E conclude: “Quando alla sera fissa / il cibo tra le nostre arse mascelle / stretta nel suo vecchio scialle, / noi ci stringiamo in Lei / se fischia il vento freddo / se negli occhi ci assale la paura / se una foglia che cade la vita appare.” Indubbiamente è la madre d’una volta, ma che dovrebbe essere quella di sempre: in lei, nel suo nome, nella sua immagine e nel suo ricordo, si ritrovano, si riuniscono e si stringono i figli in occasione di paure e avversità, per infondersi vicendevolmente coraggio e per seguirne l’esempio, magari quando lei non c’è più. È questa la madre che abbiamo avuto quelli d’una certa età e che, magari a notevole distanza dalla sua scomparsa, questi versi sanno evocare con commovente malinconia.

In Disamore c’è una soffusa atmosfera di decadentismo, un osservare la natura e il mondo con occhi innocenti di fanciullo (seppure d’un fanciullo cresciuto), un ripiegarsi su sé stesso ad ascoltare il palpito più profondo della propria anima. Ed è in considerazione dei momenti di grazia di questo libretto che si cerca di perdonargli refusi e sviste varie, anche gravi, come alcuni accenti mancanti, uno stridente “c’allontaniamo”, una punteggiatura che avrebbe dovuto esser meglio sistemata, oltre alla carenza di ritmo e a certe oscurità; e si può rivolgere all’autore — che pur ha bisogno d’una formazione più solida e di tecniche più affinate — un invito a proseguire nella strada della poesia.

Carmelo Ciccia

[“Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2008]


Giuseppe M. Conte, Il sogno di Eliàde e altre storie, Albatros, Roma, 2011, pagg. 98, € 11,50.

“Il sogno di Eliàde” di Giuseppe Conte

Vivere / essere, morire / non essere, infuturarsi in una vaga eternità

Nel 2004 lo scrittore molisano Vincenzo Rossi pubblicò due opuscoli rispettivamente intitolati Racconti: Una visita al cimitero / Il tarlo ed Epitaffi (Cronache italiane, Salerno), in cui alcuni defunti raccontano la loro vita e la loro morte. La stessa cosa avviene anche nella seconda parte del libro di Giuseppe M. Conte Il sogno di Eliàde e altre storie (Albatros, Roma, 2011, pp. 98, € 11,50, distribuzione Mursia). Il Conte, nato a Motta S. Anastasia nel 1936 e per molti anni docente d’italiano e latino e poi preside di liceo classico in Lombardia, ha pubblicato diversi libri, fra cui Mocta Sanctae Anastastiae: cronache di un villaggio nei secoli XIV e XV, Oltre le colline dei Sieli, Epigrafia inedita, La fine di una baronia, In vita e in morte di una patrizia romana, I garofani in collina, Marbries, La melagrana ossia la disegualità. E dopo aver dedicato gran parte della vita a studi e ricerche sul suo comune di nascita, portando notevoli contributi in campo storico, archeologico, epigrafico ed etimologico, ora egli torna alla poesia.

Il libro Il sogno di Eliàde e altre storie è una silloge di versi, ora lirici ora narrativi, distinta in tre sezioni, che presentano situazioni e sentimenti diversi, ma sempre nell’ambito d’un forte afflato poetico, spesso connotato da periodi brevissimi, da rime anche interne e da altri effetti melodici. In pratica si tratta d’un percorso distinto in tre tappe: il vivere/essere, il morire/non essere, l’infuturarsi in una sia pur vaga eternità.

Nella prima sezione c’è la storia del grande amore fra Eliàde (= figlio del Sole, forse del sole di Sicilia), che poi è lo stesso autore, per una Nice a volte chiamata Ni’cula: fra sentimento e passione, sogno e speranza, abbonda la pensosità, che di fatto caratterizza tutto il libro. Evocando la leggenda dell’amore di Melisenda e Jaufré Rudel e poi quella d’Isotta e Tristano, l’autore nota che il dolore affligge paurosamente e si chiede chi siamo e di che materia siamo fatti, osservando che un fiume è come il tempo, il quale scorre inesorabilmente. Così l’inseguimento dell’amore porta verso l’ignoto e il mistero, accennando alla perpetuità: “Finché altro tempo o altro luogo ossia non-tempo e non-luogo / saranno” (p. 34); e intanto s’ammirano i meccanismi della natura e le meraviglie della creazione, nell’ambito della quale i due amanti si sentono non più come umani congegni, bensì come fiori sbocciati improvvisamente e inaspettatamente. L’ambiente di quest’amore è solitamente Catania, più volte citata negli accenni alla via dei Crociferi, all’università, al caffè Caviezel, all’Etna e al Simeto. E l’autore conclude: “Noi crescemmo sul nulla. / Esposti al vento / della nostra età. Eppure forti e solo ricchi / di sole di cielo e di fuoco. / E non fu cosa da poco” (p. 31).

Nella seconda sezione, la più pregnante, c’è un ideale cimitero con una variegata casistica di defunti che parlano: un caduto italiano nella campagna di Russia del 1942 riesumato nel 1969; una ragazza-madre che, nonostante gl’incitamenti all’aborto, ha voluto ad ogni costo far nascere il figlio, il quale però poi morì fulminato a meno di vent’anni (e qui e altrove l’autore esalta la bellezza della maternità); uno che ebbe molte doti — bellezza, destrezza, fortuna e intelletto —, mentre ora la sua tomba non ha né fiori né preghiere né pianto né luce; una massaia reincarnata che dopo varie trasmigrazioni cerca la via del suo ritorno a Dio; un feto abortito, il quale si chiede perché la mamma ha fatto ciò, dato che “nei disegni del cielo / la mia presenza era già” (p. 52); un ubriacone spinto a calci nella fossa, dove però ora crescono fiori; una prostituta uccisa per gelosia da un innamorato, che lei ringrazia per averla tolta da quella condotta, anche se i preti hanno respinto il suo cadavere, non consentendo funerali in chiesa; un caduto tedesco di guardia al ponte (della Giarretta?) nel 1943 e ora al cimitero di Motta S. Anastasia; una ragazza straniera costretta alla prostituzione di strada e ora implorante aspre vendette contro i suoi aguzzini; un ragazzo acrobata precipitato a Catania in un esercizio temerario, già venduto sulla via dei bordelli ma ora contento di questa morte per lui indolore; un figlio diseredato, ma fornito d’ingegno e ricchezza in America, che giace a fianco del fratello erede ma sciocco e scialacquatore; un bambino morto nei bombardamenti del 1943 che chiede fiabe, mentre l’autore afferma che “Quando un bambino nasce / è una sfida ai nodi / della storia. Quando un bambino muore / è un insulto a tutto l’altro che esiste nel mondo.” (p. 68); una bambina con in testa una coroncina di fiori campestri, accanto ai genitori; un focoso amatore premorto alla sua sensuale amante; un padre che parla del figlio pilota pluridecorato, caduto a vent’anni e sepolto a Torino, mentre l’autore sentenzia che “Agli eroi nessun dio concesse di vivere a lungo” e che “a chi ben vive / non fu assegnato che un destino di pianto!” (pp. 75-76); e infine bambini somali in fuga da fame, pianti, fucili e coltelli, travolti dalle onde su carrette del mare.

Nella terza sezione riprendono i dialoghi fra Eliàde e Nice/Ni’cula, la quale era presente e interloquiva anche nella seconda sezione; e rispuntano anche le due prostitute precedentemente introdotte. L’autore si rivede bambino cinguettante, venuto dal nulla e nuotante in un fiume di lava non più bruciante. Il passaggio all’aldilà è visto come corsa o fuga verso spazi ignoti; e l’autore aggiunge: “il tuo possesso più nuovo, sarà l’essenza, / la tua padronanza, / sarà la scoperta della tua vera coscienza […] E, come l’eroe [Gilgamesh incontrato], anche tu la vorrai la tua gemmata / la tua fulgente perennità” (p. 84). Quindi, dopo un ricordo dantesco d’Inf. XIX 120 (“con le piote springano”, p. 85 ), e — pur col dubbio che senza pianto, senza dolore e senz’attesa l’amore possa essere amore e che senza gioia l’eterno possa essere eterno — Eliàde trova divino l’aspetto di Nice, più che in terra, le annuncia che ci sarà un lieto giorno e che, dopo alcuni sconvolgimenti cosmici, loro due (non più umani congegni) ci saranno ancora, come in un ritorno, sia pure in altre creature, e le chiede di continuare ad insegnargli la strada più giusta: “tu luminosa, / tu la favola antica, tu la favola nuova.” (p. 94). Ecco, dunque, il sogno d’Eliàde.

Come si vede, il libro è affascinante e va consigliato a coloro che amano le buone letture. Tuttavia, a parte certe espressioni strane, quali “Al coltello affilato degli antichi pastori mi infisse la lama più volte” (p. 57), “molti pensarono / che io morendo io avessi sofferto” (p. 64) e “Se tu un giorno tu andassi a Torino” (p. 75), per una completa comprensione da parte di chi non ha la stessa cultura dell’autore il testo avrebbe avuto bisogno d’alcune spiegazioni in nota, come ad esempio le seguenti: Sum-aiton = presumibile etimologia di “Simeto”, in greco Sýmaithos, “bruciato, infuocato” (p. 17); policara (sicil.) = “pulicaria”, erba con semi simili a pulci (p. 26); Rambla (catal.) = ognuna delle strade di Barcellona che vanno dal centro al porto antico (pp. 47, 50, 55 e 63); celeuma = canto cadenzato di rematori e pigiatori d’uva, in questo secondo significato presente nel biblico Geremia XXV 30 e XLVIII 33 (p. 50); rais (arabo) = “capo” (p. 50); Amma Romma e tutto il canto dell’ubriaco (p. 53); “putìa” (sicil.) = “bettola” (p. 53); “passiaturi” (sicil.) = “passeggiatore” (p. 64); “ballarìa” (sicil.) = “sobbalza” (p. 64); “duende” (spagn.) = “fantasma” (p. 85); Sieli = contrada fra Motta S. Anastasia e Misterbianco (p. 87). Infine Arancio Ruitz deve intendersi Sancio Ruitz de Lihori, il difensore della regina Bianca di Navarra contro le pretese di Bernardo Cabrera (p. 68).

Oltre a quanto sopra esposto, la forma linguistica è assolutamente corretta e scorrevole; e l’edizione appare elegante, ben impostata e curata.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, ott.-nov. 2011]

Barbarino Conti, Umili e illustri, penne e pennelli, onorevoli e poverelli, Ibla, Paternò, 1995, pagg. 640, £ 130.000.

L’ENCICLOPEDISMO DI BARBARINO CONTI

Definire enciclopedia la poderosa opera di Barbarino Conti Umili e illustri, penne e pennelli, onorevoli e poverelli (Ibla, Paternò, 1995, pagg. 640, £ 130.000) non è fuor di luogo. Organizzata alfabeticamente, in pagine fittissime senza il benché minimo spazio bianco dalla prima all’ultima, essa contiene una sterminata messe di notizie di ogni tipo che raramente si trova in commercio. Il progetto iniziale prevedeva una rassegna di personaggi umili e illustri ecc., del presente e del passato, di Paternò, città dell’autore, e delle zone limitrofe, in provincia di Catania; e questo progetto fu rispettato nel primo testo dell’opera; ma a questo egli ha aggiunto ben quattro supplementi, in cui le notizie e i commenti si sono estesi a tutta l’Italia e al mondo: sicché si può andare dallo storico Diodoro Siculo alla pornodiva Moana Pozzi, da Walter Chiari a Berlusconi, dalla città di Selinunte alla seta. In più l’opera contiene una monografia su Santa Lucia, una su Santa Maria di Licodìa e 33 liriche dello stesso Conti, poeta molto noto e apprezzato.

Questa estensione è praticamente un di più; e non si vede quale disturbo possa dare un arricchimento di notizie e commenti che chicchessia facilmente può consultare. Per formare i quattro supplementi il lavoro dell’autore è stato di una pazienza certosina, dovendo tener sotto controllo per anni la stampa periodica e la radiotelevisione e registrando meticolosamente quanto è avvenuto sotto la volta del cielo: cosicché potrà riuscire di una certa utilità a chi è interessato o curioso il riscontrare nel libro quando è morta la tanto chiacchierata pornodiva o quando è stato ricoverato il compianto Spadolini.

La verità è che Barbarino Conti è nato per queste ricerche e ne ha le doti necessarie: dalla vasta e profonda cultura, sedimentata ma sempre vivificata, alla passione del ricercatore. E ciò non contrasta col suo essere anche poeta: ogni poeta va sempre e comunque in cerca d’umanità; e in questo libro così cospicuo la ricerca d’umanità è notevole e si esplica nell’indagine storica. Si badi bene: questo libro del Conti è essenzialmente un’indagine storica, perché la storia di una comunità non la fanno soltanto gli amministratori e i politici, spesso incapaci e corrotti (illustri, onorevoli), ma la fanno anche gli umili e i poverelli: contadini, operai, artigiani, insegnanti... Quello di Barbarino Conti è un grande mosaico in cui ogni tessera sta al suo posto e tutte le tessere costituiscono insieme il grande mosaico.

Quale tenerezza e ammirazione c’è, dunque, per barbieri, falegnami, fabbri, marmisti, massari, muratori, scalpellini... tutta un’umanità comunemente relegata ai margini della società come insignificante e che dal Conti viene valorizzata fino ad assurgere alle pagine di un’enciclopedia! E ci sono anche maghi e fattucchiere, medici (i medici d’una volta), pupari, sacerdoti, pittori e poeti popolari: un vero e proprio caleidoscopio di professioni, arti e mestieri, usanze e costumi, feste patronali, fuochi d’artificio, bombe e tristi bombardamenti.

E in tutto ciò vibra la nostalgia di un mondo migliore che oggi non c’è più; oggi, in una società incattivita e malvagia, in cui ognuno pensa al suo “particulare” e i gesti di solidarietà sono così rari! Sembra che l’autore vada ancora in cerca della semplicità e della solidarietà d’un tempo, come va in cerca della sua gioventù, dei suoi sogni, dei suoi ideali d’un tempo. Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus! (Verg., Georg., III, 284).

Visto in quest’ottica, questo libro è un’opera grandiosa che nessun altro da solo avrebbe pensato di fare e sarebbe stato in grado di fare: perché essa è anzitutto frutto d’amore, non solo per la sua città, ma anche per l’umanità tutta. E all’amore si aggiunge la speranza: che questa società travagliata e traviata, la società del benessere ma anche dell’egoismo, della corruzione, della disonestà e (diciamolo pure) della mafia-andràgata-camorra, questa società odierna, dunque, ritrovi gli antichi valori, l’onestà e la semplicità che hanno caratterizzato nella stragrande maggioranza i tempi passati; e alla luce del messaggio cristiano possa attingere quel grado di civiltà di cui si sente forte il bisogno.

Forse sarebbe stato opportuno che le pagine fossero meno fitte, i caratteri dei supplementi più leggibili, che le monografie fossero collocate altrove, che la raccolta di liriche avesse frontespizio, titolo e indice, che certi personaggi (scrittori o artisti) non venissero presentati con l’indicazione nel titolo di qualche loro opera, magari semplicemente riportando qualche recensione fatta dallo stesso Conti in precedenza, che non fossero posti sulle parole (specialmente sulle piane) tanti segnaccenti superflui. Ma è evidente che in un libro siffatto è segno di cattiveria andare a cercare col lanternino eventuali omissioni e altri difetti che l’immensità del lavoro inevitabilmente comporta; in esso, invece, va apprezzato quanto di positivo e utile c’è, e ce n’è sicuramente in ogni pagina: le migliaia d’informazioni e appropriati commenti fanno del libro una miniera.

Indubbiamente tale libro non si può leggere tutto d’un fiato: ci vorrebbero un paio d’anni. Ma è consultandolo con lo stesso amore e con la stessa pazienza di chi l’ha ideato e composto riga per riga, pagina per pagina, che si possono scoprire i molti pregi che esso ha. Si pensi a quante indagini non solo presso archivi, biblioteche e anagrafi, ma anche presso famiglie e singoli privati, il lavoro ha richiesto; alla pazienza nell’annotare, registrare, trascrivere, catalogare; agli elenchi ragionati di sindaci, giudici, notai, vescovi, contrade, quartieri, chiese, ecc.; alla cronologia essenziale di prima e dopo Cristo: e si avrà un’idea della vastità e del peso di una ricerca del genere, dove varie pagine sono veri e propri saggi o monografie più che note informative; per non parlare dei numerosi documenti d’archivio citati o addirittura trascritti e tradotti.

Una recensione a parte meriterebbe la raccolta delle 33 liriche: qui ci limitiamo a dire che essa è nel solco della tradizione poetica del Conti: sentimenti delicati, squarci di paesaggi, ansie, timori e speranze in campiture di sole, di luce e di fede e in versi sottilmente musicali, dove la melodia scorre come una sottesa armonia. Nell’economia d’un libro così impegnativo questa parte lirica è come un’oasi, una pausa di riflessione e di godimento estetico, un volo verso le alte sfere dello spirito.

Tutto ciò può bastare a dare un’idea del particolare valore di questo libro.

Carmelo Ciccia

[“Il sodalizio letterario”, Rimini, marzo 1996]


Barbaro Conti poeta dell’inquietudine

di Carmelo Ciccia

Barbaro Conti (Paternò, 1930-2013) — oltre che docente di straordinario valore — fu poeta, storiografo, bibliofilo, ricercatore e paleografo. Numerosi sono gli archivi e le biblioteche che frequentava, a volte anche d’antiche chiese o di comunità monastiche; ed egli stesso s’era formato una ricchissima biblioteca, dotata d’opere spesso non rintracciabili nemmeno in quelle pubbliche.

Nato in una famiglia di commercianti, ben presto rivelò le sue spiccate doti d’intelligenza e passione per lo studio. Dopo i bombardamenti anglo-americani, che per fortuna lasciarono indenni lui e i suoi familiari, frequentò il ginnasio-liceo della città natale e si laureò in lettere all’università di Catania nel 1958 con una tesi sull’apologista Paolo Orosio (sec. IV-V). Dedito agli studi, viveva riservato e quasi appartato.

Ci furono due forti tendenze in questo personaggio di così alto livello culturale (all’anagrafe chiamato Barbarino, ma che poi per alcuni anni in certe opere si firmò anche Barbaro, come comunemente si faceva chiamare): la poesia e la ricerca storiografica. La prima, pur presente anche nella maturità, dominò in gioventù, la seconda, pur presente anche in gioventù, dominò nella maturità. Soltanto tenendo conto d’entrambe le (a volte intrecciate) tendenze, se ne può comprendere a pieno il lungo e marcato impegno letterario, che si può definire quasi unica ragione della sua vita. Profondi furono i suoi sentimenti, fine il senso estetico, enciclopedica la sua cultura, sterminata la sua produzione (con 200 opere scritte). Egli fu il poeta dell’inquietudine, uno dei più grandi poeti del nostro tempo.

I temi più spesso ricorrenti nella sua poesia sono: la rinunzia, la fugacità del tempo e la caducità della vita, il dolore, il mistero dell’universo e della morte, Dio e la religione, il paesaggio, l’amore, l’infanzia, le memorie, la guerra, il riscatto del Sud, gli affetti familiari, il paese natale... Già i suoi primi libri lo rivelarono un poeta di tutto rispetto, impressionando non solo per le suggestive immagini e i delicati sentimenti, ma anche per la serpeggiante inquietudine e la tecnica stilistica portatrice d’una musicalità capace di fare sognare. Basti ricordare i suoi libri di poesia: Parole e inquietudine (1959), Cielo sugli occhi (1962), Lo specchio dei giorni (1968), Messaggi e aneliti (1971), Canto per il mio paese (1988).

Invece il libro Umili e illustri (1995), contenendo insieme lavori di due generi, appartiene alla saggistica (relativa al titolo del libro stesso) e alla poesia (silloge senza titolo); mentre il libro Fantasmi teologi (2013), contenendo insieme lavori di tre generi, appartiene alla poesia (sillogi Fantasmi in cammino, Destini al vento, Oltre i nostri giorni), alla narrativa (silloge Gente di Sicilia) e alla saggistica (saggi su Sant’Agostino, San Girolamo, Paolo Orosio, Salviano, Storici teologi aprono le porte al Medio Evo in Europa, Simbolismo dei numeri 7, 8, 777, Iscrizione di Iulia Florentina).

A questi ha fatto seguito tutta una serie di libri e ricerche di carattere storiografico, in maggior parte d’interesse siciliano, fra cui una monumentale Enciclopedia storica della Sicilia in parecchi volumi: tutte opere che ne testimoniano la serietà, la competenza e l’impegno. E non si devono dimenticare la collaborazione a giornali e riviste, con una notevole quantità di scritti vari, e l’inclusione di poesie e racconti in antologie scolastiche.

È vero che, forse per esigenze di stringatezza e per l’urgenza d’andare all’essenziale, nelle opere di saggistica degli ultimi anni il Conti non sempre badava alla forma dell’impaginazione, alla punteggiatura, ad altre norme linguistiche e alla differenziazione degli stili tipografici (tondo, corsivo, grassetto), potendo talora non riuscire chiaro; inoltre in tali opere c’è a volte un affastellamento disordinato di notizie e altri dati, magari inseriti all’ultimo momento, in un crescendo continuo, fino quasi a sovrapporsi: ma ciò non sminuisce l’importanza dei risultati raggiunti nelle ricerche e forniti ai lettori.

Il Conti ottenne vari premi, fra cui nel 1958 i primi premi “Omnia” di Roma e “Convegno poetico La Procellaria” di Reggio di Calabria, nel 2004 il “Tirsi Etneo” di Paternò (CT) e nel 2006 il primo premio “Pensieri in versi” di Motta Camastra (ME).

Anche se precedentemente aveva esordito nell’antologia Nuove voci (Reggio di Calabria, 1957) con un gruppo di liriche intitolato Carovana di colline, è proprio con il primo volumetto che egli assunse la connotazione di poeta dell’inquietudine, perché esso ha proprio il significativo titolo di Parole e inquietudine e conferisce al Conti quella fisionomia caratteristica che gli rimarrà sempre. Infatti la silloge contiene liriche come “Le cose più belle” e “Noi siamo”, riportate in successivi volumi, che sono il meglio della sua produzione.

Le cose più belle. Le cose più belle sono / le gemme / perdute nel fondo dei mari, / i sogni / nel nulla svaniti, / i baci / mai dati, i fiori / nei campi lasciati. // Così / le parole più belle / son quelle / scordate / nel fondo del cuore.

Questa lirica sembra riecheggiare la celebre poesia “Il più bello dei mari” del poeta turco Nâzim Hikmet-Ran (Salonicco 1902 – Mosca 1963), inclusa nelle Lettere dal carcere a Munevver – 1942: “Il più bello dei mari / è quello che non navigammo. / Il più bello dei nostri figli / non è ancora cresciuto. / I più belli dei nostri giorni / non li abbiamo ancora vissuti. / E quello / che vorrei dirti di più bello / non te l'ho ancora detto.” Non si sa se egli la conoscesse; però non si può negare l’originalità e la maggior finezza di quella del Conti. Infatti, che cosa c’è di più bello delle gemme? Ma il poeta ritiene che siano più belle quelle perdute nel fondo dei mari. Così per i sogni svaniti, per i baci mai dati e per i fiori lasciati sui campi. Insomma è più bello ciò che noi non abbiamo potuto avere e ciò che abbiamo irrimediabilmente perduto. È per questo che il fascino di questa lirica sta nella consapevole rinunzia. Spesso, quasi sempre, la realtà è tanto diversa dalla fantasia. È più bello desiderare o rimpiangere una cosa, anziché averla: questo vuol dirci il Conti. Quanto più essa è irraggiungibile, tanto più si colora di poesia, entrando nel regno dell’ideale. E si noti l’analogia tra «fondo dei mari» all’inizio e «fondo del cuore» alla fine: due profondità, due abissi, due… misteri.

Noi siamo. Noi siamo come le onde / fugaci / di flebile suono, / come la schiuma / raminga / del mare. // Siamo come tremule ombre / vaganti / nel silenzio, / come nuvole bianche / vagabonde / nella solitudine del cielo. // Siamo come le foglie, / come il soffio, / come le ore che passano / e non tornano più.

Pure “Noi siamo” è una lirica semplice e di facile comprensione. Eppure, quale profondità di pensieri in tale semplicità di parole! Si noti la posizione di alcuni aggettivi (fugaci, raminga, vaganti, vagabonde), isolati ciascuno in un verso, quasi per fermare il lettore su un attimo di ripensamento. La lirica, poi, ha qualcosa di musicale; non si tratta di una musicalità artificiosa: essa nasce da un’anima che accetta dolore e rimpianti con una cristiana rassegnazione e riesce a fare di essi musica e canto. È certo, però, che l’ultima parola accentata con cui si conclude la lirica, quell’avverbio «più», è come un duro colpo che stronca le illusioni nostre e quelle del poeta.

Barbaro Conti ha lasciato ai posteri l’esempio d’uno sviscerato amore per la poesia e per la cultura e il senso di quella trepidazione che spesso si trasformava in sofferenza vera e propria nell’indagare il mistero.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2013]

Barbaro Conti, Fantasmi teologi, Hibla Ink, Paternò, 2013, pagg. 320, € 500.

FANTASMI TEOLOGI: L’ULTIMO VOLUME DI B. CONTI

Poco prima della sua morte lo studioso e scrittore siciliano Barbaro Conti (Paternò 1930-2013), già autore di vari libri, pubblicò l’ultimo suo volume, intitolato Fantasmi teologi (Hibla Ink, Paternò, 2013, pp. 320, € 500, cioè euro cinquecento), che si può suddividere in tre parti, rispettivamente comprendenti poesia, narrativa e saggistica. Forse perché gli mancò la consulenza d’esperti e d’una vera casa editrice, in esso c’è un’impaginazione approssimativa, fatta dallo stesso autore, in cui le cose che d’acchito colpiscono negativamente sono: il grande formato in A/4 (cm 21 x 30); la presenza nella copertina anteriore (cioè fuori luogo) della fotografia d’una premiazione letteraria con specificazione della stessa, del numero dei concorrenti e della data del ricevimento del premio; l’affastellamento e a volte la sovrapposizione di notizie, dati e fotografie in ogni spazio possibile, in modo da riempire tutto; la confusione derivante dalla doppia numerazione delle pagine (in alto quella generale del volume e in basso quella particolare delle singole sillogi); i segnaccenti tonici posizionati in parole anche piane; l’estraneità delle immagini al contesto; il frequente uso di maiuscole indebite; l’abuso dello stile tipografico neretto/grassetto, col quale spesso sono composte intere pagine; la mancanza della d eufonica in congiunzioni e preposizioni (ad es. “e ecco”, “a Apollo”, ecc.), del rimpicciolimento del carattere nelle note e del rientro (alinea) nei capoversi. Inoltre riesce inopportuno il fatto che varie volte l’autore ripete il suo nome e cognome, spesso accompagnato dal titolo “prof” o seguito dalla dizione “critico poeta scrittore storico”, quasi a tentare di convincere delle sue qualità i lettori, ed in particolare gl’irriconoscenti compaesani.

Detto questo, però, risulta molto apprezzabile la finezza delle 205 liriche che compongono complessivamente le tre sillogi poetiche d’apertura: Fantasmi in cammino, Destini al vento e Oltre i nostri giorni. L’autore aveva già pubblicato altre sillogi, ottenendo dei riconoscimenti, mentre con la prima di questo volume ha ottenuto il primo premio dell’Accademia “Il Convivio” a Motta Camastra (ME). Nelle sillogi di questo volume continuano i sentimenti e le tecniche espressive dei precedenti: c’è in esse una forte ansia di cielo e d’infinito, di fronte a cui il poeta si sente solo, piccolo e fragile, sempre in attesa della morte, ma anche dell’incontro con Dio nell’aldilà, in cui crede fermamente, connotando la sua produzione d’una profonda religiosità. Ci sono pure motivi sociali: la lotta alla corruzione, alla mafia e all’ingiustizia perpetrata anche da politici e giudici conniventi. L’anelito alla giustizia umana e sociale rientra in un’aspirazione alla fratellanza cristiana e alla pace universale. Nelle sillogi ci sono poi squarci di paesaggio, bagliori di luce, palpiti d’amore. E con queste nuove sillogi l’autore si conferma uno dei poeti più validi del nostro tempo. Alcune composizioni sono scritte per la moglie e per altri familiari defunti. Tuttavia, il fatto che per tutte le composizioni l’autore incorpori la data nel titolo in neretto/grassetto e senza alcun segno di distinzione (ad es. Occhi 25 luglio 2000 oppure Voce non udita 6 febbraio 2005), non mettendola invece alla fine e in carattere diverso o almeno fra parentesi, provoca confusione e disagio nella lettura.

La susseguente silloge di 22 racconti intitolata Gente di Sicilia, alcuni dei quali già pubblicati, si rivela molto interessante per la caratterizzazione dei personaggi, quasi tutti appartenenti all’area paesana: ci sono donne quasi selvagge, che ben s’inseriscono in paesaggi aspri e primitivi. Inoltre s’apprezzano le motivazioni sociali di certi racconti, che si collegano a quelle delle sullodate liriche. E mentre di tanto in tanto s’ammirano squarci di cielo e sprazzi di luce, si resta affascinati dall’andamento lirico che permea i tratti solitamente veristici della narrazione, con cui l’autore si collega a grandi narratori veristi quali il Verga e il Capuana. Tuttavia l’abbondanza delle parole dialettali, non sempre tradotte in italiano e non sempre stampate con differenziazione tipografica (corsivo o virgolette), anzi addirittura in sequenza con le corrispondenti parole italiane senza alcun segno di punteggiatura o altro tratto distintivo, induce a credere che l’autore voglia fare un catalogo di termini dialettali in via d’estinzione e scriva i racconti come pretesto. Tutto ciò, e il fatto che spesso ricorrono nomi e soprannomi di personaggi locali, dà l’impressione che l’autore scriva questi racconti esclusivamente per i compaesani, dal momento che gli altri lettori potrebbero non raccapezzarsi. Infine la frequente intromissione di pedanteschi dati eruditi (vicende e personaggi storici, guerre, battaglie, date e informazioni anagrafiche) pone certi racconti su un piano giornalistico, saggistico, cronachistico o storiografico, facendo sì che soltanto pochi d’essi raggiungano la vera arte narrativa.

L’ultima parte del volume è una silloge di vari saggi, alcuni dei quali già pubblicati: Sant’Agostino, San Girolamo, Paolo Orosio, Salviano, Storici teologi aprono le porte al Medio Evo in Europa, Simbolismo dei numeri 7, 8, 777, Iscrizione di Iulia Florentina. Come si vede, gli argomenti riguardano teologia, storia, storiografia, letteratura (greca e latina), tradizioni popolari, archeologia: e i titoli da sé stessi dimostrano la loro rilevanza e preziosità per gli studiosi, poiché tali saggi offrono informazioni e documentazioni di primaria importanza, anche in latino. Numerose sono le citazioni e le indicazioni bibliografiche ragionate, che contengono anche ampi riassunti e commenti d’opere citate: la bibliografia è imponente e a volte è arricchita dalle fotocopie di pagine d’altri autori. Leggendo questi saggi, ci s’immerge totalmente nel mondo classico e si resta sbalorditi dalla cultura assimilata dall’autore e dalla miriade di dati da lui forniti ai lettori, sia pure con una non sempre chiara linea espositiva. Inoltre dati, citazioni e notizie in questo volume sono ripetuti varie volte, magari con le stesse parole, e frequentemente s’incontra il nome dell’autore stesso per autocitazioni e rimandi. Si capisce che l’autore spese tutta la sua vita nello studio e nella ricerca; e per preparare questi saggi e la monumentale enciclopedia siciliana in 25 volumi rimasta inedita, egli — nella sua motivata e competente ricerca — frequentò per anni numerose biblioteche e archivi di varie città, comprese quelle di chiese e conventi, trascrivendo rari e preziosi documenti, da lui stesso letti, interpretati e tradotti, grazie alla sua conoscenza di paleografia e diplomatica. Purtroppo, però, la trattazione a volte riesce oscura a causa di frasi sintetizzate, si può dire addirittura scheletriche e telegrafiche, nonché d’abbreviazioni senza punto finale, sigle varie, grammatica non sempre rispettata e punteggiatura mancante: infatti una caratteristica dello stile di quest’autore sono le elencazioni (talora lunghe) di nomi, aggettivi e verbi, preferibilmente senza virgole frapposte.

Le ultime pagine sono estratte dalla citata Enciclopedia dall’età paleoneolitica al 2013, di cui a chiusura fornisce due indici, e riguardano documenti su chiese locali e gastronomia negli scrittori classici.

Nonostante il loro posizionamento nei punti più disparati del volume e la loro non attinenza al contesto, tranne le poche dei familiari defunti, le fotografie (134 nel contesto e 16 nella copertina, quasi tutte scattate dall’autore) costituiscono poi una documentazione importante per la sua terra, presentandone —anche con l’ausilio delle didascalie — aspetti, personaggi e storia locale d’oltre mezzo secolo. D’esse alla fine è fornito un utile elenco numerato e specificato.

Per concludere, questo volume, che — come dichiara l’autore a p. 319 — è frutto dello studio di 4.000 libri e di molti articoli, pur leggendosi con difficoltà a causa di quanto osservato per la forma, è ricco di sentimenti, cultura, storia e passione. In particolare le liriche, se fossero state stampate in maneggevoli libretti anziché in questo mastodontico volume poco maneggevole, avrebbero potuto essere collocate sui comodini, a costituire un vademecum di riflessione e spiritualità. Sicché non si può non condividere quanto l’autore stesso scrive a p. 288, in una dichiarazione quasi testamentaria: “In oltre 50 anni di Ricerche e studi Barbaro (Anàgrafe: Barbarìno) Conti, Prof di Lettere, frequentando Archivi Biblioteche Scuole […] Ha scoperto e tradotto antichi Manoscritti Latìni ignoti agli studiosi. Ha ricostruito la Storia Artìstica Civìle Letteraria Polìtica Religiosa Sociale della Sicìlia nel contesto della Civiltà Europèa dalle Origini al 2012. Ha ascoltato anèliti gridi istanze silènzi voci della sua Gente e della sua Terra; echi pàlpiti misteri dell’Io e dell’Universo. Ha costituito un patrimonio linguìstico poetico storico, vasto e sterminato, di inestimabile valore culturale, in gran parte inèdito. Ha incontrato donne e uomini, care ombre, luminose presenze, appena ieri, vive. Vive voci che riascolta nella memoria. Volti che riemergono dai pozzi profondi dell’anima, dai bàratri del Tempo, dallo spazio breve e misterioso che divide assenze e presenze, ombre e luci in struggenti addìi, in tersi abbracci di Cielo e di Eternità.

E per questo si deve rivolgere alla sua memoria un pensiero d’ammirazione e riconoscenza, rendendo a lui il dovuto onore e prodigandosi per esaltare e far conoscere a tutti le sue preclare virtù.

Carmelo Ciccia

[“Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2013]

Felice Conti, Una folata di scirocco, Lippolis, Messina, 1996, pagg. 208, £ 25.000.

LA NARRATIVA DI FELICE CONTI

Conoscevamo Felice Conti come uno squisito autore di versi pieni di forte sentire e di tanta serenità; lo scopriamo ora robusto scrittore di racconti veristi sulla scia del Verga. L’occasione ci è data dall’uscita del libro Una folata di scirocco (Lippolis, Messina, 1996). Si tratta d’un’opera impegnativa: scelta di carta e copertina, disegni, impaginazione, voluminosità (300 pagine), tutto lascia intendere che questa è l’opera per eccellenza del Conti, da tempo in preparazione e magari pubblicata per le affettuose premure di familiari ed amici, anche perché essa corona l’impegno d’un appassionato scrittore e letterato, la cui lunga ed intensa attività è documentata nel risvolto di copertina. Un’edizione di prestigio, insomma, nonostante la presenza d’una sessantina di refusi, sei dei quali concentrati a pag. 138.

Abbiamo parlato del Verga, perché Felice Conti è un continuatore dello scrittore catanese: ne riprende paesaggi, personaggi e temi, sviluppandoli comunque con la mano e l’arte sue. Sicché chi ha letto il Verga e lo ama, trova ora un suo degno epigono, il quale dal catanese ha preso anche un’altra peculiarità: l’uso creativo della lingua, una lingua che non è aulica, ma sa accostarsi alla realtà descritta e calarsi in essa fino ad assumerne movenze inusitate, originali, proprie.

Certo il Verga non scrisse in dialetto: le parole dialettali da lui usate si contano sulle dita di una sola mano; ma l’impianto linguistico è nella sostanza quello d’un siciliano tradotto in italiano, secondo i moduli logici del parlare popolare. Il Conti ha fatto qualcosa del genere, ma ha inserito a piene mani termini ed espressioni dialettali nel contesto italiano, creando un impasto siculo-italiano con i molti dialettismi, solecismi, idiotismi. Ad esempio, se lui usa fagiolina (nome collettivo) o scatolo (masch.) non è perché non conosca la lingua italiana (ché anzi la conosce molto bene, visto l’abbondante uso che fa anche di espressioni dotte o poco usate), ma perché vuole restare quanto più fedele alla sua lingua materna. Questo, se da una parte può darci fastidio, perché spesso non comprendiamo il significato di qualche termine o di qualche espressione neanche usando dizionari italiani e siciliani, dall’altra ci dà la possibilità d’immergerci nell’ambiente locale e afferrare il senso della sicilitudine dell’autore. Ancora per fare un esempio, l’ambiente locale è presente anche nei nomi propri, quali Turi, Brasi, Micu, Picciosa, ecc.; e il sucarro non è un sigaro qualsiasi, ma il classico sigarone siciliano, quello dell’autore, dei compaesani e corregionali.

In effetti solo i siciliani possono capire termini come — solo per fare pochissimi esempi — addevo, bàlichi, boccere, camorria, puliciera, sciangazza, sipala-sipalone, trusce, fra l’altro senza neanche differenziazioni tipografiche quali virgolette o corsivi, e neanche tutti i siciliani se non sono di Fùrnari (ME), il paese dell’autore, che ha termini ed espressioni ancora particolari nella regione. Né aiuta molto lo scarno glossario delle ultime pagine, perché invece delle quasi trenta voci che presenta avrebbe dovuto presentarne dieci volte di più, per evitare il frequente ricorso ai dizionari. Però con tutto ciò il libro è valido e accessibile anche ai non siciliani. In sostanza, se per ambiente e trame il Conti si può avvicinare al Verga, per la lingua viene spontaneo avvicinarlo meglio al D’Arrigo.

E qui bisognerebbe fare un discorso su quello che un personaggio forestiero dice del dialetto siciliano, da lui definito perentoriamente “quel dialetto bastardo”(pag. 275). Ogni dialetto va considerato per quello che è nella sua area d’uso e per la gente che lo parla: uno strumento linguistico che ha le sue peculiarità, comunque da rispettare, a prescindere dal fatto che esso agli altri possa riuscire ostico o antipatico. Ricordiamo che Felice Conti è anche cultore del dialetto e autore di poesie dialettali, che certamente per chi può capirle sono degne di ogni considerazione. Lo scopo del Conti è anche quello di lasciare testimonianza d’un certo modo di vivere e di parlare, di salvare il salvabile.

In un paesaggio dai forti contrasti e dalle forti caratterizzazioni si svolgono le vicende di queste 32 storie o 33 considerando tale la prima che fa da acuta e saggia introduzione. Il paesaggio è quello tipico della Sicilia costiera: agavi, fichidindia, ulivi, agrumi, rocce assolate, spiagge sabbiose: il paesaggio della terra-madre, ora amata ora odiata, ma comunque sempre desiderata e alla quale si rimane legati come da un cordone ombelicale... In genere sono vicende umoristiche, allegre, buffe, in cui serpeggia una divertita e divertente ironia; ma non mancano vicende dolorose, drammatiche, in cui l’autore vuole stigmatizzare comportamenti irrazionali, ancorché tradizionali (“La treccia”), fantastiche e pirandelliane (“La suocera” e “La donna di spade”). Così si va dall’orgoglio per la nascita del figlio maschio a certe usanze della prima notte di nozze, da fatti di violenza e di sangue (quali agguati, vendette, duelli da Cavalleria rusticana) a intrighi e imbrogli in cui il presunto furbo viene a sua volta imbrogliato. Spesso si ha l’impressione di muoversi in un mondo boccaccesco, dove l’intelligenza e l’arguzia trionfano: è il caso di “Ladri” che praticamente è un rifacimento della novella del porco “imbolato” del Boccaccio (Decam. VIII, 6), nella quale Bruno e Buffalmacco rubano un porco a Calandrino.

C’è poi tutto un filone riservato alle feste religiose con la loro appariscenza e spettacolarità: campanate, messe cantate, processioni, stendardi, bande, bombe; e bombe per tutte le occasioni: per i santi, le madonne, le nascite e ricorrenze varie. Il condizionamento della vita siciliana da parte dei fuochi d’artificio è reso bene in “Occhio non vede, cuore non duole”, in cui in poche pagine tali fuochi vengono chiamati in vari modi: “giochi di fuoco”, “giochi d’artificio”, “giochi di foco”, “cassa infernale” (è la sparatoria finale) e “giocofoco” che in unica parola compendia lo spettacolo. Ma non mancano vicende luttuose come i terremoti, in cui però i momenti di timore vengono alleggeriti da scenette comiche o erotiche.

Indubbiamente di erotismo si può parlare anche per questo libro: molti sono i riferimenti alla sessualità, ma, nonostante il realismo di certi particolari, non si scende mai nella pornografia. L’erotismo di certe descrizioni nasce più che altro dall’ambiente stesso, che dà troppo peso alla virilità o meglio ad un certo tipo di mascolinità, fino a farne una bandiera, e ha una concezione particolare dell’onore. È questo un ambiente in cui si vive per convenzione e tutte le regole della convenzione devono essere rispettate, altrimenti si può essere considerati sciocchi o reprobi. In questo ambiente perfino la religione svolge un ruolo di esteriorità e conformismo; e i preti, uomini anche loro, apertamente o celatamente non disdegnano i piaceri terreni, come le ricchezze e le donne.

Capire l’animo dell’autore nella presentazione di queste scene non è difficile: l’autore descrive la vita e l’aspetto del suo paese nei primi cinquant’anni di questo secolo. C’è quindi un recupero di modi di vivere, tradizioni e usanze, molte delle quali spazzate via dal vento del progresso; ma anche recupero del proprio passato, di una gran parte della propria vita ormai irrimediabilmente perduta, che si vuole fissare in alcune pagine proprio perché non sia del tutto perduta. Ciò si nota anche dal modo di vagheggiare il paesaggio, a volte aspro a volte dolce e romantico (come quello della vicina e poetica Tìndari), ma sempre il proprio paesaggio, lo scenario di tanti anni di vita vissuta con sogni, speranze, ansie, delusioni, gioie e dolori. E qui torna il Conti poeta: in certi squarci lirici, in certi profili di personaggi femminili, in certi delicati sentimenti e in certe osservazioni che nascono dal profondo del cuore e della mente c’è il Conti poeta che conoscevamo, il Conti pensoso e lirico che sa modulare la lingua fino a produrre effetti d’elevata poesia.

Il Conti è uno che per molti anni ha vissuto, ha sognato, ha osservato e ha fissato nella memoria. Ora questo patrimonio di esperienze e osservazioni egli lo mette a disposizione dei lettori, perché ne facciano l’uso che vogliono. Praticamente il libro che ne è scaturito è una sintesi d’arte e di vita. Ed è anche per questo che i familiari, gli amici, i compaesani, i corregionali e quanti amano la letteratura di valore gli devono essere grati.

Carmelo Ciccia

[“Silarus”, Battipaglia, genn.-febbr. 1998]


Filadelfio Coppone, Il sogno di una favola, Greco, Catania, 1^ ediz. 1995, 5^ ristampa 1999, pagg. 126, £ 20.000.

Il 6 ottobre 1990, dopo lunghe sofferenze sopportate con cristiana rassegnazione, a causa d’un male inguaribile cessava di vivere la signora Ida Casella in Coppone. Questo sembrerebbe un qualsiasi annuncio funebre, triste epilogo d’una delle tante storie di malattie incurabili che si svolgono in un’altalena di speranze, delusioni e angosce. Ma in questo caso il vedovo superstite è un poeta, che poi si è fatto sacerdote; e, dopo aver pubblicato vari libri di liriche, che gli hanno procurato significativi riconoscimenti, con questo libro ha voluto ripercorrere non solo le stazioni di quella via crucis, ma anche le esaltanti tappe d’una straordinaria unione coniugale.

Ecco allora la giovane Ida prima studentessa e poi laureata (sia pure a fatica, a causa di varie peripezie), e i due giovani che s’innamorano e si sposano; e, pur non potendo avere figli, gustano ogni giorno di più la gioia d’amarsi come due colombi; ma poi, dopo quasi un quarto di secolo, sopravviene il male e s’accentua la sofferenza (che pure non era mai rimasta assente del tutto), con tutto il suo oneroso fardello. E poi giunge la morte; e per il vedovo, oltre all’impegno di continuare quell’amore anche dopo la morte, la vocazione religiosa, il diaconato e il sacerdozio, che lo portano non solo a diventare parroco in Catania, ma anche periodicamente missionario in Tanzania, a favore dei bisognosi africani.

Il Coppone, già professore d’inglese a Catania, ha ora trovato, proprio grazie a quest'esperienza, la sua nuova via mediante la sua donazione a Dio. E questo libro, così diverso da tanti altri, vuol essere insieme un album di ricordi, costellato di numerose fotografie (a cominciare da quella delle nozze sulla copertina), e anche un aiuto a quanti hanno sofferto o soffrono difficili esperienze, affinché nel proprio calvario non disperino e anzi trovino nella dimensione religiosa lo scopo per continuare a vivere e per spendere anche meglio la vita.

Nel libro sono anche raccolti e annotati con amorevole cura lettere e pensieri della defunta e di conoscenti, relazioni scolastiche, gite, pellegrinaggi, diari di visite mediche e interventi terapeutici, orari di somministrazioni, osservazioni cliniche e reazioni... Ma soprattutto emerge la grande spiritualità di lei, che quotidianamente offriva a Dio il suo martirio, corroborata dallo sposo; il quale, poi, quasi dialogando con lei, ha voluto riportare nel libro lettere, pensieri e poesie proprie, che chiariscono o integrano quanto detto nella narrazione. È nata così una specie di dantesca Vita nova, con pagine ora in prosa ora in poesia, ora “in vita” ora “in morte” della cara Ida, la quale ha assunto il ruolo d’una novella Beatrice, conducendo l’amante (prima traviato) sulla retta via, che per lui è non soltanto la conversione, ma in aggiunta il sacerdozio. In sostanza, Ad Iesum per Mariam, ma nella fattispecie anche per Idam.

E certamente è inconsueto trovare un religioso che continua ad amare follemente la donna della sua passata vita coniugale, baciandone ogni sera la fredda immagine collocata sul cuscino, colloquiando con lei e attendendo il momento d’essere (come ha promesso) sepolto accanto a lei, alla quale dedica il giorno della sua ordinazione sacerdotale con le ultime parole del libro: “a te, mia fata dai capelli biondi, mia principessa dagli occhi castano-perlato”.

Ovviamente in un libro di cos alta drammaticità e moralità gli occasionali errori ed imperfezioni di forma vanno trascurati. Infatti Il sogno di una favola di Filadelfio Coppone è non solo un affascinante racconto d’amore e morte, chiaro, lucido e fortemente emozionante, ma anche l’apoteosi d’una donna-sposa-insegnante ideale e in definitiva un’opera di testimonianza e d’edificazione, capace di coinvolgere i grati lettori e di diventare un giorno — chissà — prezioso documento in processi di beatificazione.

Carmelo Ciccia

[“Il tizzone”, Rieti, marzo 2004]

Filadelfio Coppone, Meandri di pace, Caccetta, Catania, 2001, pagg. 32, s.p.

“Beati i popoli che non hanno bisogno d’eroi.” (Bertrand Russel, citando Brecht)

Raramente si riflette a sufficienza sul pensiero di qualche grande, com’è il caso di quello del Brecht citato dal Russel, sopra riportato: sono beati quei popoli che non avendo guerre ed epiche lotte non hanno avuto necessità d’avere eroi, caduti, ossari e monumenti. Ma ora spinge a farlo la poesia di Filadelfio Coppone.

Dopo un lungo silenzio, dovuto alla tragica morte della moglie e alla propria ordinazione sacerdotale, scelta che lo ha anche visto impegnato come missionario in Africa, il Coppone riprende l’attività letteraria per la quale aveva conseguito prestigiosi riconoscimenti, e ripubblica una raccolta di liriche che già dal titolo s’inserisce nell’attuale dibattito sulla necessità della pace.

In effetti il silenzio di questo poeta era un danno per gli amanti della poesia, considerato l’alto livello da lui raggiunto grazie al suo forte afflato lirico. Ma ora il lungo periodo critico sembra superato e l’autore è tornato in tipografia, riproponendo delle liriche scritte negli anni ‘70-’80.

Filadelfio Coppone può essere definito un messaggero di pace. Quanti poeti hanno cantato le gesta, l’amore, il paesaggio, la bellezza della natura, la fede in Dio, la religiosità...: il Coppone in tutta la sua produzione ha privilegiato la pace, che giustamente per lui non è solo assenza di guerra, ma anche presenza d’amore e fratellanza fra cittadini e popoli. Ecco perché egli deplora non solo il continuo insorgere di guerre ora in questa ora in quella parte del mondo, ma anche qualsiasi attacco dell’uomo contro l’uomo, che lo rende non più Homo sapiens, ma Homo homini lupus. E, se da una parte esprime soddisfazione per l’accordo di pace finalmente raggiunto nel Vicino Oriente (accordo che da subito ha cominciato a vacillare, dando luogo poi alla guerriglia sanguinaria, come dolorosamente testimoniano le odierne stragi), dall’altra per l’Italia piange sulle vittime della mafia che provoca uccisioni a catena e del terrorismo che sopprime poliziotti e carabinieri (rei soltanto di guadagnarsi il pane con la difesa dell’ordine pubblico), lasciando mense imbandite di nero e madri, mogli e figli in preda alla disperazione. Ma nel pensiero del poeta ci sono anche i poveri, i tossicodipendenti e gli emigranti, i quali ultimi per sfamarsi sono costretti a lasciare la patria e ad intraprendere in remote terre una vita di carenza affettiva, e fra essi alcuni soffrono per il colore della pelle, nera o gialla che sia, trovandosi a mendicare lontano una vita dignitosa: “Ora, in una terra non mia / pianto chiodi d’amore / e fisso immagini di sofferenza / su un letto di ricordi”.

Dunque, il poeta annuncia il tempo della pace: “é tempo di sorridere in case / dove il sole scoppia di calore, / di cogliere frutti in campagne deserte, / di cancellare il dolore / impietrito nei cuori, / e la fame che chiama la morte”. E anche la funzione del poeta stesso e quella della poesia vengon ridisegnati: “Esser poeta / è come creare circuiti d’immagini / che sprigionano scintille / e feriscono pensieri, cuori e sentimenti. / .../ Poesia è rapporto d’amore, / speranza / chiusa in cellule di fiducia”.

Questi ed altri importanti temi sono da lui svolti col calore della convinzione (che si condensa in frasi lapidarie come “Nulla è sproporzionato nella verità”) e con soffuso lirismo. Per accorgersene, basta leggere “Ad una madre”, in cui le tappe della sofferenza sono scandite dal nervoso andare a capo, a costruire altalene di speranze. E perfino l’arido linguaggio della matematica in “Frazioni di speranze” è obbligato a farsi lirico e ad assumere connotazioni metaforiche. Infatti caratteristica della poesia del Coppone è il lirismo: al di là di qualche espressione ermetica, che impegna il lettore nella comprensione, e di qualche altra retorica, l’essenza di questa poesia è lirica.

Una mesta melodia sottende l’intera silloge e le dà l’impronta della musicalità e della cantabilità, che invita il lettore a leggere e rileggere proprio per assaporarne l’armonia. Ciò è ottenuto grazie a parole bene scelte e a versi ben costruiti, che quasi cullano il lettore. L’autore, quindi, si presenta come un aedo che sa imbastire le sue storie e cantarle con sentimento d’amore universale e — tutto sommato — con quella dose d’ottimismo che gli consente di sognare un’umanità migliore: “Ritorno a sognare, / e mi risveglio. / talpa invernale, / per gettare sulla scena / la più bella commedia della vita”.

Carmelo Ciccia[“La procellaria”, Reggio di Calabria, lug.-sett. 2003]

Filadelfio Coppone, Voci sparse nell’anima, Offset Grafica, Ospedaletto (PI), 2001, pagg. 46, E. 4,65.

Filadelfio Coppone è un poeta e un animatore culturale dalla forte tempra e dalle numerose iniziative letterarie, il quale — nato in Libia, cresciuto a Paternò, professore d’inglese a Catania — dopo la morte della moglie s’è fatto sacerdote ed ora è parroco a Catania, anche con interessi missionari in Tanzania. Il radicale cambiamento di vita inizialmente lo ha portato ad abbandonare la letteratura; ma, dopo alcuni anni di silenzio, egli è tornato in libreria, anzitutto col libro Il sogno di una favola (Greco, Catania, 1995), in cui con delicatezza di tratti ha rievocato la figura della sua sposa, la sua vicenda matrimoniale e la sua decisione di consacrarsi a Dio.

È seguita la silloge di liriche Meandri di pace (Caccetta, Catania, 2001) scritte negli anni ‘70-’80 dello scorso secolo, in cui l’autore, quale messaggero di pace, deplora tutte le cause d’inimicizia e le fonti di malessere sociale, coltivando la sempre viva speranza d’un acquietamento delle passioni e d’una pacificazione generale.

Contemporaneamente è uscita anche la silloge Voci sparse nell’anima, che contiene liriche scritte negli anni ‘80. In essa il contenuto e lo stile sono quelli che già conosciamo da molti anni: delinquenza, mafia, droga, morti innocenti costituiscono un quadro negativo della Sicilia, perché sono bubboni difficili da sradicare; ma la visione del poeta s’allarga prima a tutto il Sud, tanto che ad un certo punto egli si chiede che cosa abbia fatto di male il Sud per essere condannato a ciò, e poi al mondo intero, in cui le guerre pullulano di qua e di là, seminando morte, lutto e odio, mentre povertà e fame attanagliano intere popolazioni. Con mestizia, ma anche con profonda indignazione, il poeta si sofferma a contemplare morti col petto squarciato o col sasso in bocca, in un continuo crepitare di lupare, guizzare d’ordigni vari e sprizzare sangue. Non mancano altri temi sociali come l’aborto e il degrado della nuova scuola. Ma al di sopra di tutto domina la speranza che nella fede e nella spiritualità gli uomini riscoprano il senso della fratellanza cristiana e sappiano sempre e dappertutto guardarsi con reciproco amore: anche se “Caino attende sempre in agguato” e se “un altro Abele cadrà / aggrappato alla terra”, “ci sarà sempre un’alba / che dissolverà ombre di guerra / e rigenererà crogiuoli d’amore”.

Perciò anche la silloge Voci sparse nell’anima, fra l’altro vincitrice d’un 2° premio e introdotta da un’accurata prefazione di Nazario Pardini, merita grande attenzione per i nobili sentimenti e per lo stile elevato, nel quale domina la metafora, presente quasi in ogni composizione. In certe composizioni d’alto lirismo, poi, l’autore descrive il paesaggio della Sicilia, i suoi prodotti, le sue tradizioni e altri aspetti di questa terra. Infine la struttura dei versi e delle strofe, le figure retoriche, le rime sparse e la diffusa musicalità confermano le collaudate qualità d’un autentico poeta come Filadelfio Coppone.

Carmelo Ciccia

[ “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 17.VII.2003]




SPIRITUALITÀ E POESIA IN FILADELFIO COPPONE

di Carmelo Ciccia

Il 6 ottobre 1990, dopo lunghe sofferenze sopportate con cristiana rassegnazione, a causa d’un male inguaribile cessava di vivere la signora Ida Casella in Coppone. Questo sembrerebbe un qualsiasi annuncio funebre, triste epilogo d’una delle tante storie di malattie incurabili che si svolgono in un’altalena di speranze, delusioni e angosce. Ma in questo caso il vedovo superstite è un poeta, che poi si è fatto sacerdote; e, dopo aver pubblicato vari libri di liriche, che gli hanno procurato significativi riconoscimenti, con il libro Il sogno di una favola (Greco, Catania, 1^ ediz. 1995, 5^ ristampa 1999, pagg. 126, £ 20.000) ha voluto ripercorrere non solo le stazioni di quella via crucis, ma anche le esaltanti tappe d’una straordinaria unione coniugale.

Ecco allora la giovane Ida prima studentessa e poi laureata (sia pure a fatica, a causa di varie peripezie), e i due giovani che s’innamorano e si sposano; e, pur non potendo avere figli, gustano ogni giorno di più la gioia d’amarsi come due colombi; ma poi, dopo quasi un quarto di secolo, sopravviene il male e s’accentua la sofferenza (che pure non era mai rimasta assente del tutto), con tutto il suo oneroso fardello. E poi giunge la morte; e per il vedovo, oltre all’impegno di continuare quell’amore anche dopo la morte, la vocazione religiosa, il diaconato e il sacerdozio, che lo portano non solo a diventare parroco in Catania, ma anche periodicamente missionario in Tanzania, a favore dei bisognosi africani.

Il Coppone, nato a Bengasi, studente a Paternò e poi professore d’inglese a Catania, ha ora trovato, proprio grazie a quest’esperienza, la sua nuova via mediante la sua donazione a Dio. E questo libro, così diverso da tanti altri, vuol essere insieme un album di ricordi, costellato di numerose fotografie (a cominciare da quella delle nozze sulla copertina), e anche un aiuto a quanti hanno sofferto o soffrono difficili esperienze, affinché nel proprio calvario non disperino e anzi trovino nella dimensione religiosa lo scopo per continuare a vivere e per spendere anche meglio la vita.

Nel libro sono anche raccolti e annotati con amorevole cura lettere e pensieri della defunta e di conoscenti, relazioni scolastiche, gite, pellegrinaggi, diari di visite mediche e interventi terapeutici, orari di somministrazioni, osservazioni cliniche e reazioni... Ma soprattutto emerge la grande spiritualità di lei, che quotidianamente offriva a Dio il suo martirio, corroborata dallo sposo; il quale, poi, quasi dialogando con lei, ha voluto riportare nel libro lettere, pensieri e poesie proprie, che chiariscono o integrano quanto detto nella narrazione. È nata così una specie di dantesca Vita nova, con pagine ora in prosa ora in poesia, ora “in vita” ora “in morte” della cara Ida, la quale ha assunto il ruolo d’una novella Beatrice, conducendo l’amante (prima traviato) sulla retta via, che per lui è non soltanto la conversione, ma in aggiunta il sacerdozio. In sostanza, Ad Iesum per Mariam, ma nella fattispecie anche per Idam.

E certamente è inconsueto trovare un religioso che continua ad amare follemente la donna della sua passata vita coniugale, baciandone ogni sera la fredda immagine collocata sul cuscino, colloquiando con lei e attendendo il momento d’essere (come ha promesso) sepolto accanto a lei, alla quale dedica il giorno della sua ordinazione sacerdotale con le ultime parole del libro: “a te, mia fata dai capelli biondi, mia principessa dagli occhi castano-perlato”.

Ovviamente in un libro di così alta drammaticità e moralità gli occasionali errori ed imperfezioni di forma vanno trascurati. Infatti Il sogno di una favola di Filadelfio Coppone è non solo un affascinante racconto d’amore e morte, chiaro, lucido e fortemente emozionante, ma anche l’apoteosi d’una donna-sposa-insegnante ideale e in definitiva un’opera di testimonianza e d’edificazione, capace di coinvolgere i grati lettori e di diventare un giorno — chissà — prezioso documento in processi di beatificazione.

Per quanto riguarda la poesia, dopo un lungo silenzio, dovuto alla tragica morte della moglie e alla propria ordinazione sacerdotale, il Coppone riprende l’attività letteraria per la quale aveva conseguito prestigiosi riconoscimenti, e ripubblica una raccolta di liriche che già dal titolo s’inserisce nell’attuale dibattito sulla necessità della pace: Meandri di pace (Caccetta, Catania, 2001, pagg. 32, s.p.).

In effetti il silenzio di questo poeta era un danno per gli amanti della poesia, considerato l’alto livello da lui raggiunto grazie al suo forte afflato lirico. Ma ora il lungo periodo critico sembra superato e l’autore è tornato in tipografia, riproponendo delle liriche scritte negli anni ‘70-’80.

Filadelfio Coppone può essere definito un messaggero di pace. Quanti poeti hanno cantato le gesta, l’amore, il paesaggio, la bellezza della natura, la fede in Dio, la religiosità...: il Coppone in tutta la sua produzione ha privilegiato la pace, che giustamente per lui non è solo assenza di guerra, ma anche presenza d’amore e fratellanza fra cittadini e popoli. Ecco perché egli deplora non solo il continuo insorgere di guerre ora in questa ora in quella parte del mondo, ma anche qualsiasi attacco dell’uomo contro l’uomo, che lo rende non più Homo sapiens, ma Homo homini lupus. E, se da una parte esprime soddisfazione per l’accordo di pace finalmente raggiunto nel Vicino Oriente (accordo che da subito ha cominciato a vacillare, dando luogo poi alla guerriglia sanguinaria, come dolorosamente testimoniano le odierne stragi), dall’altra per l’Italia piange sulle vittime della mafia che provoca uccisioni a catena e del terrorismo che sopprime poliziotti e carabinieri (rei soltanto di guadagnarsi il pane con la difesa dell’ordine pubblico), lasciando mense imbandite di nero e madri, mogli e figli in preda alla disperazione. Ma nel pensiero del poeta ci sono anche i poveri, i tossicodipendenti e gli emigranti, i quali ultimi per sfamarsi sono costretti a lasciare la patria e ad intraprendere in remote terre una vita di carenza affettiva, e fra essi alcuni soffrono per il colore della pelle, nera o gialla che sia, trovandosi a mendicare lontano una vita dignitosa: “Ora, in una terra non mia / pianto chiodi d’amore / e fisso immagini di sofferenza / su un letto di ricordi”.

Dunque, il poeta annuncia il tempo della pace: “é tempo di sorridere in case / dove il sole scoppia di calore, / di cogliere frutti in campagne deserte, / di cancellare il dolore / impietrito nei cuori, / e la fame che chiama la morte”. E anche la funzione del poeta stesso e quella della poesia vengon ridisegnati: “Esser poeta / è come creare circuiti d’immagini / che sprigionano scintille / e feriscono pensieri, cuori e sentimenti. / .../ Poesia è rapporto d’amore, / speranza / chiusa in cellule di fiducia”.

Questi ed altri importanti temi sono da lui svolti col calore della convinzione (che si condensa in frasi lapidarie come “Nulla è sproporzionato nella verità”) e con soffuso lirismo. Per accorgersene, basta leggere “Ad una madre”, in cui le tappe della sofferenza sono scandite dal nervoso andare a capo, a costruire altalene di speranze. E perfino l’arido linguaggio della matematica in “Frazioni di speranze” è obbligato a farsi lirico e ad assumere connotazioni metaforiche. Infatti caratteristica della poesia del Coppone è il lirismo: al di là di qualche espressione ermetica, che impegna il lettore nella comprensione, e di qualche altra retorica, l’essenza di questa poesia è lirica.

Una mesta melodia sottende l’intera silloge e le dà l’impronta della musicalità e della cantabilità, che invita il lettore a leggere e rileggere proprio per assaporarne l’armonia. Ciò è ottenuto grazie a parole bene scelte e a versi ben costruiti, che quasi cullano il lettore. L’autore, quindi, si presenta come un aedo che sa imbastire le sue storie e cantarle con sentimento d’amore universale e — tutto sommato — con quella dose d’ottimismo che gli consente di sognare un’umanità migliore: “Ritorno a sognare, / e mi risveglio. / talpa invernale, / per gettare sulla scena / la più bella commedia della vita”.

Contemporaneamente è uscita anche la silloge Voci sparse nell’anima (Offset Grafica, Ospedaletto di Pisa, 2001, pagg. 46, E. 4,65), che contiene liriche scritte negli anni ‘80. In essa il contenuto e lo stile sono quelli che già conosciamo da molti anni: delinquenza, mafia, droga, morti innocenti costituiscono un quadro negativo della Sicilia, perché sono bubboni difficili da sradicare; ma la visione del poeta s’allarga prima a tutto il Sud, tanto che ad un certo punto egli si chiede che cosa abbia fatto di male il Sud per essere condannato a ciò, e poi al mondo intero, in cui le guerre pullulano di qua e di là, seminando morte, lutto e odio, mentre povertà e fame attanagliano intere popolazioni. Con mestizia, ma anche con profonda indignazione, il poeta si sofferma a contemplare morti col petto squarciato o col sasso in bocca, in un continuo crepitare di lupare, guizzare d’ordigni vari e sprizzare sangue. Non mancano altri temi sociali come l’aborto e il degrado della nuova scuola. Ma al di sopra di tutto domina la speranza che nella fede e nella spiritualità gli uomini riscoprano il senso della fratellanza cristiana e sappiano sempre e dappertutto guardarsi con reciproco amore: anche se “Caino attende sempre in agguato” e se “un altro Abele cadrà / aggrappato alla terra”, “ci sarà sempre un’alba / che dissolverà ombre di guerra / e rigenererà crogiuoli d’amore”.

Perciò anche la silloge Voci sparse nell’anima, fra l’altro vincitrice d’un 2° premio e introdotta da un’accurata prefazione di Nazario Pardini, merita grande attenzione per i nobili sentimenti e per lo stile elevato, nel quale domina la metafora, presente quasi in ogni composizione. In certe composizioni d’alto lirismo, poi, l’autore descrive il paesaggio della Sicilia, i suoi prodotti, le sue tradizioni e altri aspetti di questa terra. Infine la struttura dei versi e delle strofe, le figure retoriche, le rime sparse e la diffusa musicalità confermano le collaudate qualità d’un autentico poeta come Filadelfio Coppone.

Carmelo Ciccia

BIBLIOGRAFIA

C. Ciccia, Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2002, pag. 142.

[“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2003]


Filadelfio Coppone, Abdur e l’elefantino, Caccetta, Catania, 2002, pagg. 48, s. p.

Romanzo per l’infanzia viene definito nel sottotitolo questo Abdur e l’elefantino scritto da Filadelfio Coppone, che già conoscevamo come valido poeta e che ora si presenta con successo come narratore. Eppure questo libretto non può essere limitato all’infanzia; tanti adulti, specialmente quelli che vogliono fuggire dai veleni di tanta stampa e televisione d’oggi, hanno bisogno di leggere opere come questa: semplice, chiara, scorrevole e soprattutto imbevuta d’una sbrigliata fantasia.

Quest’opera infatti ha molto da insegnare a piccoli e grandi: può trasportarli non soltanto nel mondo naturale della fiaba, fra giungle, elefanti, scimmie, coccodrilli ed altri animali tipici, ma anche in quello soprannaturale, grazie a personaggi e fenomeni paranormali come individui con tre sole dita per arto, illuminazioni straordinarie e scoperte di tesori. Si direbbe che in un certo senso il Coppone faccia uso di quelli che oggi nel cinema e nella televisione vengono detti effetti speciali.

E al cinema e alla televisione viene da pensare leggendo questo libretto, il quale potrebbe benissimo essere trasformato in film, magari a disegni animati. Del resto le graziose illustrazioni che lo accompagnano possono essere un’anticipazione dei futuri disegni.

Nell’opera ci sono tutti gl’ingredienti per attirare i lettori e avvincerli fino alla conclusione del racconto. C’è il fascino dell’Africa primitiva e selvaggia, nella quale lo stesso autore, che è un sacerdote attento e sensibile, ha fatto una lunga esperienza missionaria, con cospicue donazioni. E certamente questo libretto non può non suscitare interesse nei confronti dei bisogni di quel continente, in cui oltre al folclore esistono privazioni e difficoltà varie: nel cibo, nel vestiario, nell’alloggiamento, nei medicinali, nell’istruzione.

L’abilità dell’autore si rivela anche negli scenari delineati e nel lessico adoperato: spesso egli si sofferma a descrivere qualche alba, qualche tramonto o qualche aspetto della vegetazione, dipingendoli come natura sa fare. E se possono impressionare scene di violenza, come sacrifici d’animali o atti di cannibalismo, colpisce pure la grazia d’un bambino come il protagonista Abdur, peraltro simile a tanti nostri bambini nell’intelligenza e nella vivacità.

Dunque, il simpatico elefantino Ladin ha anche lo scopo di stimolare i lettori ad una riflessione sullo stato di popolazioni, a volte in perenne guerra fra di loro, che hanno bisogno di conseguire una pace duratura e uno stadio superiore di civiltà. Lo evidenzia l’autore stesso nelle ultime pagine, quando il racconto prende la forma dell’allocuzione: non solo col tesoro trovato e con offerte ricevute si costruisce una città all’europea (dotata delle moderne comodità e tecnologie) e Abdur ne diventa re, ma in essa giunge un missionario cattolico che ottiene la rapida conversione di quel popolo al cristianesimo. Allora la favola diventa auspicio, frammista a utili considerazioni sulla crudeltà e inutilità delle guerre: ed è questo il momento in cui il simpatico elefantino sparisce, per far posto alla concretezza del messaggio cristiano, base di partenza per ulteriori forme di civiltà.

Carmelo Ciccia

[“La procellaria”, Reggio di Calabria, ott.-dic. 2003]


Beatrice Cornado, Poesie, Pellegrini, Cosenza, 1971; e Dove l’anima respira, Regione letteraria, Bologna, 1973.

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NOTE CRITICHE SU AUTORI E LIBRI: CORNADO, CUONO, GABRIELE, RUSSO

Beatrice Cornado, nata nel 1945 a Brescia, dove risiede e insegna lettere, ha ottenuto parecchi riconoscimenti per le sue poesie. Collabora a giornali e riviste, occupandosi anche di critica letteraria.

Leggendo le sue sillogi Poesie (Pellegrini, Cosenza, 1971) e Dove l’anima respira (Regione letteraria, Bologna, 1973), ciò che ci colpisce a prima vista è la speranza: “Un mare di speranza / inchioda / il mio desiderio”; “Spirali di speranza / mi regalano soffusi candelabri / di luci trasparenti”; ”La speranza / conosce motivi certi / di un evento / insicuro. / Il domani / si frantuma / nell’attesa”. E in questa frantumazione di versi c’è la visualizzazione della frantumazione del domani. La speranza si ritrova nei titoli delle composizioni o al loro interno, oppure si mescola alla visione d’un paesaggio: “L’autunno / dispensa fragranze / legate ai sapori del bosco, / dove l’anima indugia / in preghiere di silenzio / e il cielo / uno specchio di speranze”. Ma alla speranza spesso si contrappone la delusione, la certezza che ciò che si spera non potrà avverarsi: “Oh Grido d’anima! / non saprai mai / il tormento / di sogni impossibili!”.

Con queste citazioni si ha un’idea — seppur pallida — della poesia di Beatrice Cornado, una poetessa che ha assaporato l’entusiasmo della felicità e l’amarezza della delusione. Qui essa va alla ricerca di sogni impossibili, ma che — non si sa mai — potrebbero anche avverarsi, dato che lei tenta d’esorcizzare il futuro. No, non ci sono lamentazioni in queste composizioni, ma un altalenare di sentimenti che la poetessa vuole esternare per comunicare, per trovare una sintonia, una stretta di mano, un’amicizia, un amore...

Eppure nulla di sfacciato c’è in ciò: con pudore la poetessa presenta sé, i suoi sentimenti, la sua poesia; un pudore, però, che non manca di vigore, riscontrabile nella tensione della seconda silloge: una tensione che spinge la poetessa ad andare sempre avanti. Certamente nella prima silloge la formazione della poetessa è ancora gracile, ma nella seconda essa s’è fatta robusta. Anche se permane qualche incertezza lessicale, la sua voce è inconfondibile e la consapevolezza di sé è acquisita.

Nella poesia della Cornado c’è una gradevole commistione d’interiore ed esteriore. Il paesaggio così frequente, e sempre dalle linee dolci e dai colori smorzati, è non soltanto lo specchio dell’anima della poetessa, ma anche il veicolo dei suoi sentimenti. C’è una fusione fra paesaggio e sentimento che ricorda il Leopardi: un ricordo non tanto remoto, dal momento che in certe composizioni si riscontra un lessico d’ascendenza leopardiana e ungarettiana. A questo riguardo non si può parlare di copiature, perché tale lessico è così ben inserito nel contesto che può dirsi appartenente proprio alla Cornado.

Tutto sommato, dunque, siamo in presenza d’una poetessa dotata di buone attitudini alla poesia, per quanto riguarda sia la forma che la sostanza.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-giu. 2009]

Nunziata Corrado Orza, Dante, poeta nazionale ed europeo, Loffredo, Napoli, 1974, pagg. 88, £ 1.500.

DANTE NAZIONALE ED EUROPEO NELL’ESEGESI DI NUNZIATA CORRADO ORZA

Nel 1965, celebrando il settimo centenario della nascita di Dante ad Auronzo (BL) e a Paternò (CT), ipotizzavo che l’idea dantesca della monarchia universale, da molti ritenuta utopistica, potesse trovare riscontro negli attuali tentativi di costituire un’Europa Unita, “tanto più che anche la Costituzione italiana prevede una limitazione della sovranità nazionale a vantaggio della formazione di organismi politici supernazionali”, tendenti alla pace mondiale. La mia conferenza con questa ipotesi d’un Dante europeista poi trovò organica sistemazione nel saggio “Attualità di Dante” incluso nel libro Impressioni e commenti (Virgilio, Milano, 1974), mentre fu riecheggiata nei saggi “Il magistero morale e civile di Dante” incluso nel libro Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante (Pellegrini, Cosenza, 2002) e “Dante e la coscienza nazionale sulla scorta di Gioacchino e altri autori” incluso nella rivista “Abate Gioacchino” (Cosenza, dic. 2005), anch’essi esplicitati in conferenze tenute in varie località italiane, fra cui Treviso, Pordenone e Roma. C’è da aggiungere che nel 2005, festeggiando i miei 40 anni di conferenze dantesche a Conegliano (TV), volli riproporre la stessa conferenza di 40 anni prima, e cioè quell’“Attualità di Dante” in cui accostavo l’idea dantesca della monarchia universale a quella dell’Europa Unita.

Dunque c’è piena sintonia fra me e Nunziata Corrado Orza, del cui libro Dante, poeta nazionale ed europeo (Loffredo, Napoli, 1974) vengo a conoscenza soltanto ora. A qualcuno potrà sembrare strano e fuor di luogo che si possa recensire un libro edito oltre 30 anni fa; ma così non è, perché Dante è un autore sempre attuale, proprio anche per ciò che attiene alla costituzione europea. E, se scrivo con entusiasmo di questo lavoro, ne ho ben la ragione.

Fin dalle prime pagine di questo libro ci s’accorge d’essere in presenza d’un’autrice non soltanto appassionata di Dante, ma anche dotata di solida preparazione e di notevole capacità espressiva. Perciò il libro si configura subito come una di quelle pubblicazioni d’una volta in cui alla forma grafico-editoriale ben curata s’univa il rigore del contenuto, frutto di studi profondi, prevalentemente fondati sulla cultura umanistica, che qui risulta esaltata. Ecco perché l’ordito esegetico è basato su frequenti e ampie citazioni in latino (Virgilio, Lucano, Dante, ecc.) e in italiano (Foscolo, Leopardi, Manzoni, Carducci, ecc.), che rivelano un’ottima conoscenza dei testi e ci riportano alla serietà-severità della scuola del passato. Ma ci sono anche numerose citazioni della Divina Commedia, specialmente quelle in forma di massime, scaturite dalla profonda saggezza e dall’alta moralità di Dante, che trasformano il libro quasi in un massimario.

La Corrado Orza segue un filo conduttore che va dal maestro Virgilio al discepolo Dante, visti come cantori di Roma, dalla grandezza romana alla miseria italiana, da Firenze all’Italia e poi all’Europa. Secondo l’autrice, Dante sceglie Virgilio quale sua guida per la sua consonanza con lui e per l’asserzione del diritto dei romani (derivante da volontà divina) a dominare il mondo e fondere i popoli in un unico e pacifico organismo politico. Ecco allora l’interesse di Dante per l’impero e gl’imperatori, ed in particolare per Arrigo VII, a cui il divino poeta riserva un seggio in paradiso e che secondo l’autrice potrebbe anche essere la personificazione del Veltro. Ed è ovvio che trattando dell’autorità politica Dante non può non trattare anche di quella religiosa, la quale con l’altra si scontra, dando luogo ad ardite e ripetute invettive contro quei papi e vescovi che associano la spada al pastorale e per giunta s’allontanano dalla retta via con avarizia, simonia, lusso, sperpero e corruzione varia.

Nell’analisi della Corrado Orza, che è pure un excursus storico-letterario attraverso i secoli, un posto di rilievo è dato anche al grande amore-odio di Dante per Firenze, di volta in volta espresso come ammirazione, rimpianto, rampogna, ironia, sarcasmo. Da Firenze all’Italia intera il passo è breve; e la Divina Commedia è anche un catalogo dei mali dell’Italia, presenti in tutte le sue regioni e città per il cattivo comportamento dei vari reggitori: cosa che fa trasformare Dante nel nostro poeta nazionale, perché in lui s’incarna quella coscienza dell’italianità che lui stesso seppe suscitare, fornendo agl’italiani non soltanto il senso dell’identità, di cui avevano bisogno per diventare un popolo libero, ma anche il modello linguistico in cui esprimere e cementare la loro unità. A questo riguardo sono importanti le notazioni che l’autrice fa quando definisce Dante fondatore della coscienza nazionale italiana come lo furono Mosè per gli ebrei, Maometto per gli arabi e Washington per gli statunitensi; quando pone Dante al centro o culmine d’una serie di poeti, scrittori, pensatori, scienziati, ecc. che hanno reso grande l’Italia in Europa e nel mondo; quando documenta lo sbigottimento provocato dalle esequie di Dante, già allora visto come vate nazionale; quando esprime il suo concetto di poesia come elemento d’unione e civilizzazione d’un popolo; e quando cita grandi personaggi come i musicisti Liszt e Wagner che leggevano abitualmente Dante e poi s’ispiravano a lui per le loro opere.

Quindi dall’Italia l’autrice passa all’Europa: e sulla scia delle definizioni di Eliot (secondo il quale Dante cementa la cultura europea), Curtius e Guidubaldi (che trova solo in Dante l’atmosfera europeistica unitaria) definisce Dante poeta europeo che contro i singoli nazionalismi propone una patria europea, cioè romana, facendoci respirare un clima comunitario. L’autrice nota lo smarrimento e il vuoto psicologico in cui vive la società europea del Novecento, come risulta anche dai numerosi brani poetici d’Ungaretti, Montale e Quasimodo, che conferiscono a questa parte del libro il gradito aspetto d’una antologia scolastica; e ritiene che allo sbandamento si possa ovviare — dopo le esperienze dannunziane, marxistiche, positivistiche e scientistiche — mediante un ritorno alla spiritualità e religiosità: in sostanza mediante un ritorno agl’ideali di fede, bellezza e giustizia insegnati da Dante, perenne benefattore dell’umanità. E, quando la Corrado Orza propone che gl’ideali e i valori religiosi di Dante diventino il punto di riferimento per l’Europa Unita, di fatto s’inserisce nel dibattito politico dei nostri giorni e lancia un messaggio ai politici, sottolineando l’ineludibilità della citazione delle radici cristiane del nostro continente nel documento della Costituzione Europea.

Perciò non soltanto Dante è attuale, ma lo è anche questo libro di Nunziata Corrado Orza, che ora meriterebbe una ristampa, magari con la correzione di qualche sporadica svista ivi esistente, l’uso dei corsivi nei titoli e nelle parole latine o straniere e l’aggiunta in nota della traduzione dei vari brani in latino. A quest’ultimo riguardo è vero che le numerose citazioni in latino conferiscono al lavoro prestigio e l’impronta della classicità, dando occasione ad alcuni lettori di respirare a pieni polmoni l’atmosfera del mondo classico e fare in esso una piena immersione, ma è anche vero che — in un tempo in cui nelle scuole gli autori classici oramai si studiano in traduzione — molti altri lettori storcerebbero il naso di fronte al latino.

Infine, per concludere la valutazione del libro Dante, poeta nazionale ed europeo, una segnalazione di merito va al chiaro stile, al lessico forbito e alla meticolosa punteggiatura, nonché all’ampia bibliografia e alle articolate note che con ulteriori dettagli opportunamente integrano e arricchiscono l’intelligente lavoro della Corrado Orza, alla quale va il sincero apprezzamento dei dantisti e degli altri lettori attenti.

Carmelo Ciccia

[“Il Salernitano”, Salerno, 5.III.2006; “Miscellanea”, San Mango Piemonte, marzo-apr. 2006; “Miscellanea”, San Mango Piemonte, speciale, 2006]


Antonio Crecchia, In morte del papa magno, Accademia “L. Mazzocco Angelone”, Isernia, 2005, pagg. 32, s. p.

Il poeta Antonio Crecchia, più volte premiato e decorato in Italia e all’estero, come risulta dalle numerose testimonianze critiche riportate a chiusura di quest’opuscolo, è certamente una delle figure più rappresentative della cultura contemporanea. Ora, in preda alla carica d’emozione che ha coinvolto il mondo intero nel rimpianto per la morte dell’amato e ammirato pontefice Giovanni Paolo II, egli ha pubblicato un lungo componimento in versi che ha definito carme.

L’iniziativa è certamente lodevole dal punto di vista umano per lo spirito che anima il componimento stesso, per gli elogi che vi sono espressi e per le utili riflessioni che ne sprigionano. Però, a parte una svista grammaticale presente nella nota introduttiva, non sembra che possa essere definito carme, e quindi neanche poesia, un componimento di strofe e versi liberi privi di metrica, di ritmo e di musicalità, nonché con rime saltuarie. Inoltre, quanto ai tempi verbali, c’è un non sempre giustificato oscillare fra presente, passato remoto e passato prossimo.

Pur escludendo qualche brano riuscito, il componimento resta nel complesso un’orazione notevolmente retorica, con frequenti anafore e iniziali maiuscole. Tale orazione più opportunamente, perciò, avrebbe dovuto essere stata scritta in prosa, e non in versi.

Ovviamente questo giudizio negativo investe esclusivamente la tecnica poetica e nulla toglie alla nobiltà dell’assunto.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, marzo 2006]


Carlo Cuini, Novità nella Divina Commedia / acrostici e motivi polemici, Serarcangeli, Roma, 1993, pagg. 246, £ 24.000.

Per un aggiornamento bibliografico: NOVITÀ DANTESCHE DI CARLO CUINI

Avvalendosi della sua straordinaria conoscenza di tutte le opere di Dante, ed in particolare della Commedia, e della relativa bibliografia antica e recente, che dimostra di avere ben assimilato e di saper padroneggiare destreggiandosi fra commenti e commentatori, Carlo Cuini ha recentemente prodotto un’opera di grande valore che merita apprezzamento e diffusione: Novità nella Divina Commedia / acrostici e motivi polemici (Serarcangeli, Roma). Il libro raccoglie articoli e saggi apparsi in importanti giornali (come “L’osservatore romano”), conferenze e lecturae Dantis, in cui l’autore esamina canti, episodi, personaggi e singoli versi, riprende questioni, presenta delle scoperte, avanza ipotesi e proposte.

Fra i tanti argomenti trattati, vengono rivisitati e vagliati criticamente personaggi come il Veltro, “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, la “coppia” Paolo e Francesca, Ciacco, Ulisse, Ugolino, Manfredi, Sapìa, Stazio, Piccarda, ecc.; ma, oltre ad essi, ci sono numerosi spunti di discussione su particolari a volte apparentemente insignificanti o secondari, ma che nell’esegesi del Cuini vengono ad assumere la debita importanza. Siamo quindi in un campo d’alta ermeneutica, dove i procedimenti deduttivi sono basati su una logica serrata e sfociano in una specie di maieutica, con la quale l’autore guida l’ascoltatore o il lettore verso la conclusione da lui sostenuta. Tali procedimenti a volte assomigliano anche a dibattimenti giudiziari e sanno suscitare quel clima di sospensione che, come nei gialli, avvince il lettore.

Forse mai prima d’ora in questo campo un’ipotesi, magari relativa all’identificazione d’un personaggio, è stata sostenuta con tanta dovizia d’argomentazioni, tanto rigore logico e tanto vigore. Citiamo al riguardo il caso di “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, che per il Cuini è Pilato: la dimostrazione dell’assunto ci toglie un incubo, perché così vediamo scagionato l’innocente e ingenuo papa Celestino V, su cui si erano accaniti molti commentatori dimenticando la sua probità e la sua ufficialmente riconosciuta santità.

Circa il Veltro, però, dal Cuini identificato con Dante stesso, ci sembra che dopo la solida conclusione a cui è pervenuto il Tondelli (il quale, rifacendosi all’oratorium del Canis contenuto in una figura del Liber figurarum dello stesso Gioacchino, ha identificato quest’animale con l’auspicato nuovo clero della stessa 3^ Età e così ha risolto definitivamente l’enigma) non ci sia spazio per nuove supposizioni.

Il libro si conclude con un capitolo molto importante: quello in cui l’autore afferma di avere scoperto degli “acrostici” con i quali nell’ultimo canto della Commedia il divino poeta avrebbe espresso gratitudine e soddisfazione per aver completato l’opera e manifestato l’utile scopo di essa. La lunga e motivata esposizione di questa scoperta è certamente accattivante, ma — a nostro parere — non va al di là della passione e della bravura del Cuini, essendo impossibile dimostrare la volontà di Dante al riguardo. Nelle lettere iniziali d’ogni verso ognuno può vedere la parola che vuole, anche se le frasi “inventate” (dal latino invenio) dal Cuini saltando da un verso all’altro pur non consecutivo e a volte pur a notevole distanza di versi fra una lettera scelta e l’altra, sono non solo di senso compiuto ma perfettamente attinenti all’assunto e forse le uniche possibili.

Tuttavia, consentendo sempre o non sempre con lui, va riconosciuto a Carlo Cuini il merito del notevole contributo arrecato alla critica dantesca. La grande competenza, la profonda cultura, la passione, la forma perfettamente chiara e scorrevole nell’impegnativo linguaggio d’alto livello e lo stile avvincente fanno di queste Novità nella Divina Commedia un’opera destinata a scuotere questo settore. Sicché i postulati di questo libro devono essere acquisiti dalla critica presente e futura e quanto meno citati nei commenti scolastici.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, sett. 1999]


Angelino Cunsolo, Don Cesare / Chiddu ca campa ’o scuru, C.R.E.S.,Catania, 2007, pagg. 105, s. p.

Angelino Cunsolo, per un quarantennio docente di matematica e scienze, è un giornalista di lunga carriera, appassionato di ricerche storico-archeologiche locali e di poesia, ma a volte anche di narrativa, con racconti in cui confluiscono elementi storici e fantastici. Ora in questo racconto lungo — vero e proprio romanzo — estrinseca le sue doti di narratore in un lavoro d’ampio respiro, impregnato dell’humus di Sicilia.

D’acchito emergono le qualità positive dell’opera, che sono la fantasia creatrice, la chiarezza, la scorrevolezza e la semplicità. La ripartizione in agili capitoli e i titoli di questi stessi facilitano la rapida comprensione del contenuto, mentre le sospensioni, qualche mistero poi svelato (“giallo”) e la concatenazione delle vicende avvincono il lettore, il quale non vede l’ora di pervenire alla fine per gustare eventi, fraseggio e insegnamenti morali, anche se ai colpi di scena imprevisti si alternano soluzioni prevedibili e ovvie. C’è poi il fiabesco: la storia d’un rampollo di famiglia benestante che, dopo una serie di vicissitudini a volte mirabolanti, riesce a laurearsi, a sposare l’amata e a metter su famiglia con un paio di frugoletti, sembra davvero una fiaba, alla cui conclusione il lettore stesso potrà apporre il classico motto finale “E vissero felici e contenti”.

Dunque la storia si snoda fra un candido ottimismo e un pacato moralismo di stampo manzoniano: nelle vicende umane, seppur tristi, c’è sempre la Provvidenza che interviene a beneficio degli uomini, per quanto addolorati o disperati essi possano essere. E fra gli esempi morali non è da sottovalutare quello della donna pervertita che si pente e si fa suora, badando anche ai bambini d’asilo per insopprimibile istinto materno, anche se ciò sembrerebbe riportare l’egoistica e insensibile società odierna a qualche secolo fa, pur nell’impossibile esistenza allora di automobili, autoambulanze, telefonini, consigli scolastici e altre cose dei nostri giorni.

Riserve si possono avanzare per qualche svista o trascuratezza grammaticale, per la mancanza di virgolette o di corsivi nelle espressioni in lingua straniera e di traduzione (almeno in nota) in quelle dialettali. Ma nel complesso il lavoro si configura come uno dei più significativi del suo ambiente, tanto che se ne potrebbe ricavare un film (e gli attori sono molto opportunamente elencati ai fini d’un’agevole lettura), anche se certe situazioni e affermazioni potrebbero ad alcuni apparire obsolete. Eppure è proprio per il coraggio dimostrato nel riproporre valori oggi in declino (fede in Dio, verità, onore e pudore, sacralità della famiglia, redenzione dopo il peccato, altruismo, fedeltà, laboriosità…) che il Cunsolo merita un particolare elogio.

Infine sono notevoli la prefazione di Sebastiano Barbagallo e le illustrazioni della pittrice Carmen Arena, qui impropriamente chiamata “maestro” (al maschile) anziché “maestra” (al femminile) o semplicemente “pittrice”. La quasi elementarità “naïf” dei disegni dell’Arena rimanda a quella delle tavole dei cantastorie (se esistono ancora) e quindi contribuisce a inquadrare questa storia nel repertorio della cultura popolare, fatta di semplici narrazioni e di sani principi.

La forma grafico editoriale è apprezzabile, pur mancando il “finito di stampare” e l’indicazione della tipografia.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 29.II.2008]

Carmelo Cuono, Il treno del Sud, APE, Terni, 1980.

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NOTE CRITICHE SU AUTORI E LIBRI: CORNADO, CUONO, GABRIELE, RUSSO

Il campano Carmelo Cuono, morto nel 1997, fra l’altro pubblicò i seguenti libri: Il treno del Sud, Secondo incontro e Il trifoglio.

Esaminando il primo libro (APE, Terni, 1980), ci accorgiamo subito ch’esso nel titolo ricorda il famoso romanzo di Renée Reggiani Il treno del sole, ma non ne ha avuto né i pregi né la diffusione. Se ci commoviamo per quanto l’autore ci confessa riguardo alla sua vita, alle sue tristi esperienze, ai ricordi della sua infanzia ed adolescenza ed in particolare al ricordo di quel lungo treno del Sud, al suo pendolarismo e al suo amore per la poesia, non possiamo non rilevare in questa silloge di liriche la mancanza dei necessari mezzi espressivi, non soltanto a livello poetico, ma semplicemente — a volte — a livello grammaticale. Perfino le tecniche tradizionali (metrica e rima) quando usate sono imperfette o restano al limite del tentativo, mentre non fanno poesia arcaismi come “speme”, “tange”, “ragguaglia” e simili. Anche l’uso della punteggiatura è difettoso. Si salvano alcune composizioni quali “Poesia”, “Dolce musica” e qualche altra, in cui il Cuono riesce a raggiungere una certa suggestione.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-giu. 2009]


Giovanni Cutrufelli, Venti metri sotto Berlino, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2011, pagg. 160, s. p.

“Venti metri sotto Berlino” di Giovanni Cutrufelli

Fra storia e immaginazione, raccontati gli ultimi 15 giorni del nazismo

Dobbiamo essere grati al Centro di Ricerca Economica e Scientifica di Catania e al suo direttore editoriale Giancosimo Rizzo, che ha anche scritto la presentazione, per aver pubblicato nel 2011 il dramma di Giovanni Cutrufelli intitolato Venti metri sotto Berlino, il quale ha avuto una prima redazione nel 1969 e una seconda dieci anni dopo, ottenendo nel 1990 il premio nazionale “Mario Giusti” di 10 milioni di lire da una giuria composta da Domenico Danzuso, Antonio Di Grado, Giuseppe Di Martino, Carmelo Musumarra e Mario Sipala. L’attuale pubblicazione è curata da Ercole Tringale, attore, musicista e compositore, nonché docente di flauto in un istituto di Catania.

Giovanni Cutrufelli (Messina 1922 – ivi 2005), drammaturgo, attore e regista, ha diretto un centinaio di compagnie, messo in scena 250 spettacoli, fra cui tre quarti della produzione di L. Pirandello, varie opere classiche e 28 cicli di rappresentazioni al teatro greco di Taormina, lavorando coi più celebri attori del suo tempo. Ha pubblicato 130 saggi e monografie, 24 opere teatrali e alcune traduzioni.

L’originale dramma Venti metri sotto Berlino in 3 atti e 40 quadri (cioè scene) rievoca — fra storia e immaginazione — gli ultimi 15 giorni del nazismo durante l’accerchiamento da parte della coalizione nemica del rifugio sotterraneo in cui nell’Aprile del 1945 si stabilì la nuova cancelleria e in cui si trovavano circa 700 persone fra militari e civili, uomini e donne, in primis Adolfo Hitler con accanto a sé parecchi fedelissimi e qualche scettico o dissidente. La vita laggiù si svolge fra disposizioni strategiche, feste e balli, conferimento d’onorificenze e consegne di decorazioni, ordini di fucilazione per tradimento, comunicati bellici da parte di Radio Mosca e di Radio Londra; e vi si celebrano anche dei matrimoni, fra cui quello del dittatore con Eva Braun, il cui cognato però viene condannato alla fucilazione.

Si gode per la morte del presidente americano Roosevelt, la quale — con cieca fede negli oroscopi — viene interpretata come segno di riscossa per la sperata vittoria tedesca, e si deplora il “tradimento” di Heinrich Himmler per il suo tentativo di pace separata, mentre l’intempestiva autoproclamazione di Hermann Göring a successore di Adolfo Hitler porta ad una richiesta di fucilazione da parte dello stesso Göring, subito accolta dal dittatore.

Fra gli altri personaggi storici ci sono: Axmann, Bormann, Fegelein, Göbbels, Keitel, Ribbentrop, Speer, ecc.

Ovviamente emerge la figura del claudicante Hitler, che in qualche monologo rivela il suo carattere paranoico: “Quale fortuna per chi detiene il potere che gli uomini non siano capaci di pensare! Il pensiero esiste soltanto la (sic) dove vengono emanati gli ordini; e dove tali ordini sono fedelmente eseguiti. Altrimenti la società umana non potrebbe sussistere.” (p. 42). E più avanti: “La psiche della massa è insensibile a tutto quanto è debole e non assoluto.” (p. 52).

Durante le conversazioni il tempo è scandito dal crepitio delle bombe nemiche, mentre c’è sempre qualche fanatico che spera tuttora nella vittoria o perlomeno nella resurrezione del nazismo e della grande Germania. Ad esempio, in un clima di follia generale il soldato Hans rincara: “Perdio! Bonificheremo l’Europa e tutto il mondo! Diffonderemo l’idea del nazionalsocialismo; distruggeremo per sempre ogni segno di democrazia.” (p. 56). E l’aviere Hanna sentenzia: “Noi risorgeremo, gioventù di Hitler! Prima o dopo, noi risorgeremo, e tutto il mondo avrà la nostra impronta! Tutto il mondo! […] oggi e domani, voi dovrete nutrire ed alimentare, con tutta la vostra forza, soltanto odio, odio, odio!” (p. 65).

Allucinante è la fredda conferenza d’un medico sperimentatore dei campi di concentramento sul suicidio come gesto d’alto valore morale e sul modo migliore d’attuarlo: con precisi dettagli si parla di veleni, armi e altri sistemi, descrivendone i tempi di realizzazione e l’efficacia. Al riguardo Adolfo Hitler biasima Dante Alighieri che, in ossequio al pensiero della Chiesa d’allora, nel canto XIII dell’Inferno dannò i suicidi, trasformandoli in alberi stecchiti; mentre esalta certi personaggi mitologici e greco-romani come Seneca che lo misero in pratica o lo lodarono.

Il dittatore per sé sceglie il cianuro; e c’è una gara fra i fedelissimi nella scelta dell’arma letale, mentre una madre per devozione al capo destina alla morte anche i suoi innocenti bambini. Nella sua lucida determinazione il dittatore stesso calcola minutamente la quantità di benzina necessaria al rogo dei cadaveri, riservandone a sé un’aggiunta per maggior certezza, al fine d’evitare il vilipendio dei cadaveri stessi da parte dei “rossi”, come quello accaduto a Benito Mussolini, la cui tragica fine è appena accennata.

Così — al di là delle controversie storiche sulla vera sorte di Adolfo Hitler — quando i nemici sono a due isolati dal rifugio sotterraneo l’autore conclude i suo dramma con la morte del grande dittatore e con il bagliore rossastro del rogo, che come in una tragedia greca assume il carattere d’una catarsi finale imposta dal Fato.

Il libro di Giovanni Cutrufelli Venti metri sotto Berlino contiene anche fotografie, disegni e schizzi scenografici, spiegazioni, commenti e istruzioni varie sulla messa in scena. Per quanto riguarda la forma espressiva, il lavoro è in prosa, ma nel quadro 40° ed ultimo il grande dittatore s’esprime in versi. Nel testo poi si notano alcune sviste linguistiche.

Tuttavia, nonostante che il soggetto sembri alieno da una rappresentazione teatrale, l’autore vi è riuscito egregiamente, grazie alla sua consolidata esperienza teatrale; e in un incalzante susseguirsi d’avvenimenti, che alimentano la tensione ed il pathos, egli ha prodotto un dramma altamente significativo, capace di suscitare un’ampia ed utile riflessione su una catastrofe dell’umanità: con l’auspicio che mai più abbiano a verificarsi situazioni ed eventi del genere.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, ag. 2012]


Gianni D’Affara-Gert Thalhammer, Il lago di Millstatt, Industrie Poligrafiche Friulane, Maniago, 2^ ediz. 1998.

IL LAGO AUSTRIACO DI MILLSTATT

Il poderoso libro di Gianni D’Affara-Gert Thalhammer intitolato “Il lago di Millstatt”, stampato nel 1993 e 1998 dalle Industrie Poligrafiche Friulane di Maniago (PN) per conto della Società Dante Alighieri di Spittal, va al di là d’una pura e semplice guida turistica, configurandosi come un vero e proprio volume d’arte.

Anzitutto c’è la parte fotografica magistralmente eseguita dal D’Affara, noto fotografo di San Daniele del Friuli, il quale ha pubblicato altri volumi del genere. Queste immagini sono un pregio dell’arte fotografica, altamente qualificandosi per la scelta dei soggetti, la tecnica d’elaborazione e la personale poesia che l’autore v’infonde, riscontrabile nelle vedute e anche nelle didascalie. Il D’Affara ha fissato il suo obiettivo non soltanto su paesaggi, chiese e altri monumenti, ma anche sulle persone, cogliendone tutto ciò ch’esse possono esprimere all’osservatore. Ecco, dunque, che vengono posti in evidenza ammirevoli paesaggi e nel contempo significativi particolari, usi, costumi, feste, danze, concerti, spettacoli, riti, con una speciale attenzione ai volti di vecchi, bambini e graziose fanciulle: quanto basta a dar l’idea d’un’Austria felix, invitante alla visita, all’incontro e all’amicizia. E quindi il volume è come un album fotografico, da sfogliare e ammirare, e perciò non ha numerazione di pagine.

Poi c’è il testo esplicativo, che con le notizie e i commenti che il Thalhammer fornisce ne fa un volume di storia e geografia, soffermandosi anche su miti, leggende e curiosità della zona: e il tutto è scritto con semplicità e scorrevolezza, lontano da accademismi e pesantezze varie. L’autore parla del lago carinziano di Milstatt e del suo paesaggio, d’un antico manoscritto del lago stesso conservato a Klagenfurt e rappresentante un importante documento del volgare tedesco del sec. XII, della storia di Millstatt, con particolare riguardo alla presenza dei benedettini e d’altre comunità religiose, quali i cavalieri di S. Giorgio e i gesuiti; ma un posto d’onore hanno l’abbazia di Spittal e il castello dei conti di Porcia, oggi centri di cultura e spettacolo. L’autore fa un riferimento anche alla roccaforte di Sommeregg, spiega lo stemma di Seeboden, contenente una mitica ninfa ondina, traccia la storia di Spittal, che ebbe origine da un ospizio e su cui signoreggiarono delle famiglie italiane, e descrive il museo etnografico sistemato nel castello. Non mancano cenni sul carattere degli abitanti — fedeli alla religione cattolica e a riti, feste e tradizioni —, sullo svolgimento della vita lacuale e sul turismo, specialmente estivo, con una conclusione sull’origine del nome Millstatt, legato alla leggendaria distruzione di “mille statue” d’idoli pagani affondate nel lago.

Ne scaturisce un desiderio di conoscere la zona e recarvisi, alla ricerca di rilassamento e d’arricchimento culturale e spirituale, fra gente bonaria e gioviale. Ed è ovvio che dopo la lettura vari lettori vi si rechino per piacevoli vacanze o per prendervi dimora.

Gert Thalhammer è un appassionato cultore dell’Italia: ha studiato all’università di Bari, parla correntemente l’italiano e lo insegna a Spittal an der Drau, città in cui è presidente del locale comitato della Società Dante Alighieri. I suoi viaggi in Italia, per impegni culturali e visite alle città e ai numerosi amici che egli vi ha, di norma si svolgono ogni mese. E se non fosse per qualche refuso, si direbbe che questo testo, peraltro brillante dal punto di vista grafico-editoriale, sia stato scritto da un italiano.

Pertanto un vivo elogio va ai due autori e alla casa editrice, la quale degnamente sa competere con le grandi industrie editoriali.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin. lug.-dic. 2010]


Eugenio Dal Cin, Cognomi di Mansuè e Portobuffolè, Il sodalizio letterario, Rimini, 1997, pagg. 80, s. p. (1)

Eugenio Dal Cin, che da molti anni svolge un’intensa attività d’animazione culturale nel Veneto, è un appassionato cultore d’arte e di storia locale, particolarmente impegnato nella salvaguardia del patrimonio artistico, e come giornalista pubblicista ha anche fatto numerosi interventi sulla stampa periodica. Ultimamente si è dedicato a studi d’onomastica, settore al quale è stato attratto dall’implicito fascino, concentrando la sua attenzione — ovviamente — sulla zona in cui è nato e risiede, cioè la Marca Trevigiana. Ne è derivato questo lavoro su Cognomi di Mansuè e Portobuffolè; ed altri del genere se ne preannunciano.

In questi ultimi anni si è scoperta l’importanza dello studio dei cognomi e dei toponimi, come aspetto notevole della lingua e della storia d’una comunità. Al riguardo non si possono dimenticare i lavori dell’Olivieri, del De Felice (da cui discendono gli altri dizionari similari), del Rohlfs, del Pellegrini e del Finamore, che hanno preso in considerazione delle aree piuttosto vaste, se non l’intera nazione italiana; e così sono stati anche inseriti fascicoli di cognomi nei giornali: ma ora anche le piccole comunità sentono il bisogno di avere i necessari approfondimenti, precisazioni e integrazioni, con repertori circoscritti a determinati comuni e sulla base degli elenchi telefonici comunali. Il Dal Cin ha scelto due comuni che, per quanto piccoli (Mansuè 4.000 abitanti) o piccolissimi (Portobuffolè 700 abitanti, forse il più piccolo comune d’Italia) sono ricchi di storia e, specialmente il secondo, d’arte; perciò l’autore dà inizio al suo lavoro tracciando la storia dei due comuni e soffermandosi poi sul relativo patrimonio artistico, sicché il libro pu” servire anche da guida turistica: ma i cognomi di questi due comuni per la maggior parte sono anche veneti, friulani e istriani.

In quest’opera il Dal Cin mostra di possedere le necessarie competenze filologiche, storiche e geografiche. Ove possibile, d’ogni cognome egli fornisce la frequenza e spiega il significato, con note etimologiche e storiche. Abbondanti sono i riferimenti storici e linguistici e frequenti i rimandi. Data la varietà di lingue e civiltà incidenti sulla regione nel corso dei secoli, spesso si fa riferimento al latino, al germanico, al francese, allo spagnolo, ecc.

Opportunamente molti cognomi sono corredati della citazione di personaggi — anche viventi — della stessa o d’altre aree, sia come pratica esemplificazione sia come dimostrazione della diffusione. Non mancano cenni relativi alla toponomastica. Se ne ricava un caleidoscopio di nomi, soprannomi, caratteristiche fisiche, mestieri e professioni, usanze, provenienze geografiche, lingue e dialetti, personaggi più o meno noti, che danno un quadro della costituzione dell’attuale comunità.

In questo lavoro il Dal Cin si muove con indubbia sicurezza, dimostrando di essere sempre a suo agio; e, nonostante le immancabili insidie del percorso, non prende mai delle cantonate che a volte ha preso qualche studioso di ben più alta levatura: questo è un campo “minato” in cui si deve procedere con cautela e per ipotesi. Infatti egli, con la prudenza del caso, spesso si appoggia ad altri studiosi, tutti scrupolosamente citati, ai quali va quindi la paternità delle soluzioni prospettate. Poiché ad ogni modo non si limita ad essere soltanto ripetitore o portavoce, il Dal Cin dà un apprezzabile contributo agli studi d’onomastica, particolarmente se si considera che l’area indagata non era stata finora oggetto di ricerca specifica.

Infine anche dal punto di vista tipografico-editoriale, pur con qualche refuso, la pubblicazione ha una dignità sufficiente a rendere gradevole quest’interessante volumetto, molto denso nonostante il limitato numero di pagine.

Carmelo Ciccia

[“La procellaria”, Reggio di Calabria, genn.-marzo 1998; “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, dic. 2000]


Eugenio Dal Cin, Cognomi di Mansuè e Portobuffolè, Il sodalizio letterario, Rimini, 1997, pagg. 80, s. p. (2)

Studi di onomastica locale,

un libro sui cognomi di Mansuè e Portobuffolè

Eugenio Dal Cin, che da molti anni svolge un’intensa attività d’animazione culturale a Conegliano, è un appassionato cultore d’arte e di storia locale, particolarmente impegnato nella salvaguardia del patrimonio artistico. Ultimamente si è dedicato a studi d’onomastica e ha pubblicato il libro Cognomi di Mansuè e Portobuffolè (Il sodalizio letterario, Rimini, 1997).

Anzitutto egli mostra di possedere le necessarie competenze filologiche, storiche e geografiche. D’ogni cognome fornisce la frequenza e spiega il significato, con note etimologiche e storiche. Abbondanti sono i riferimenti storici e linguistici e frequenti i rimandi al latino, al tedesco, al francese, allo spagnolo, ecc.

Molti cognomi sono corredati della citazione di personaggi — anche viventi — della stessa o d’altre aree, sia come pratica esemplificazione sia come dimostrazione della loro diffusione. Non mancano cenni relativi alla toponomastica. Se ne ricava un caleidoscopio di nomi, soprannomi, caratteristiche fisiche, mestieri e professioni, usanze, provenienze geografiche, lingue e dialetti, personaggi più o meno noti, che danno un quadro della costituzione delle due comunità.

In questo lavoro Dal Cin si muove con indubbia sicurezza, dimostrando di essere sempre a suo agio; e, nonostante le immancabili insidie del percorso, dà un apprezzabile contributo agli studi d’onomastica.

Infine anche dal punto di vista tipografico-editoriale, nonostante qualche refuso, la pubblicazione ha una dignità sufficiente a rendere gradevole il volumetto, molto denso nonostante il limitato numero di pagine.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 27.V.1998]


Eugenio Dal Cin, I cognomi di Susegana, Cooperativa Sevizi Sociali, S. Lucia di Piave, 2002, pagg. 298, s. p.

I COGNOMI DI SUSEGANA

in una ricerca di Eugenio Dal Cin

Dopo quelle su Mansuè, Portobuffolè e Conegliano, ecco ora una nuova ricerca onomastica di Eugenio Dal Cin, che già ne preannuncia altre per altri comuni della Marca Trevigiana.

Eugenio Dal Cin, che da molti anni svolge un’intensa attività d’animazione culturale nel Veneto, è un appassionato cultore d’arte e di storia locale, particolarmente impegnato nella salvaguardia del patrimonio artistico, e come giornalista pubblicista ha anche fatto numerosi interventi sulla stampa periodica. Ultimamente si è dedicato agli studi d’onomastica, settore al quale è stato attratto dall’implicito fascino, in ciò rivelando vocazione e notevole passione; e anzi da qualche tempo tiene in un periodico locale un’interessante rubrica fissa dal titolo “L’angolo dei cognomi”.

In questi ultimi anni si è scoperta l’importanza dello studio dei cognomi e dei toponimi, come aspetto notevole della lingua e della storia d’ogni comunità. Al riguardo non si possono dimenticare i lavori dell’Olivieri, del De Felice (da cui discendono gli altri dizionari similari), del Rohlfs, del Pellegrini e del Finamore, che hanno preso in considerazione delle aree piuttosto vaste, se non l’intera nazione italiana. Dieci anni fa il De Felice ha tracciato un panorama dei cognomi dialettali in un fascicolo di “Tuttocittà” allegato all’elenco telefonico della provincia di Treviso; e poi ci sono stati gl’inserti del Soranzo in un quotidiano locale, come pure brevi spiegazioni di cognomi in altri periodici. Ma ora anche le piccole comunità sentono il bisogno d’avere i loro studi, approfondimenti, precisazioni e integrazioni, con repertori circoscritti a determinati comuni e sulla base degli elenchi telefonici comunali o di notizie anagrafiche.

L’autore di questa ricerca si è basato su una ricchissima bibliografia specifica, particolarmente fiorita in quest’ultimo ventennio e integrata da repertori di dati e supporti informatici. Ma ha fatto di più: ha interpellato personalmente diecine di studiosi, tessendo una fitta rete di comunicazioni e scambi. Una brillante dimostrazione di ciò è stato il convegno nazionale d’onomastica organizzato dal circolo culturale “Leonardo” di Conegliano (di cui lo stesso Dal Cin è presidente da parecchi anni) e svoltosi nel 1999 a palazzo Sarcinelli. Questa manifestazione — fra l’altro — ha dimostrato che davvero la cultura affratella: non solo “les poètes sont frères” come comunemente si dice, ma anche gli studiosi d’onomastica e d’altre discipline diventano fratelli grazie agli scambi culturali.

Per ogni cognome egli fornisce l’etimologia e una spiegazione ove possibile dettagliata, con precisi e documentati riferimenti bibliografici e a volte con cenni storico-geografici, che comprendono la toponomastica e anche la citazione di personaggi che portano o hanno portato un dato cognome, anche di aree diverse rispetto a quella studiata. Inoltre, segnando su tutti i cognomi l’accento, egli si è preoccupato di riportare certi cognomi alla giusta accentazione nei casi in cui, per moda inglesizzante o ad ogni modo nel tentativo di modernizzare e nobilitare il proprio cognome, gl’interessati hanno introdotto l’uso di ritrarre l’accento (es. Sansòn, non Sànson). Ci sono poi le attestazioni e le frequenze a Susegana e in altre località in cui il cognome sia diffuso. Così si ha un quadro delle varie provenienze, specialmente in un periodo, come l’attuale, in cui l’immigrazione è notevole e varia.

In questo lavoro Eugenio Dal Cin mostra di possedere le necessarie competenze filologiche, storiche e geografiche. Abbondanti sono i riferimenti linguistici e frequenti i rimandi. Date la diverse lingue e civiltà che hanno inciso sulla regione nel corso dei secoli, spesso fa riferimento al latino, al greco, al germanico, al francese, all’inglese, allo spagnolo, indicando anche etimologie slave, celtiche, centro-meridionali, bizantine, arabe, ecc.

La comunità di Susegana potrà specchiarsi in quest’opera e trovare in essa la sua storia, le sue usanze, certi modi di dire, soprannomi, professioni e mestieri d’una volta, scoprendo magari impensate derivazioni, connessioni, ipotesi. Infatti, a volte un cognome è nato da un nome personale, da un soprannome, da un toponimo, da un’attività lavorativa, da una caratteristica fisica o morale, ecc.

La fatica affrontata da Eugenio Dal Cin si può dire improba; e ne sa qualcosa chi in questi studi s’è già avventurato. Però non mancano le gratificazioni quando si arriva ad una scoperta e quando si può soddisfare la legittima curiosità della gente. Naturalmente in questo genere di lavori l’esito non sempre è matematicamente sicuro; però in questo studioso ci sono buoni margini di sicurezza, dato che alla base della sua ricerca c’è la profonda serietà di chi intende il sapere come conquista quotidiana grazie ad una documentazione idonea e affidabile. Ed è per ciò che questa ricerca può essere tranquillamente raccomandata non solo alla comunità di Susegana, ma anche a università, scuole, biblioteche, enti e istituzioni varie.

Carmelo Ciccia

[“Panorama d’arte e di cultura”, Susegana, apr. 2001]


Eugenio Dal Cin, Cognomi di Godega: origine e curiosità, De Bastiani, Godega di Sant’Urbano, 2002, pagg. 108, s. p.

L’importanza dello studio dei cognomi è stata riconosciuta fin dai secc. XVII-XVIII: e ciò per le implicazioni di lingua, storia, geografia, sociologia, psicologia (oltre che araldica e genealogia). Fra gli studiosi più accreditati vanno annoverati Ludovico Antonio Muratori, Dante Olivieri, Emidio De Felice, Gerhard Rohlfs, Giovan Battista Pellegrini, Egidio Finamore, Girolamo Caracausi, Salvatore Micciché, Dario Soranzo e vari altri. L’inserto “Tuttocittà” di Treviso e provincia allegato all’elenco telefonico del 1990-91 conteneva lo studio Chiamarsi in dialetto del De Felice che entrava nello specifico dell’onomastica veneta, e trevigiana in particolare.

Anche Eugenio Dal Cin s’occupa di questo settore della linguistica, soffermandosi sull’area trevigiana: nel 1997 esaminò i cognomi di Mansuè e Portobuffolè, nel 1999 quelli di Conegliano, nel 2002 quelli di Susegana e nello stesso anno è uscito il suo libro Cognomi di Godega: origine e curiosità. Prossimamente saranno in campo altri comuni: Cappella Maggiore, Moriago, Orsago, ecc. Tuttavia egli offre sempre delle novità nel metodo e negli strumenti, perché quello che fa non è solo lavoro di cultura locale, ma soprattutto di cultura senza aggettivi, dato che a lui non mancano le necessarie competenze filologiche, storiche e geografiche.

Oltre a quella delle numerose lingue di riferimento (latino, greco, germanico, francese, inglese, spagnolo; ma non mancano etimologie bizantine, slave, celtiche, centro-meridionali, arabe), va sottolineata l’importanza dell’ampia elencazione delle località di diffusione dei cognomi, come l’indicazione della frequenza e della graduatoria.

Dettagliatamente indicate sono le fonti in ogni lemma e nella bibliografia, come pure le avvertenze e le abbreviazioni, mentre il corredo fotografico arricchisce il volume.

Anche la comunità di Godega, come quelle dei precedenti libri, può essere orgogliosa di questo lavoro, che rispecchia la sua lingua, la sua storia e le sue tradizioni: è un ritornare al come eravamo, come parlavamo, come scrivevamo, che mestieri facevamo, che soprannomi avevamo, quali erano le nostre caratteristiche fisiche e morali, qual è la toponomastica della zona, a quali santi ci affidavamo.

Pur non essendo facile dare sempre risposte sicure ai quesiti onomastici, il Dal Cin però ha tutte le carte in regola del ricercatore: solide basi culturali, impegno nella ricerca e serietà di lavoro. Perciò anche questo libro va tenuto nella debita considerazione ed è raccomandabile a scuole, biblioteche e istituti culturali.

Carmelo Ciccia

[“Nuovo frontespizio”, Rimini, giu. 2003]


Eugenio Dal Cin, I toponimi nella Divina Commedia, Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2006, pagg. 134, € 10.

L’ONOMASTICA DANTESCA NEGLI STUDI D’EUGENIO DAL CIN

Eugenio Dal Cin, giornalista pubblicista e direttore d’una rivista trevigiana d’arte e cultura, da molti anni si dedica allo studio dell’onomastica, producendo saggi sui cognomi esistenti in vari comuni veneti. Ora, dopo aver esaminato i cognomi presenti nella Divina Commedia (“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2004), ha rivolto la sua attenzione ai toponimi presenti nel medesimo poema, ricavandone il corposo saggio I toponimi nella Divina Commedia (Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2006, pagg. 134, euro 10), in cui sono passati in rassegna oltre trecento toponimi.

Diciamo subito che questo saggio appare davvero originale e attuale, in quanto che non soltanto costituisce un opportuno prontuario alfabetico, molto utile a chi abbia bisogno o curiosità di sapere se e dove ricorre un determinato toponimo, ma anche perché d’ogni toponimo trattato l’autore indica la corretta accentazione, la lingua di derivazione o d’appartenenza, il significato, l’etimologia, le caratteristiche storico-geografiche; e in più accenna a questioni strettamente dantesche, così associando interesse linguistico ad interesse letterario. A tal proposito basta vedere le voci più estese e ricche di dati, come — ad esempio — Àdice, Fiorènza, Itàlia, Roma, Trinàcria.

Insomma, leggere questo prontuario significa da una parte accompagnarsi a Dante nel suo speciale viaggio, dall’altra andare alla scoperta o riscoperta — anche paesaggistica — d’oltre trecento località italiane e straniere (stati, regioni, comuni, frazioni, mari, monti, colline, fiumi, laghi), in parecchie delle quali fu presente lo stesso divino poeta, tanto che alcuni studiosi cercano nei toponimi citati nella Divina Commedia gl’indizi della presenza di Dante in certi posti e magari poi pretendono una conferma diretta sottoponendosi ad entusiasmanti o defatiganti pellegrinaggi sulle tracce di Dante.

Naturalmente un lavoro del genere presuppone un’adeguata competenza tecnico-scientifica e una vasta conoscenza in vari versanti, che qui il Dal Cin puntualmente rivela, documentata con frequenti citazioni testuali e indicazioni d’autorevoli studiosi in bibliografia, sulla base di fonti classiche, medievali e moderne, italiane e straniere. A quanto si può supporre, su questa scia, dopo l’onomastica, in seguito potrebbero essere presi in considerazione altri settori della Divina Commedia, come botanica, gastronomia, moda, ecc., anch’essi utili ad una migliore intelligenza dell’opera.

Per quanto riguarda la forma, poi, in questo lavoro l’espressione linguistica, pur con alcuni termini tecnici e le abbreviazioni d’uso spiegate in apertura, è chiara e scorrevole; e l’aspetto grafico-editoriale, pur nella sua semplicità, è presentabile e gradevole, anche sotto il punto di vista dell’impaginazione: e ciò, nonostante la piccola dimensione dei caratteri.

In definitiva, questo lavoro d’Eugenio Dal Cin, per l’abbondanza delle citazioni e indicazioni dantesche, delle spiegazioni e delle problematiche esposte, può essere ritenuto un valido sussidio all’esegesi del poema sacro, e ad ogni modo una sua integrazione; e perciò merita d’essere apprezzato e diffuso fra studiosi e biblioteche, oltre che fra i cultori e i semplici appassionati di Dante.

Carmelo Ciccia

[“Miscellanea”, San Mango Piemonte, mag.-giu. 2006]


Laura Da Re, Cuccioli vitali, Personaledit, Genova, 1995, pagg. 58, £ 10.000.

Un libro di Laura Da Re quasi ogni anno: e questo è il nono!

Questo nuovo libretto di fiabe conferma Laura Da Re quale brava narratrice per l’infanzia. L’autrice, che in passato ha pubblicato apprezzabili libri di poesie, sembra aver trovato nella favola il suo miglior modo di esprimersi, perché essa sa accostarsi a questo mondo con semplicità e umiltà: doti oggi non sempre presenti negli scrittori per l’infanzia.

La verità è che la Da Re crede ancora essa stessa alle favole, alla loro capacità di migliorare l’uomo e la società: e lo dimostra nella scelta degli argomenti, nel corredo delle illustrazioni, nel linguaggio stesso, che è — come dev’essere — quello adatto ai piccoli, anche se poi risulta adatto anche ai grandi, almeno a quei grandi che sono capaci di farsi piccoli ed entrare nella mentalità dei piccoli stessi.

Sìnite parvulos ad me venire” disse Gesù; e mai forse come oggi c’è bisogno di accogliere questo lontano ma sempre valido invito che la Da Re invece mostra benissimo di saper accogliere. D’altronde la lunga militanza della scrittrice nel romano Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile e i suoi frequenti incontri con scolaresche del Triveneto, che l’hanno vista autrice-protagonista, testimoniano la sua innata predisposi- zione ad accogliere l’invito evangelico e anzi a divulgarlo.

Niente, dunque, racconti complicati, ingarbugliati, fantascientifici, magari basati sulla violenza, sull’egoismo, sulla volgarità/banalità, sulla ricerca di falsi valori: tutte perle, insomma, che le televisioni nostrane dispensano a piene mani, incuranti dei danni prodotti a piccoli e —perché no? — grandi; ma piuttosto raccontini semplici semplici, che magari potrebbero essere tacciati d’inconstistenza e semplicismo e che tuttavia non mancano della giusta consistenza e saggezza. D’altronde, come non pretendere la semplicità nelle fiabe?

Personaggi e argomenti della Da Re sono quelli tradizionali delle favole: vegetali, animali, uomini e in particolare bambini. Le vicende sono costruite in maniera semplice, ma comunque sanno avvincere il lettore; e sono proprio la sincerità e la fede nel suo lavoro che rendono più credibile e suadente il suo modo di porgere. C’è da dire, poi, che la formazione della scrittrice, partita dalla poesia, contribuisce sensibilmente ad un miglior esito stilistico, assumendo spesso la narrazione le movenze di canzoncine o filastrocche o addirittura risolvendosi in esse.

Naturalmente non è il caso di riassumere qui gli otto racconti di questo libretto, ma l’ultimo non può passare del tutto inosservato, perché in esso c’è la supposizione d’una città ideale, anzi d’un mondo ideale: le mamme accudiscono ai loro bambini senza metterli a parcheggio di qua e di là o delegare ad altri la funzione educativa, gl’insegnanti sono buoni e pazienti, gli studenti s’impegnano con profitto, i bambini non conoscono odio e violenza, non danno valore al denaro e anzi nelle stupide guerre dei padri organizzano giochi fra di loro, senza distinzione di razze e colori. In questo racconto c’è, perciò, un girotondo di pace e di fratellanza, un invito alla multinazionalità, un rigetto del razzismo e di qualsiasi altra discriminazione.

In qualche altro racconto, poi, si esaltano i vantaggi e benefici di una natura sana, correttamente utilizzata e protetta dalle irrazionalità del consumismo e dell’inquinamento; in altri ancora sono contenuti messaggi vari. Il più importante dei quali è che bisogna ancora credere nel mondo delle favole e dell’innocenza, se si vuole che la società degl’indifferenti, dei cattivi e dei soverchiatori si riscatti. Ed è un messaggio che, specialmente in un’epoca come la nostra, non può essere sottovalutato, grazie anche al modesto ma sincero contributo di Laura Da Re.

Il libretto, che avrebbe meritato una migliore veste tipografico-editoriale, cioè l’accoglienza e stampa da parte di qualche nota casa editrice, è illustrato da disegni del piccolo Davide Benedet, figlio della stessa scrittrice: tanto per restare nell’ambito della famiglia e della semplicità.

Carmelo Ciccia

[“Sìlarus”, Battipaglia, nov.-dic. 1996]


Laura Da Re, Le donne del porto / Libro dei mesi 2004, Carello, Catanzaro, 2004.

PREFAZIONE

Laura Da Re, fine poetessa e scrittrice per l’infanzia che dedica tutta la vita alla letteratura, con questa nuova silloge di liriche dal titolo Le donne del porto / Libro dei mesi 2004 ci accompagna per un intero anno, presentandoci di mese in mese non tanto le caratteristiche meteorologiche che siamo abituati a vedere in certi calendari, quanto aspetti e stati d’animo risultanti dall’evolversi della sua stessa personalità. Quello che ci porge, dunque, è il suo mondo interiore, forgiato alla scuola d’una non sempre facile esperienza esistenziale ed intriso di sensibilità umana e artistica.

Spesso le sue composizioni assumono le connotazioni di delicati quadretti, quasi acquerelli sfumanti come le pieghe della sua anima, dove la poetessa si sofferma a trasfondere non solo paesaggi e scene di vita quotidiana, ma anche gioie e illusioni, certezze e speranze, interrogativi e dubbi. E se al mare, specialmente d’estate, ci si bea di sole, caldo, amori e sogni, cui fa da contrappunto il gradito mormorio del moto ondoso, contemporaneamente non s’ignora la dura vita dei pescatori e delle loro famiglie, le cui donne (appunto “le donne del porto”) nell’attendere in piedi i loro uomini sulle rive trepidano, sperano e pregano come le protagoniste dei verghiani Malavoglia e come le donne dei marittimi di tutto il mondo. Perciò barche, reti e pesci non possono essere oggetto solo di fugaci o divertiti sguardi.

La poetessa coglie scene e sentimenti e li fissa con semplicità, come quando va al mercato o a passeggiata e scopre sprazzi di cielo azzurro e di terra verde e fiorita: il tutto come segno della bontà e grandezza di Dio, che così rivela il suo prodigio. Ma l’impressione principale che si ricava dalla lettura di queste composizioni è la serenità, un senso di rilassamento favorito dalla tecnica poetica generalmente basata sulla brevità e la musicalità: tutti ingredienti che accompagnano il lettore fino all’ultima pagina. È vero che sfogliando le pagine s’intravedono pene e difficoltà varie; ma queste sono espresse in modo sommesso, perché superate dal senso di fiducioso abbandono a Dio e alla sorte.

Ed è per le cose limpide che Laura Da Re mostra simpatia, arrivando ad implorare la benedizione per gli umili: “Nemmeno gli studiosi più profondi / avvertono l’esatta dimensione / dell’emisfero / oltremodo vulcanico, / ma generoso e concreto, / delle creature infaticabili”.

Infine non vanno sottovalutate le doti di correttezza e scorrevolezza che rendono apprezzabile la silloge.

Carmelo Ciccia

[Laura Da Re, Le donne del porto / Libro dei mesi 2004, Carello, Catanzaro, 2004]


Laura Da Re, Le donne del porto (liriche), Sacco, Roma, 2006, pagg. 74, euro 12.

PREFAZIONE

Fedeltà alla poesia: così può definirsi il diuturno impegno di Laura Da Re, fine poetessa e scrittrice per l’infanzia che — convinta com’è dell’utilità che la poesia arreca a tutto il mondo, migliorandolo, ed in particolare agli autori stessi, ancorché poeti di strada o di periferia, come lei stessa ama definirsi — dedica tutta la sua vita a tale arte. Per lei il poeta ha una funzione-missione da svolgere dappertutto e la poesia è fruibile nelle situazioni più disparate o più impensabili, come in quei carnai umani che ora sono divenute le spiagge d’estate o nei vicoli movimentati, quando “il verso poetico / appena percepito / resta a disposizione / del passante sul bagnasciuga / o sulle suggestive calli”.

In questo volumetto la Da Re ripropone con modifiche la silloge di liriche già edita col titolo Le donne del porto / Libro dei mesi 2004, con la quale ci ha accompagnato per un intero anno, presentandoci di mese in mese non tanto le caratteristiche meteorologiche che siamo abituati a vedere in certi calendari, quanto aspetti e stati d’animo risultanti dall’evolversi della sua stessa personalità. Ma, oltre alle vecchie liriche, ne aggiunge di nuove, in realtà dando una nuova configurazione alla precedente silloge.

Dunque, quello che la poetessa ci porge ancora in questo volumetto è il suo mondo interiore, forgiato alla scuola d’una non sempre facile esperienza esistenziale ed intriso di sensibilità umana e artistica. È vero che ella sa pure osservare e descrivere tutto ciò che la circonda, ma è anche vero che è l’intimo il soggetto da lei preferito, specialmente quando esso si articola in una molteplicità di sfaccettature.

Spesso le sue composizioni assumono le connotazioni di delicati quadretti, quasi acquerelli sfumanti come le pieghe della sua anima, dove la poetessa si sofferma a trasfondere non solo paesaggi e scene di vita quotidiana, ma anche gioie e illusioni, certezze e speranze, interrogativi e dubbi. E se al mare, specialmente d’estate, ci si bea di sole, caldo, amori e sogni, cui fa da contrappunto il gradito mormorio del moto ondoso, contemporaneamente non s’ignora la dura vita dei pescatori e delle loro famiglie, le cui donne (appunto “le donne del porto”) nell’attendere in piedi i loro uomini sulle rive trepidano, sperano e pregano come le protagoniste dei verghiani Malavoglia e come le donne dei marittimi di tutto il mondo. Perciò barche, reti e pesci non possono essere oggetto solo di fugaci o divertiti sguardi.

La poetessa coglie scene e sentimenti e li fissa con semplicità, come quando va al mercato o a passeggiata e scopre sprazzi di cielo azzurro e di terra verde e fiorita: il tutto come segno della bontà e grandezza di Dio, che così rivela il suo prodigio. Ma l’impressione principale che si ricava dalla lettura di queste composizioni è la serenità, un senso di rilassamento favorito dalla tecnica poetica generalmente basata sulla brevità e la musicalità: tutti ingredienti che accompagnano il lettore fino all’ultima pagina. È vero che sfogliando le pagine s’intravedono pene e difficoltà varie; ma queste sono espresse in modo sommesso, perché superate dal senso di fiducioso abbandono a Dio e alla sorte.

Ed è per le cose limpide che Laura Da Re mostra simpatia, arrivando ad implorare la benedizione per gli umili: “Gli studiosi più profondi / non avvertono l’esatta dimensione / dell’emisfero / oltremodo vulcanico, / generoso e concreto, / delle creature infaticabili”. Così il suo lavoro viene a configurarsi, direttamente o indirettamente, non solo come un esercizio di tecnica poetica, ma anche come una proposta di valori nei quali lei stessa per prima crede.

Nel presente volumetto intitolato Le donne del porto si nota che la poetessa con il passar degli anni, le letture, le frequentazioni e le esperienze varie, ha maturato la sua tecnica, che a volte appare complessa. Sebbene abbia cominciato a scrivere da autodidatta, ora Laura Da Re dimostra d’essersi fatta le ossa; e accanto alle liriche di facile comprensione ne presenta altre in cui sembra voler coinvolgere il lettore nell’interpretazione dei suoi testi: sono quelle in cui si compiace d’una espressione particolarmente elaborata e a volte impenetrabile che richiede la partecipazione attiva del lettore stesso e che quindi sa d’ermetismo. Il lettore a volte si chiede che cosa possa significare una parola, un verso, una strofa o l’intera lirica; e la risposta potrebb’essere “mistero”: cioè — per dirla col Fogazzaro “il mistero del poeta”. È il caso dei sensi umani, che in occasione di particolari sensazioni, dai normali cinque che sono, possono divenire anche sette, superando perfino il proverbiale sesto senso: “di tenerezze impreviste, / esauste e gratificanti / fino all’abbondanza, / all’abbandono totale / dei sensi / tutti e sette”. Tuttavia in questi casi l’affidamento agli altri del compito di scelta e decisione del significato più confacente può avere i suoi effetti positivi, in quanto che gli altri possono definire e completare ciò che la poetessa ha appena abbozzato coi suoi spunti.

Infine non vanno sottovalutate le doti di correttezza e — tutto sommato — di scorrevolezza che rendono apprezzabile il volumetto, alla riuscita del quale concorrono anche le interessanti illustrazioni dei noti artisti Vico Calabrò, Gabriella Lorenzet, Paola Palmano e Gelsomina Vecchiato.

Conegliano, Luglio 2005.

Carmelo Ciccia

[Laura Da Re, Le donne del porto (liriche), Sacco, Roma, 2006, pagg. 74, euro 12]


LAURA DA RE, Poeti e bambini, Problemi contemporanei, Conegliano, 2000, pagg. 55.

La raccolta di poesie di Laura Da Re Poeti e bambini rivela fin dal titolo il versante a cui principalmente si rivolge: quello dell’infanzia, a cui peraltro l’autrice è stata molto vicina per avere pubblicato libri di racconti e fiabe, per avere aderito in anni lontani al Gruppo di Servizio per la letteratura giovanile e per avere svolto incontri didattici con scolaresche di varie località. Perciò il libretto si caratterizza per la semplicità, la chiarezza e la correttezza anche linguistica.

Tuttavia Poeti e bambini può andar bene per tutti: le composizioni, in cui domina un aspetto epigrammatico, si leggono volentieri per l’assenza di grandi problematiche e per le lineari costruzioni; anzi spesso hanno note d’ottimismo: “La giocondità / è il destarsi / su un letto / profumatamente / erboso”. Si nota che la gioia dell’autrice non è mai esplosiva, ma ha sempre qualcosa di moderato, quasi di pudico, del resto come i momenti di malinconia occhieggianti qua e là.

L’autrice (1949-2015), in molti anni di attività poetica confortata da numerosi riconoscimenti, è riuscita a fissare una propria tecnica e un proprio stile: concetti semplici, parole al giusto posto, versi ben tagliati e distanziati.

La semplicità non necessariamente vuol dire semplicismo e sciattezza: con la sua semplice espressione la Da Re in questo libretto a volte esprime pensieri profondi, teneri sentimenti, attente osservazioni della realtà esterna e di quella interna sua personale. E allora si scopre che lei è capace di saldi affetti familiari e amicali, per i quali talora palpita con giuste ansietà, come pure palpita per le sorti dell’essere umano e del mondo, cercando in ciò comprensione e solidarietà.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2019]


Romana De Carli Szabados, Miti imperiali / Rose rosse per Sissi, Edizioni Goliardiche, Trieste, 1998. (1)

Miti d’Austria in un libro di Romana De Carli

Il libro Miti imperiali / Rose rosse per Sissi (Edizioni Goliardiche, Trieste) è il sesto di Romana De Carli Szabados, esule istriana, che tratta della dinastia d’Asburgo. I precedenti riguardavano Rodolfo, Francesco Giuseppe, Carlo, Vienna imperiale e Massimiliano. Con quest’opera l’autrice si conferma come una delle più esperte conoscitrici della vita, dei costumi e delle vicende degli Asburgo, nonché di tutto quel mondo leggendario che li attorniava nello splendore della corte di quella che è stata definita “felix Austria”, fra regge, castelli, battute di caccia, valzer di Strauss e marce di Radetzky.

Eppure questi personaggi furono contristati in continuazione da disgrazie e lutti familiari, suicidi, malattie, tare ereditarie, rivoluzioni e guerre.

Con fine indagine psicologica, l’autrice ha saputo cogliere — nelle aspirazioni, frustrazioni, ansietà e depressioni dei protagonisti — i motivi della progressiva dissoluzione della dinastia e dell’impero-regno. Emblema ne è la mitica Elisabetta, comunemente detta Sissi o meglio Sisi (si pensi ai numerosi romanzi, film e sceneggiati su di lei), amata o ammirata perfino dai nemici e alla quale si deve non solo il compromesso del Dualismo ma soprattutto quel fascino che in qualche modo, anche per la sua violenta ed immeritata morte, attenua il severo giudizio degl’italiani sul regime asburgico. Ed è nel centenario dell’assassinio di Sissi che la De Carli Szabados propone questa rievocazione, la quale tocca anche casi come quelli di Massimiliano, Rodolfo e Francesco Ferdinando ed è corredata di molte fotografie e d’un abbondante epistolario.

Perciò il libro si legge con vivo interesse, nell’ottica di fratellanza e pace per l’Europa dei popoli.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 15.II.2000]


Romana De Carli Szabados, Miti imperiali / Rose rosse per Sissi, Edizioni Goliardiche, Trieste, 1998. (2)

Miti d’Austria in un libro di Romana De Carli

Il recente libro Miti imperiali / Rose rosse per Sissi (Edizioni Goliardiche, Trieste) è il sesto di Romana De Carli Szabados, esule di Pola a Venezia, che tratta della dinastia d’Asburgo. I precedenti riguardavano Rodolfo, Francesco Giuseppe, Carlo, Vienna imperiale e Massimiliano. Con quest’opera l’autrice si conferma come una delle più esperte conoscitrici della vita, dei costumi e delle vicende degli Asburgo, nonché di tutto quel mondo leggendario che li attorniava nello splendore della corte di quella che è stata definita “felix Austria”, fra regge, castelli, battute di caccia, valzer di Strauss e marce di Radetzky. Eppure questi personaggi furono contristati in continuazione da disgrazie e lutti familiari, suicidi, malattie, tare ereditarie, rivoluzioni e guerre. A questi libri l’autrice certamente ne farà seguire altri nello stesso filone, in cui ormai si è specializzata.

Con fine indagine psicologica, la De Carli Szabados ha saputo cogliere — nelle aspirazioni, frustrazioni, ansietà e depressioni dei protagonisti — i motivi della progressiva dissoluzione della dinastia e dell’impero-regno. Emblema ne è la mitica Elisabetta, comunemente detta Sissi o meglio Sisi (si pensi ai numerosi romanzi, film e sceneggiati su di lei), amata o ammirata perfino dai nemici e alla quale si deve non solo il compromesso del Dualismo Austria-Ungheria, ma soprattutto quel fascino che, anche per la sua violenta ed immeritata morte, attenua in qualche modo il severo giudizio degl’italiani sul regime asburgico. Ed è nel centenario dell’assassinio di Sissi che la De Carli Szabados ha proposto questa rievocazione, la quale tocca anche casi come quelli di Massimiliano, Rodolfo e Francesco Ferdinando ed è corredata di molte fotografie e d’un abbondante epistolario, che tuttavia per maggior chiarezza avrebbe dovuto essere meglio organizzato tipograficamente.

Nel libro, più che alberi genealogici, cronologie ed analisi storiche di regni e regnanti, ci sono analisi d’uomini e donne: le inavvicinabili maestà e personalità varie sono viste come comuni mortali, nei loro sentimenti e drammi intimi. In particolare Sissi, anche grazie al suo diario poetico, viene presentata nella sua prorompente femminilità, ribelle e anticonformista, desiderosa soltanto del bene suo personale e della sua famiglia, nonché di quello dei suoi popoli, per i quali — come pure il disgraziato Rodolfo — sembra che sia arrivata ad auspicare segretamente l’indipendenza, biasimando la sequela d’impiccagioni e fucilazioni di triste memoria.

Perciò il libro si legge con vivo interesse, nell’ottica di fratellanza e pace per l’Europa dei popoli.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, marzo 2000]


GLI STUDI DI ROMANA DE CARLI SZABADOS SUGLI ASBURGO E L’AUSTRIA IMPERIALE

Romana De Carli Szabados è una germanista che ha dedicato la sua vita allo studio degli Asburgo e dell’Austria imperiale. Esule da Pola, ma d’origini ungheresi, vive a Venezia, sua città d’adozione, dove si è laureata e sposata. Senza dubbio è una ragguardevole esponente della Mitteleuropa, di cui esprime con convinzione valori ed aspirazioni. Si è occupata anche d’etnie, propugnando il plurilinguismo e la pacifica convivenza dei popoli.

Basterebbero soltanto i titoli e sottotitoli dei suoi libri per far capire come questa scrittrice ha saputo costruire un’affascinante saga delle vicende degli Asburgo:

• “1889-1989 Cento anni da Mayerling: il dramma che travolse un impero” (ediz. Lint, Trieste, 1989);

• “Kaiser Franz Ioseph I: epistolario imperiale” (ediz. Lint, Trieste, 1991);

• “Carlo I d’Absburgo imperatore d’Austria: e re d’Ungheria: finis Austriae” (ediz. Lint, Trieste, 1992);

• “Vienna imperialis; mal d’Austria” (ediz. Tempe, Noventa Vicentina, 1995);

• “Miramar addio: Massimiliano d’Absburgo arciduca a Vienna, ammiraglio a Trieste, imperatore in Messico” (ediz. Goliardiche, Trieste, 1997);

• “Etnie a confronto: il mosaico Europa” (ediz. Graphic House, Venezia-Mestre, 1997);

• “Miti imperiali: Rose rosse per Sissi” (ediz. Goliardiche, Trieste, 1998);

• “C’era una volta in Austria: Vienna illuminata...” (ediz. Goliardiche, Trieste, 1999);

• “Il mito dell’Austria felix e gli Strauss” (in preparazione).

Da questi libri emerge chiaramente che la De Carli Szabados è una delle più esperte conoscitrici della vita, dei costumi e delle vicende degli Asburgo e di quel fantasmagorico mondo che rutilava intorno a loro. Essa possiede insieme le qualità della storiografa, della biografa e della romanziera. Sicuramente è innamorata del mondo asburgico e vuole trasmettere questo suo amore ai lettori, suscitando in loro lo stesso entusiasmo che lei prova. L’autrice non solo ha scavato in biblioteche ed archivi, portando alla luce, interpretando e commentando documenti a volte originali, ma soprattutto ha scavato nella psicologia dei personaggi, cogliendoli sempre nella loro umanità e quotidianità. Ed è questo il segreto della sua scrittura: aver trasformato dei superuomini in semplici uomini e delle superdonne in semplici donne, abbassandoli al livello dei comuni mortali e perciò rendendoli più simpatici perché più vicini, più vivi e più veri.

Qui si dovrebbero fare dei nomi: Maria Teresa, Francesco Giuseppe, Elisabetta (detta Sisi o Sissi), Carlo I, Massimiliano e Rodolfo sono nomi con i quali l’autrice ha grande dimestichezza, ma che possono parlare da soli. Più che nelle vesti e imprese militari, politiche e diplomatiche, questi personaggi sono visti e descritti nei loro sentimenti, nelle loro passioni, nelle loro debolezze, nelle loro delusioni. È vero che sono circondati da ministri, generali, dame e intellettuali e sono inquadrati in fiabeschi ambienti di regge, saloni, parchi, giardini, castelli e battute di caccia, allietati da feste e balli, valzer di Strauss e marce di Radetzky: però si consumano tutti per incomprensioni, malattie, suicidi e altre disgrazie, oltre che per guerre e rivoluzioni. E insieme a loro si consuma e finisce un impero, un sogno, una favola...

Simbolo di questo mondo è la mitica Sissi, amata o ammirata perfino dai nemici e alla quale si deve non solo il compromesso del Dualismo Austria-Ungheria, ma soprattutto quel fascino personale che, anche per la violenta ed immeritata morte di lei, attenua in qualche modo il severo giudizio degl’italiani sul regime asburgico. Questa sfortunata imperatrice, che scriveva anche poesie, sembra essere arrivata ad auspicare segretamente l’indipendenza dei popoli sottomessi.

Tuttavia la favola continua a vivere nel ricordo — e si direbbe nel culto — di molte persone: a Trieste, odierna capitale della Mitteleuropa, nonostante che questa città si sia sentita sempre italiana e per l’Italia abbia scritto luminose pagine di patriottismo, quasi per ricordare ai distratti che essa stessa ha fatto parte del fasto asburgico, è stato eretto nella piazza della stazione ferroviaria — porta della città — un grandioso monumento proprio alla mitica Sissi.

Chi legge i libri della De Carli Szabados, che sono corredati di numerose fotografie, nonché d’epistolari, cronologie e alberi genealogici, viene immesso in un mondo fiabesco, ne percepisce gli umori, ne comprende lo splendore e la decadenza, ne vive le vicende fino ad esserne scosso nelle fibre più intime: tali sono il pathos infuso dall’autrice e la sua capacità di coinvolgere i lettori. Si capisce così il successo della vasta pubblicistica in merito e delle numerose pellicole cinematografiche girate e spesso proiettate: perché in realtà il trinomio Austria-Vienna-Asburgo è come una favola. E pure la smaliziata società odierna ha bisogno di favole, se non vuole scivolare nell’abbrutimento.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.IV.2001]


Romana De Carli Szabados, Strauss - il mito, Alcione, Fossò, 2001.

IL MITO DELL’AUSTRIA FELIX

Romana De Carli Szabados, esule polana a Venezia e specialista in lingua e civiltà germanica, sembra aver votato la sua vita al mito degli Asburgo, sui quali ha scritto una serie d’opere in cui la parte fantastica è strettamente connessa al rigore storico. L’autrice ha portato alla ribalta — si può dire — tutti i personaggi di quella casa imperiale, con particolare attenzione alla mitica Sissi e al marito Francesco Giuseppe, cogliendo di volta in volta più che altro gli aspetti psicologici delle loro vicende intime e umane.

In quest’opera essa traccia un articolato profilo della dinastia degli Strauss, correlandone la storia a quella della casa imperiale e dello stesso impero asburgico, che poi in sostanza era l’Europa. Ed è proprio sulle note di famosissimi valzer come “Danublio blu”, suonate e ballate in agili volute negli splendidi saloni e giardini delle regge, che si alimentavano speranze, si decidevano destini, si consumavano esistenze. Facendo la biografia degli Strauss, ovviamente l’autrice fa tutto un quadro della situazione storica, tracciando i profili anche di numerosi personaggi di contorno che caratterizzavano la Vienna di quel tempo: musicisti, artisti, letterati e pensatori.

In questo lavoro la De Carli Szabados dimostra di avere una profonda conoscenza non solo di fatti e ambienti storici, ma anche dell’animo umano, che lei sa scandagliare. I personaggi ne escono come ravvivati e sembrano avere ancora qualcosa da dire e da fare. Prefazioni e introduzioni, preziosi ritratti d’epoca e altre illustrazioni, alberi genealogici e schemi rendono più interessante il volume, che è come un quadro fiabesco e che si fa leggere anche per la chiarezza espositiva e la passione che l’autrice vi ha immesso.

Carmelo Ciccia

[“La nuova Voce Giuliana”, Trieste, 1.II.2002]


Romana De Carli Szabados, Destini Imperiali / Aiglon figlio di Napoleone, Edizioni Goliardiche, Bagnaria Arsa, 2003, pagg. 232, euro 19.

Romana De Carli Szabados, che ha dedicato la sua vita di studiosa alla dinastia asburgica pubblicando al riguardo una lunga serie di monografie, è tornata ancora in libreria, e questa volta con una monografia sul figlio di Napoleone. Il riferimento ad un francese farebbe pensare ad una deviazione della studiosa, se non si tenesse presente che Napoleone II, detto in italiano Re di Roma e in francese Aiglon, cioè Aquilotto, figlio sì di Napoleone il Grande ma anche della sua seconda moglie Maria Luisa d’Austria, dopo il declino del padre fu di fatto “austriacizzato” col fantomatico titolo di duca di Reichstadt e visse alla mercè della corte di Vienna, o meglio del cancelliere Metternich, fra reggia ed esilio, fino alla precocissima morte per tisi.

Fra l’altro in questo libro è fatta anche l’ipotesi che questo giovanotto possa essere stato il padre naturale di Massimiliano d’Austria (fratello minore dell’imperatore Francesco Giuseppe), cioè dell’infelice imperatore del Messico finito sotto le pallottole messicane; e perciò una lunga digressione è riservata proprio a Massimiliano, al quale peraltro l’autrice aveva dedicato un’altra monografia e capitoli d’altre monografie, visto che l’ombra di lui aleggia ancora sul golfo di Trieste ed in particolare sul castello di Miramare.

Come nelle altre opere della De Carli Szabados, anche in questa c’è tutto un fluttuare di vita di corte: l’autrice presenta non soltanto le note vicende storiche, ma anche le meno note vicende intime, considerando i personaggi anzitutto come semplici uomini e donne, di cui scandaglia la quotidianità con fine indagine psicologica. Perciò un libro del genere, oltre che come saggio, si configura anche come romanzo: alla precisione dei dati storico-biografici, che rivelano la serietà e l’impegno della ricercatrice, s’associa un’affabulazione che in qualche caso si sublima in poesia e avvince il lettore fino alle ultime pagine, grazie anche al brio e all’ironia, nonché alla brevità dei capitoli e ai loro titoli allettanti.

Dal punto di vista strettamente formale, l’andamento della narrazione è colloquiale: per la foga narrativa, che rispecchia il carattere dell’autrice, a volte il periodare è fatto di frasi nominali e appare conciso e imperfetto nella punteggiatura e nella sintassi; inoltre, se nei dialoghi e nelle frequenti citazioni di lettere o di loro brani si fossero sempre (e non soltanto qualche volta) usate virgolette, lineette o un carattere tipografico diverso dal contesto, l’opera sarebbe risultata più fruibile; ma tutto ciò non toglie che nel complesso essa riesca interessante, anche per l’originale impostazione e le personali valutazioni.

C’è da dire poi che ben sette studiosi (fra prefazione, presentazione, introduzione, intermezzo, due postfazioni e appendice) fanno da mallevadori al libro stesso; e che questo, in elegante e moderna veste editoriale, è anche impreziosito da numerose illustrazioni d’epoca, che lo trasformano quasi in un album fotografico.

In conclusione, anche questa nuova opera della De Carli Szabados non è da perdere: contiene un’altra favola, capace di rinnovare le simpatie nei confronti del mondo asburgico, già di per sé fiabesco, e degna di trasformarsi in affascinante pellicola cinematografica.

Carmelo Ciccia

[“Nuovo frontespizio”, Rimini, dic. 2004)

Romana De Carli Szabados, La pace impossibile di Carlo I d’Absburgo, Ediz. Goliardiche, Trieste, 2005.

L’IMPERATORE CARLO I D’ASBURGO IN UNO STUDIO DI ROMANA DE CARLI SZABADOS

Nel 1992 Romana De Carli Szabados — esule di Pola a Venezia, nonché germanista e studiosa del mondo austro-ungarico, della cui casa imperial-regia ha tracciato la saga in un cospicuo numero di libri — pubblicò il libro Carlo I d’Absburgo (Lint, Trieste), il quale delineava il profilo di quest’imperatore che rimase in carica appena due anni e che fu travolto dalla conclusione della seconda guerra mondiale. Ora, dodici anni dopo, è uscito il suo libro La pace impossibile di Carlo I d’Absburgo (Ediz. Goliardiche, Trieste), che ha ripreso e aggiornato quel testo in vista della beatificazione del personaggio, avvenuta in Vaticano nello stesso anno 2004.

Il nuovo libro s’appoggia a ben tre scritti di Nerio De Carlo (prefazione, postfazione, diario di guerra), una presentazione di Franco Fornasaro, un’introduzione di Renzo Del Medico e un’appendice di Graziella Sermacchi Gliubich. Esso non è una riproposizione sic et simpliciter del precedente libro, ma — anche se il nerbo è costituito dal lavoro pregresso — è arricchito di nuovi capitoli, fotografie e altre illustrazioni.

Già nel precedente libro si era configurata la personalità del personaggio, oscillante fra l’autorità e l’ascetismo; ma ora, in vista dell’evento religioso, è stato approfondito quest’ultimo aspetto, in modo che ne emergesse il ritratto autentico del beato. In particolare la storiografa ha messo in evidenza gli atti di clemenza di Carlo I nei confronti dei dissidenti politici e i suoi vari tentativi di sospendere la guerra ed arrivare alla pace, quella pace che per motivi estranei alla volontà del sovrano si rivelò impossibile.

Nel libro vi sono pagine d’intensa religiosità: ad esempio, la descrizione della festa del Corpus Domini, la quale nella sua pompa magna era non solo una festa religiosa ma anche la festa della dinastia asburgica, e la pia morte dell’ex sovrano nell’esilio dell’isola di Madera, degna d’essere indicata ai credenti come forma d’edificazione. Ma tutto il libro riveste particolare interesse, anche perché addita la forza d’animo della giovane vedova Zita e la pesante eredità dell’orfano Ottone, che tuttora, nella vita privata ed in quella politica quale deputato europeo, tiene alto il prestigio d’un casato di per sé prestigioso.

Insomma, anche questo è un lavoro che certamente attirerà l’attenzione degli studiosi e degli ammiratori d’un regime che conobbe alterne vicende d’ascesa e declino, esaltazione ed esecrazione, vita favolosa ed umiliante esilio.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, lug.-dic. 2005]


Romana De Carli Szabados, Kaiser Franz Joseph I / Epistolario Imperiale, MGS Press, Trieste, 2006, pagg. 225, 18.

Chi legge i titoli della collana “Asburgo” della casa editrice MGS Press di Trieste resta colpito dalla quantità di monografie pubblicate sull’argomento, senza calcolare quelle edite da altre case: segno d’un interesse ovviamente sempre vivo in una zona che fu per ben mezzo millennio soggetta a quella dinastia, di cui l’imponente castello di Miramare è una delle ultime solenni testimonianze. E della sua dominazione alcuni cittadini italiani tuttora manifestano nostalgia, arrivando perfino a festeggiare annualmente il genetliaco di Francesco Giuseppe, nonostante che, per la durezza del regime austriaco durante il nostro Risorgimento, al doppio nome di questo sovrano la maggioranza del popolo italiano solitamente associa il ricordo di carcerazioni allo Spielberg, impiccagioni e fucilazioni. Tuttavia la funzione degli storici è quella di raccontare “sine ira et studio” (Tacito, Annales, I 1) i fatti che nel bene e nel male hanno condizionato la collettività.

Romana De Carli Szabados, autrice ora inclusa nella suddetta collana, ha dedicato la sua vita al mito degli Asburgo, peraltro già esaltato in celebri trasposizioni cinematografiche e televisive; e nella sua lunga attività scrittoria ha prodotto una serie di libri in cui ha analizzato con fine introspezione e sentita compartecipazione le vicende dei protagonisti, da lei osservati principalmente come persone comuni che nell’intimità pur esse amano-odiano, godono-soffrono, sperano-disperano.

Nel recente libro Kaiser Franz Joseph I / Epistolario Imperiale la De Carli Szabados, esule di Pola a Venezia e appassionata germanista, avendo avuto accesso a carte segrete, in occasione del 90° anniversario della morte di quell’imperatore-re ha pubblicato le lettere che scandirono la vita d’un uomo e d’un impero-regno. Però, più che sugli avvenimenti militari, bellici e diplomatici, che sono accennati di sfuggita, la sua attenzione si è concentrata su episodi familiari e particolarmente coniugali, da cui si delinea il difficile rapporto fra il marito e la moglie, cioè fra lui e la mitica Elisabetta, vezzosamente detta Sisi in austriaco e Sissi in italiano.

Il libro è ripartito in tempi denominati con espressioni del linguaggio musicale, dato che la musica — ed in particolare quella degli Strauss — costituì la colonna sonora della vita e demma storia di questa dinastia: maestoso per l’imperatore-re, sinfonia per l’imperatrice-regina, appassionata per l’idillio coniugale, valzer lento per il carteggio, notturno per la decadenza e fine dell’impero.

Dal carteggio e da tutto il libro scaturisce il ritratto d’un uomo che, al di là dell’austerità iconografica di prammatica e dell’ipocoristico nomignolo di Cecco Beppe spregiativamente affibbiato dai soldati italiani, nutriva grandi sentimenti, fatti d’un radicato senso del dovere e di premure nei confronti dei sudditi e dei familiari, in particolare della moglie, a cui scriveva lettere piene d’affetto, di tenerezza e d’apprensione: basti leggere l’ultima missiva a lei indirizzata proprio nel giorno dell’attentato di Ginevra e che mai poté essere letta dalla destinataria.

Sissi certamente non meritava quella morte assurda, anche perché lei aveva compreso le aspirazioni indipendentistiche dei suoi popoli, aveva propiziato il ripristino del regno d’Ungheria e caldeggiava una soluzione autonomistica, se non indipendentistica, pure per il Lombardo-Veneto. É evidente che il suo distacco dal marito è dovuto anche al rigore asburgico, oltre che ai numerosi impegni d’un sovrano così gravato di responsabilità. E quale fosse l’atteggiamento del Lombardo-Veneto nei confronti di quel regime appare da due significativi episodi: nella visita dei due sovrani a Milano la nobiltà di quella città non si presentò al ricevimento ufficiale, mandando in sua vece la propria servitù, e in quella di Venezia la popolazione sbarrò le porte e finestre dei palazzi del Canal Grande in segno di lutto al passaggio del corteo, tanto che la stessa Sissi intese questo gesto come una protesta contro le condanne a morte. Perciò anche per suo suggerimento nel 1866 Francesco Giuseppe voleva cedere all’Italia il Veneto e Mantova, prima che la nostra nazione intraprendesse la 3^ guerra d’indipendenza, nella quale poi essa ebbe due clamorose sconfitte, per terra a Custoza e per mare a Lissa, vanificando così l’avanzata di Garibaldi verso Trento (il quale dopo la vittoria di Bezzecca telegrafò a Vittorio Emanuele II il suo famoso “Obbedisco”) e dovendo alla fine accontentarsi d’ottenere con una “girata” dall’intermediario Napoleone III il territorio conteso.

Erano tempi di frequenti guerre, battaglie e attentati a sovrani, con lutti e danni incalcolabili. In una lettera di quest’epistolario il protagonista accenna ai 17.000 caduti austriaci di Solferino; ma lui — come ogni altro regnante, governante e generale di quei tempi — è lontano dal concepire che la sovranità appartiene ai singoli popoli, a cui va riconosciuto il diritto d’autodeterminazione, di decidere con chi stare e quindi di fissare i propri confini. E qui bisogna ricordare che l’immediata liberazione delle terre irredente era reclamata da un vastissimo movimento popolare, comprendente anche elementi di spicco dell’intellettualità: ad esempio, per perorare la liberazione del Veneto lo scrittore siciliano Giovanni Verga nel 1863 pubblicò l’appassionato romanzo patriottico Sulle lagune, ambientato fra Venezia e Oderzo.

Riguardo alla morte di Sissi si può aggiungere che anche il poeta romagnolo Giovanni Pascoli, il quale da giovane aveva nutrito idee socialiste e anarchiche, applaudendo al primo attentato contro Umberto I nel 1879 (e per questo subì la perdita del posto e il carcere, ma poi per l’attentato che portò alla morte del re nel 1900 scrisse un nobile compianto), nell’ode intitolata “Nel carcere di Ginevra” attribuì alla potenza del Male il folle gesto dell’anarchico Lucheni (o Luccheni); e, mentre inorridito compiangeva la defunta, definendola sorella (“con l’arma che gocciò vermiglia / passasti il cuore d’una tua sorella!”), si rivolse all’attentatore ricordandogli che “l’odio è stolto” e che in ogni caso l’uomo deve pietà a tutti, “persino ai re; persino a te, Lucheni”. E giustamente nell’italianissima Trieste è stato riedificato il grandioso monumento in onore di questa imperatrice-regina, idealista e anticonformista ma sfortunata, la quale ha pagato con la vita colpe non sue ed è rimasta nel cuore di tutti per le sue grazie, le sue disgrazie e le sue delicate poesie.

Perciò non ci resta che complimentarci con la studiosa Romana De Carli Szabados, la quale con questo lavoro non soltanto riporta alla ribalta una lunga vicenda storica e umana, mettendo in luce ancora una volta la personalità di Sissi attraverso quella di Francesco Giuseppe, ma dà ai lettori la possibilità di fare varie e opportune riflessioni.

Carmelo Ciccia

[“Il Cristallo”, Bolzano, mag. 2007]


Romana De Carli Szabados, Finis Austriæ / La santità dell’ultimo imperatore, Fede & Cultura, Verona, 2011, pp. 181, € 18.

“Finis Austriæ/ La santità dell’ultimo imperatore” di De Carli Szabados

La pace impossibile e Il tormento di Carlo I d’Asburgo nel volere uscire dalla guerra

La germanista Romana De Carli Szabados, già docente e preside, animatrice culturale, esule da Pola e residente in successione a Trieste, Venezia e Verona, s’è specializzata nella storia dell’Austria-Ungheria e della dinastia asburgica, di cui conosce tutti i risvolti pubblici e privati, anche minimi; e al riguardo ha pubblicato parecchi libri, che hanno avuto grande accoglienza da parte dei lettori. Fra essi ce ne sono ben tre relativi all’ultimo imperatore Carlo I: il primo, Carlo I d’Absburgo, uscì nel 1992; il secondo, La pace impossibile di Carlo I d’Absburgo, nel 2002, in vista della beatificazione dell’imperatore; il terzo, Finis Austriæ / La santità dell’ultimo imperatore, ora pubblicato, sottolinea l’aspetto ascetico dell’imperatore stesso, soffermandosi anche sulla figura del papa Giovanni Paolo II, che lo beatificò nel 2004 (Fede & Cultura, Verona, 2011, pp. 181, euro 18) e cercava continuamente la pace, intesa come cessazione concordata delle ostilità; e, dopo il crollo dell’Austria-Ungheria, lo segue nelle varie tappe dell’esilio, fino a quella finale nell’isola portoghese di Madera, in cui egli morì nel 1922, venendo sepolto nella monumentale chiesa di Nostra Signora del Monte, dove tuttora è rimasto isolato, sebbene quasi tutti gli altri membri della dinastia siano sepolti nella cripta dei Cappuccini di Vienna. Ovviamente col calvario di lui lei segue anche le traversie dei familiari, ed in particolare dell’imperatrice Zita e del principe ereditario Ottone, poi difensore dell’europeismo del padre e morto quasi centenario nel 2011; e con commosso rimpianto partecipa alle pene dei protagonisti, accennando anche agli altri lutti della dinastia (fucilazione in Messico dell’imperatore Massimiliano, su cui il Carducci poi compose l’ode barbara “Miramar”, suicidio del principe ereditario Rodolfo, assassinio dell’imperatrice Sissi, assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia).

L’autrice si sofferma sugli aspetti politici, sociali e religiosi del personaggio, che definisce “vittima innocente d’un massacro inaudito”, “Kaiser martire” e “operatore di pace per i suoi popoli”: il tentativo di conciliazione dei popoli nella monarchia, l’idea di riforma dello Stato assolutista in uno confederale, la concessione dell’amnistia e quella della grazia ai colpevoli d’alto tradimento, la nomina d’un ministro della sanità, la sostituzione del feldmaresciallo Conrad che aveva fatto uso delle corti marziali, il divieto di bombardamenti sui civili e d’uso del gas contro i nemici; e poi la rigorosa formazione cattolica, le raccolte di denaro che da ragazzo faceva per i poveri, le consistenti erogazioni benefiche che da imperatore faceva col suo denaro privato, il correre da una trincea all’altra per visitare combattenti e feriti, la prigionia e le altre umiliazioni subite, i pacifici tentativi di ripresa del trono, fatti per dovere verso la dinastia e verso i suoi popoli ed escludenti ogni spargimento di sangue, il tradimento da parte del vicario del regno ungherese Horty, il suo tenere sempre un rosario d’oro in tasca, le frequenti preghiere, messe, confessioni e comunioni, la costante sottomissione alla volontà di Dio e l’accettazione incondizionata della malattia, della sofferenza e della morte in un’esemplare agonia. In pratica, come l’imperatrice Sissi assassinata, anche Carlo I prigioniero ed esiliato pagò colpe non sue. E indubbiamente sono queste le pagine più commoventi e pregnanti, nelle quali il tono — prima disinvolto e brioso — si fa meditativo, teso a delineare l’itinerario del personaggio verso la santità.

La ricerca della pace era stato il primo obiettivo di quest’imperatore fin dal suo insediamento, quando aveva solennemente dichiarato: “Voglio fare di tutto per eliminare nel più breve tempo possibile gli orrori e i sacrifici della guerra e riconquistare per i miei popoli le benedizioni della pace dolorosamente perdute.” E perciò il 4 Novembre 1918, all’armistizio, egli anzitutto fece celebrare una messa di ringraziamento nella sua cappella privata per la riconquistata pace; e il successivo 31 Dicembre, recatosi in chiesa per il tradizionale Te Deum di ringraziamento di fine d’anno, a chi gli obiettava che nell’anno stesso c’era stata la disfatta, rispose che bisognava ringraziare Dio per la fine della guerra e il ritorno della pace. Insomma il beato Carlo I era un capo di Stato anomalo fra i tanti “signori della guerra”.

Circa le cause della fine dell’impero asburgico, l’autrice parla delle guerre, delle potenze emergenti e delle rivendicazioni nazionalistiche. Tuttavia non si sofferma su quest’ultima causa, cioè il risveglio dei popoli, che certamente fu determinante, se si considera che gli ultimi anni dell’imperial-regio governo, caratterizzato da una severa intolleranza ideologica, furono quelli in cui insorsero contro d’esso centinaia di migliaia di patrioti italiani. L’autrice stessa definisce Francesco Giuseppe “padre reazionario” (p. 41) e “sovrano assoluto” (p. 47); e riconosce che i popoli dominati erano “alla fine solo a fatica tenuti a riga” (p. 55). Si può aggiungere che proprio allora furono mandati al patibolo molti nostri patrioti, fra cui — solo per fare qualche esempio — i veneti Iacopo Tasso e Pierfortunato Calvi, i mantovani martiri di Belfiore, i trentini Cesare Battisti e Damiano Chiesa, gl’istriani Nazario Sauro e Fabio Filzi. Infatti è vero che tale regime, fra l’altro dotato d’un puntuale ed efficientissimo sistema burocratico-amministrativo (che sotto questo punto di vista ne faceva uno Stato modello), rispettava le lingue, le culture locali e le tradizioni delle varie nazionalità, ma non è vero che permettesse la libertà di pensiero: e al riguardo basta sfogliare la nostra letteratura risorgimentale per convincersene.

Esaltando l’Austria-Ungheria, l’autrice esalta anzitutto la mitica capitale Vienna, splendida per arte, musica e feste, come quella del Corpus Domini, che era la festa della dinastia: una città dominata dalle luci, dall’Opera, dalle coreografie, dai walzer degli Strauss. E con Joseph Roth afferma che la guerra si chiamò mondiale a causa dell’attacco distruttivo sferrato al proprio mondo ideale: l’Austria-Ungheria e la dinastia asburgica.

In questa ricostruzione non mancano le curiosità, come quella dell’imperatore Francesco Giuseppe che, odiando le novità tecnologiche (elettricità, automobili, ecc.), fece relegare il telefono nella stanza del servizio igienico, col risultato che questo risultava sempre “occupato”, e quella dell’elencazione dei titoli di lui defunto, al momento di chiederne la sepoltura ai Cappuccini: elencazione che occupa quasi mezza pagina, ma che viene respinta dal padre guardiano, il quale esige soltanto la semplice presentazione d’un grande peccatore. E potrebbe interessare anche apprendere che il re Giovanni di Sassonia è stato un dantista, che ha lasciato una traduzione in tedesco della Divina Commedia con lo pseudonimo di Filarete.

Anche questo libro contiene un pregevole inserto fotografico con dettagliate didascalie: momenti di vita pubblica e privata dell’imperatore e dei suoi congiunti. Oltre ad una bibliografia essenziale e ad alcuni giudizi relativi a precedenti libri, ci sono poi due postfazioni e altrettante appendici di Franco Fornasaro e Renato Borsotti, nonché altre due appendici di Carlo Montani e Dino Casagrande.

In conclusione, Finis Austriæ / La santità dell’ultimo imperatore di Romana De Carli Szabados è un libro che sta fra la storiografia, l’agiografia e l’edificazione. Esso si legge con interesse e piacere, non soltanto per l’appassionata ricerca e l’elevato esempio religioso e morale fornito, ma anche per la forma linguistico-espressiva, che — eccettuando alcuni refusi e sviste varie — risulta chiara e scorrevole, mentre l’impaginazione è ordinata ed elegante, con caratteri tipografici che rendono agevole la lettura.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, sett.-ott. 2012]


Romana De Carli Szabados, Fine della Grande Guerra sulla via di casa / Vinta la guerra, persa la pace, Etabeta, Lesmo, 2019, pp. 242, € 18,00.

Scritti storici sulla Grande Guerra auspicanti una perenne pace mondiale

Con un’elegante copertina e un ricco corredo iconografico Romana De Carli Szabados ha raccolto nell’antologia Fine della Grande Guerra sulla via di casa / Vinta la guerra, persa la pace (Etabeta, Lesmo, 2019) gli scritti sulla Grande Guerra di circa 35 autori contemporanei, italiani e stranieri, spesso noti scrittori e giornalisti di vaglia, alcuni dei quali — magari alti ufficiali in riserva, già autori d’opere specialistiche — qui presentano lunghi e articolati saggi. Il conteggio degli autori non è facile, dato che nell’indice risultano soltanto i titoli degli scritti e non anche i nomi dei loro autori, e nel volume nemmeno esiste un elenco degli autori: e quindi per fare la conta è necessario sfogliare tutte le pagine, dove peraltro si nota che alcuni scritti mancano dell’indicazione dell’autore, mentre altri indicano due o tre autori.

Ma non è soltanto questo il difetto dell’opera: gli scritti non sono collocati nell’ordine alfabetico dei loro autori e nemmeno in base a qualche criterio di logica successione. Inoltre l’impaginazione è disordinata: titoli mal posizionati, asterischi e note fuori posto, divisione di sillabe in corso di riga, periodi bruscamente interrotti anche a mezza riga che proseguono nella riga successiva (magari dopo una o più righe lasciate in bianco), didascalie d’immagini diventate titoli di paragrafi; alcune pagine sono malamente leggibili a causa di scarsa inchiostrazione e infine ci sono diversi sbagli e altre sviste che probabilmente avrebbero potuto essere evitati se ogni autore avesse avuto la possibilità di correggere le sue bozze.

Eppure, anche se la forma lascia molto a desiderare, fin dalle prime pagine ci si rende conto dell’importanza di questo volume. Romana De Carli Szabados, che ha dedicato tutta la sua lunga vita alla ricerca storica, con questa pubblicazione ha di fatto completato la sua precedente trilogia per il centenario della prima guerra mondiale, fornendo — grazie ai vari contributi — fondamentali documenti (alcuni di prima mano) e utili considerazioni su un conflitto che il papa Benedetto XV definì “inutile strage” e che certamente avrebbe dovuto e potuto essere evitato: bastava che — in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli, da sempre presente nelle coscienze dei ben pensanti e poi proclamato dal presidente statunitense Wilson — si fossero interpellati mediante referendum tutti gli abitanti delle zone contese per sapere come e con chi essi volessero stare e quindi far decidere da loro i confini degli Stati.

Senza voler fare una graduatoria e torto a qualcuno degli autori inclusi, non si può non menzionare alcuni lavori più significativi. Per le dettagliate informazioni e le opportune considerazioni sono particolarmente apprezzabili i contributi: “In memoria del soldato di fede” di Franco Fornasaro (p. 35), “Una pace avvelenata” di Sergio Tazzer (p. 38), “La grande guerra” e “Francesco Baracca” di Renato Borsotti (pp. 46 e 60), “La pace di Versailles…” di Lorenzo Cadeddu (p. 70), “Il volto ritrovato” di Vincenzo Martines (p. 85), “Il ritorno in patria dei reduci ungheresi…” di Gizella Nemeth e Adriano Papo (p. 89), “L’eredità della Grande Guerra. I reduci” di Francesco Lusciano (p. 97), “11 Novembre 1918” di Federico Lauretta (p. 125), “La vittoria mutilata” di Giuseppe Buratti (p. 127), “I dieci giorni della disfatta di Caporetto…” di Luigi Perini (p. 130, pur con qualche imprecisione), “Audace ma sfortunata incursione nautica dal Garda” di Gianluigi Peretti (p. 135), “Il ritorno” d’Armando Mondin (p. 140), “Italo Balbo” di Ronald Crisp (p. 184). Si sarebbe apprezzato di più il contributo “Ebrei negli eserciti italiani e asburgici nella Grande Guerra” di Marco Apollo (p. 147) se non fosse stato dissestato nella stampa: esso, fra l’altro, esalta la figura del patriota triestino Giacomo Venezian, docente di diritto nelle università di Camerino, Messina e Bologna, ideatore e fondatore della Società Dante Alighieri, volontario di guerra caduto sul Carso nel 1915; e lo stesso si potrebbe dire di “La guerra continua” di Piero Turco (p. 217) se il contributo fosse stato più chiaro. Sono fuori tema alcuni scritti relativi alla seconda guerra mondiale e all’esodo degl’istriani, giuliani e dalmati, ma si leggono con interesse perché concernenti vicende pur esse dolorose atte a far conoscere e pensare. E infine fanno seriamente riflettere anche l’elegiaco racconto “Picnic a Redipuglia” di Paolo Rumiz (p. 231) e la poetica (e amara) “Chiusura” di Carla Guidoni evocante l’urlo d’una madre addolorata (p. 238).

Ed è sulla scorta di questa chiusura e di tutto il contesto che i lettori possono rivalutare l’intero volume, rendendosi conto dell’assurdità d’una guerra che arrecò tanti lutti e altri indicibili danni al mondo intero, anche se al fronte si sviluppò un senso di fratellanza fra i commilitoni e nelle nostre trincee — fra soldati provenienti da tutte le regioni e spesso parlanti incomprensibili dialetti — si formò la consapevolezza d’appartenere ad un’unica nazione (sentimento nazionale). Al pensiero delle madri addolorate ovviamente s’associa quello dei caduti in combattimento, dei dispersi, dei decimati, dei giustiziati, dei feriti, dei prigionieri, delle vedove, delle sorelle, degli orfani. Ai lettori appare grave anche il problema del reinserimento nella vita sociale e produttiva dei reduci e profughi, dei mutilati e invalidi, degli psicopatici e altri alienati causati dalla guerra, delle donne abbandonate e diventate sostitute degli uomini nei lavori pesanti, delle famiglie sfasciate, dei figli illegittimi, della cosiddetta “vittoria mutilata”, della rapida nascita di totalitarismi quali il comunismo, il fascismo e il nazismo. E in definitiva questi scritti storici — quasi riecheggiando il verso finale “I’ vo gridando: Pace, pace, pace!” della canzone del Petrarca ai signori d’Italia che comincia con le parole “Italia mia, benché ’l parlar sia indarno” — auspicano che, finita l’era dei padroni del mondo, i quali si ritenevano anche padroni della vita e della morte dei cittadini, l’essere umano non venga più considerato carne da macello: fermo restando che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino” (art. 52 della Costituzione italiana).

Perciò, nella prospettiva d’una perenne pace mondiale, è sicuramente notevole il merito di Romana De Carli Szabados per la cura e pubblicazione di questa raccolta. Tuttavia in un libro del genere, pur deplorandosi la guerra da ogni punto di vista e in tutte le sue espressioni, stona la presenza di qualche contributo palesemente antitaliano e austriacante.

Carmelo Ciccia

Cartolina patriottica del 1915

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2019]


Domenico Defelice, Alpomo, Pomezia-Notizie, 2000, pagg. 84, € 15.

Nel canto XI del Paradiso Dante osserva che, mentre lui è tanto gloriosamente accolto in cielo, sulla terra gli uomini s’affannano in tutt’altre faccende affaccendati, fra le quali faccende ci sono il rubare e lo svolgere attività politica. Ed è strano che il Poeta abbia accostato questi due concetti: come se ci fosse una contiguità fra le due cose. E già lo stesso Dante aveva “sistemato” vari uomini politici nella bolgia infernale dei barattieri (Inf. XXI).

Questo poema in sei canti di Domenico Defelice è incentrato proprio su una triste pagina di baratteria politica italiana: quella che comunemente viene chiamata “Tangentopoli”, relativa all’ultimo quarto del sec. XX. Anche se a volte si fa riferimento a mille anni fa, i nomi e cognomi dei politici sono tanti e lampanti, ben noti alle cronache giudiziarie del secolo scorso; ed è inutile ripeterli qui perché appunto noti a tutti. Semmai ci si può fermare a considerare i personaggi che appaiono.

on nomi fittizi, come l’Alpomo (Italia) del titolo e il cavaliere Ermelindo (Di Pietro) col suo ronzinante.

Man mano che leggiamo ci vengono in mente nomi di poeti come Cervantes, Tassoni e quel Merlin Cocai alias Folengo che storpiava il latino inventando la lingua maccheronica a fine di comicità. E la definizione che si darebbe di quest’opera è quella di poema eroicomico: una definizione inesatta, perché, mentre i poemi di questo genere tendevano tout court al divertimento rivestendo d’aulicità e paludamenti vari certe vicende banali e ridicole, nel poema del Defelice c’è una profonda serietà che va al di là del pur cercato effetto comico e che è sottesa al sarcasmo.

Nella sua collaudata perizia l’autore, che ha alle spalle quasi mezzo secolo d’attività letteraria, è ricorso a numerosi mezzi: la stessa suddivisione in canti è tipica del poema, ma va osservato attentamente lo stile con tutti i suoi ritrovati, che all’occorrenza sono metrica, rime, arcaismi, vocaboli altisonanti, struttura di versi e periodi. E i sottotitoli laterali più che snellire il lavoro, vogliono conferire un alone di classicità.

Fra gli autori riecheggiati ci sono anche Leopardi e Pirandello: quest’ultimo viene in mente per una situazione analoga a quella dei Sei personaggi in cerca d’autore, quando i personaggi decidono d’agire in proprio e contro la volontà dell’autore.

Il linguaggio a volte si fa crudo per esprimere il disprezzo nei confronti d’una gentaglia che ha fatto mercato d’Alpomo-Italia, per la quale l’autore mostra sincero affetto e interesse. Ma quando costei alla fine, con soddisfazione di tutti, viene liberata, non possono mancare gl’interrogativi del lettore: perché la magistratura italiana si svegliò all’improvviso, dato che il dilagare della corruzione politica era noto da tempo? forse si voleva distruggere soltanto una parte politica, creando quell’alternanza di governo che sembrava impossibile potesse scattare elettoralmente? e perché il cavaliere senza macchia e senza paura (Di Pietro) abbandonò il campo, quando tutto il popolo italiano confidava in lui? Sono interrogativi ancora senza risposta; ma al Defelice va il merito d’averli suscitati.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, apr. 2003]


Domenico Defelice, Pagine per autori calabresi del Novecento, Accademia “Il Convivio”, Castiglione di Sicilia, 2006, pagg. 174, € 10.

Forse il titolo di questo libro avrebbe meglio potuto essere Pagine su autori calabresi del Novecento (ad indicare l’argomento più che il vantaggio e la destinazione delle pagine) o meglio ancora Profili di autori calabresi del Novecento. In effetti si tratta dei profili d’una cinquantina d’autori calabresi tracciati dal Defelice su svariati periodici mediante articoli, recensioni e saggi, in un’attività giornalistica, critica e scrittoria in generale di circa mezzo secolo. Gli autori (tranne il primo) sono collocati in stretto ordine alfabetico; e quindi la raccolta costituisce un utile prontuario, facilmente consultabile all’occorrenza.

Ora non entriamo nel merito della letteratura calabrese, una delle più feconde; ma ci soffermiamo sulle caratteristiche di questo volume, il quale dà a colpo d’occhio la possibilità d’avere un panorama letterario dei più consistenti. Qui troviamo autori che abbiamo conosciuto personalmente e su cui abbiamo anche scritto (Domenico Destito, Francesco Fiumara, Maria Teresa Liuzzo) e altri che abbiamo imparato a conoscere per lunghi anni sulle pagine di prestigiose riviste come “La Zagara”, “Il letterato”, “Calabria letteraria”, “La procellaria”, “Le Muse”: il fior fiore della cultura calabrese. E troviamo anche rimandi a noti autori d’altre regioni (Umberto Saba, Lionello Fiumi, Vincenzo Rossi, ecc.) o continenti (Orazio Tanelli), nonché ad italianisti stranieri come Paul Courget e Solange de Bressieux, anche questa personalmente conosciuta e che ricordiamo con gratitudine per una pregiata traduzione.

Ma anche fra i non conosciuti personalmente facciamo delle scoperte: anzitutto Luigi Aliquò-Lenzi, direttore della biblioteca civica di Reggio, che sentiamo vicino per i suoi saggi su Dante del 1915 e del 1921; Ettore Alvaro, discepolo del Rohlfs, il filologo tedesco sul quale pubblicò un interessante volumetto nel 1990; Luigi Cunsolo, autore prolifico ed eclettico, anche lui su Dante nel 1965/67; e poi ancora Loreley Rosita Borruto, Rocco Cambareri, Rino Cerminara, Antonio Coppola, Rocco Distilo, Antonio Piromalli, Geppo Tedeschi e Giuseppe Tympani (per citare soltanto alcuni a cui sono dedicati significativi approfondimenti).

Certo, in un lavoro del genere, trattandosi d’una raccolta di pagine già pubblicate, non sempre le notizie biografiche risultano esaustive; anzi sarebbe stato opportuno che gli estremi biografici (luogo e data di nascita ed eventualmente di morte) fossero stati inseriti per tutti gli autori, magari sotto i rispettivi titoli o in nota. Quello che è certo, però, è che di ciascuno si segue l’attività letteraria sempre con attenzione e con scrupolo critico (due costanti negl’interventi del Defelice) e a volte per rendere documentato e vivo il discorso si riportano dei brani.

Nel libro ci sono alcuni refusi: ad esempio, il Cunsolo verso la fine del saggio a lui dedicato è detto Consolo, confondendosi perciò col noto scrittore siculo-lombardo; ma nel complesso esso si legge volentieri, grazie anche alla capacità stilistica del Defelice. Il quale, per rendere completo il prontuario, forse avrebbe potuto inserire nell’ordine alfabetico degli autori calabresi anche il suo nominativo, invece di costringere il lettore che non lo conosca bene (ma chi non conosce Domenico Defelice?) a ricorrere all’ultima di copertina per trovare la striminzita sintesi d’un excursus letterario lungo quasi una vita.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, ag. 2006)


Domenico Defelice, Rudy De Cadaval / Una vita per la poesia, Istituto Editoriale Moderno, Milano, 2005, pagg. 128, euro 20.

In questi ultimi tempi fioriscono le biografie di letterati scritte da altri letterati, che spesso si risolvono in apologie, scambi di cortesie e incensamenti reciproci degli autori. Nulla di tutto ciò nel caso in esame: Domenico Defelice, operatore culturale di lungo corso, affronta il De Cadaval col distacco necessario alla credibilità del lavoro, pur non nascondendo la sua forte simpatia per il personaggio, a cui — com’egli dichiara — deve il suo stesso modo di far critica. Ed è grazie alla complessiva consonanza col personaggio trattato, sia pure con qualche distinguo, che il Defelice s’è posto al lavoro ed è riuscito a portarlo a termine in modo apprezzabile.

Rudy De Cadaval (Giancarlo Campedelli, nato a Verona nel 1933) è da mezzo secolo uno dei protagonisti più in vista della scena letteraria del nostro tempo; e rendere la dimensione d’un personaggio siffatto non è impresa da poco, dovendosi sviscerare la numerosità e varietà della sua produzione, nonché il suo terreno culturale, formativo ed espressivo. Eppure il Defelice è riuscito egregiamente nell’intento, fornendo una biografia-monografia che si può definire perfetta, se si eccettuano qualche iperbole e alcuni refusi e sviste, presenti anche dopo la compilazione dell’errata-corrige.

In sostanza il Defelice è riuscito a delineare la statura del De Cadaval, cogliendone anzitutto la storia personale e umana nella sua evoluzione, nelle sue aspirazioni, nei suoi convincimenti, non senza far luce sul periodo storico, sull’ambiente sociale e sul variegato mondo intellettuale gravitante attorno al personaggio.

Dopo l’ampio excursus sul personaggio stesso, l’antologia poetica presentata dal Defelice, per quanto necessariamente ridotta, non soltanto è sufficiente a dare un’immagine assolutamente corretta del poeta, andando all’essenza della poesia del De Cadaval, ma anche ha il pregio di recare delle preziose note critiche, che, pur essendo strutturate in modo scolastico, e forse grazie a tale strutturazione, acquistano il loro pregio nel caleidoscopio del loro contenuto, spaziante dall’informazione alla spiegazione e alla critica storico-estetica, col supporto dei necessari collegamenti e confronti.

Esaminando la saggistica, il Defelice trova il radicamento d’essa nell’approccio del De Cadaval col persiano Omàr Khàyyam, passando poi per altri personaggi che hanno fatto storia non soltanto culturale, ma anche umana e civile, ad esempio come Hemingway, Wilde, D’Annunzio, Quasimodo, Salgari, Mussolini, per arrivare al concetto di patria secondo il colore delle camicie di turno: nere, rosse, verdi. E a questo proposito l’autore, senza nascondere i suoi orientamenti politici, ha l’occasione d’esprimere i suoi punti di vista in perfetta autonomia e a volte in dissidenza dal De Cadaval. In particolare proclama il suo concetto di patria con una frase esemplare che qui vale la pena di riportare a futura memoria: “Sentirsi orgogliosamente Italiani non significa denigrare, negando agli altri popoli pari dignità e rispetto, ma riconoscere e amare ideali e valori solo nostri, ai quali non è giusto rinunciare.” (pag. 102).

L’esame della narrativa e del teatro, poi, porta il Defelice a studiare la posizione del De Cadaval rispe